VI. Mea maxima culpa
“𝓐𝓶𝓪, 𝓪𝓶𝓪 𝓯𝓸𝓵𝓵𝓮𝓶𝓮𝓷𝓽𝓮, 𝓪𝓶𝓪 𝓹𝓲𝓾’ 𝓬𝓱𝓮 𝓹𝓾𝓸𝓲 𝓮 𝓼𝓮 𝓽𝓲 𝓭𝓲𝓬𝓸𝓷𝓸 𝓬𝓱𝓮 𝓮’ 𝓹𝓮𝓬𝓬𝓪𝓽𝓸 𝓪𝓶𝓪 𝓲𝓵 𝓽𝓾𝓸 𝓹𝓮𝓬𝓬𝓪𝓽𝓸 𝓮 𝓼𝓪𝓻𝓪𝓲 𝓲𝓷𝓷𝓸𝓬𝓮𝓷𝓽𝓮.”
𝓦𝓲𝓵𝓵𝓲𝓪𝓶 𝓢𝓱𝓪𝓴𝓮𝓼𝓹𝓮𝓪𝓻𝓮, 𝓡𝓸𝓶𝓮𝓸 𝓮 𝓖𝓲𝓾𝓵𝓲𝓮𝓽𝓽𝓪
*
I giorni seguenti passarono avvolti nella nebbia, confusi, sfumati in un bianco latte di foschia.
Il collegio tornò alla normalità, se non per il particolare che ormai ogni giorno al mattino lui trovava le sue scarpe fradicie dentro la tinozza con l’acqua di Cyril, una rappresaglia dei suoi compagni che si vendicavano di lui per aver difeso il novellino, che da solo avrebbe potuto sopportare quella punizione.
Lui e William non ebbero più occasione di scambiarsi baci tremanti e appassionati, di mischiare i loro respiri nell’ombra dello scantinato silenzioso. Kenton tenne il loro piccolo segreto, non rivelò neanche a Cedric cos’era successo, ciò che avevano fatto doveva restare nascosto agli occhi degli altri studenti e del Signore.
Eppure a Kenton ciò che avevano avuto, il loro incontro fugace che l’aveva acceso come il fuoco greco, impossibile da spegnere, non era bastato. Si sentiva bruciare dentro al solo incrociare del suo sguardo, quel singolo tocco di labbra l’aveva rovinato per sempre, distrutto, ammalato. Ogni volta che William incrociava gli occhi coi suoi, che gli parlava, ogni volta che gli rivolgeva quel sorriso complice inteso per lui e lui soltanto, si sentiva preso da un fuoco dentro che lo consumava. Come San Lorenzo sulla graticola quello era il suo martirio, la tortura a cui era sottoposto il suo cuore.
La notte, prima di dormire, riviveva quel momento ancora e ancora, onirico e irreale, e aveva quasi l’impressione che fosse frutto della sua fantasia. Sembrava così lontano allora, l’attimo che le loro labbra si erano toccate, il nero di quella notte eterna che li aveva avvolti, in una dimensione infernale in cui tutto era tagliato fuori, persino Dio.
Gli sembrò allora di aver attraversato un varco aperto da quei crocifissi rovesciati, un varco verso un regno da incubo dove ogni peccato poteva essere commesso senza punizione, dove la sua perversione poteva essere compresa e accolta, la sua perversione considerata quasi normale. Un mondo di oscurità e ombra in cui potevano essere liberi di essere male senza conseguenze, di bruciare tra le fiamme senza che prendesse fuoco la loro anima.
E se per entrare in quel luogo demoniaco qualche mostro fosse scappato fuori, lui avrebbe accettato quelle conseguenze con serenità.
Era passata poco meno di una settimana da quando era successo, era sabato e quel giorno non ci sarebbe stata né lezione né la messa, prevista per la domenica mattina. Era l’unico giorno della settimana in cui ai ragazzi era permesso indugiare nel sonno sin dopo che il sole aveva fatto capolino all’orizzonte, e tutti gli studenti avevano la piena intenzione di sfruttare quella possibilità.
Quando Kenton aprì gli occhi di soprassalto, però, quella mattina il sole non era ancora sorto, né lui aveva riposato abbastanza a lungo. La governante Beverly, furiosa di una rabbia cieca e assordante, aveva spalancato la porta della camerata di nuovo e gridava a pieni polmoni.
“Giù dal letto! Sveglia! Vi voglio tutti nell’androne, subito!”
Kenton si alzò a sedere, la mente annebbiata e la testa dolorante. Tirò su col naso, sentendosi mancare il respiro. Da qualche giorno stava male, aveva un principio di influenza, forse dovuto al fatto che al gelo del collegio sommava le sue scarpe sempre bagnate al mattino. Si tamponò il naso con un fazzoletto di tela che avrebbe fatto lavare agli inservienti quanto prima, e si alzò in piedi. La sua pelle nuda toccò la superficie di marmo ghiacciato, mentre i compagni si svegliavano e lui andava a recuperare le sue scarpe, di nuovo nella tinozza. Confidava che col tempo i suoi si sarebbero stancati di quella vendetta, era solo questione di tempo.
“Tutto okay, Ken?”
La voce di Cedric gli arrivò ovattata alle orecchie, distante, e lui si ritrovò ad annuire nonostante il dolore alle tempie che il gesto gli provocava. Aveva freddo con la vestaglia da notte, e si sarebbe per giunta dovuto svestire per infilarsi la divisa in quel momento.
“Non sembra, amico. Vuoi che chiami qualcuno?”
“Sto bene,” mormorò, la voce che gli raschiava in gola come carta vetrata.
Avvertì il peso di uno sguardo grave su di lui e si voltò, trovando ciò che si aspettava. William aveva gli occhi scuri puntati su di lui, seri e immutabili, due varchi nel buio. I due ragazzi si guardarono per qualche istante, senza poter far nulla per concretizzare quella vicinanza a cui auspicavano con tanta veemenza entrambi. Almeno, Kenton era così che si sentiva, non aveva prove che dimostravano questa speranza nell’altro.
“Beh, allora sbrigati dai,” sospirò Cedric, sedendosi sul letto e sfilandosi la veste, esponendo curve generose di pelle morbida. “Lei darà di matto se tardiamo.”
Anche Kenton si spogliò allora, tremante dal freddo e confuso dal dolore. Non si voltò a osservare William che si cambiava, anche se sentì una spinta a farlo, un magnetismo quasi irresistibile. Sarebbe stato avventato e pericoloso, non se lo sarebbe potuto permettere, così non lo fece.
Quando fu vestito e si fu infilato le scarpe bagnate e gelide, come camminare a piedi scalzi sulla neve fresca, scese giù all’ingresso con gli altri. Ogni passo che faceva la sua scarpa squittiva di un fastidioso rumore bagnato, viscido e vischioso. Fu già dal corridoio che comprese il problema della governante Beverly. Sui quadri dei Santi martiri che solitamente scrutavano gli studenti coi loro sguardi di agonia, stava uno strappo a mo’ di croce rovesciata, due tagli da cui pendevano le porzioni di tela come lembi di pelle scorticata. Ogni quadro alle pareti aveva quel taglio grottesco e brutale, facendo apparire sui dipinti tante bocche affamate, altrettante porte verso il suo privato mondo di orrori in cui il peccato era la normalità.
Il brusio tra la folla di studenti cresceva, e le urla della donna si alzavano verso il soffitto affrescato, che si stagliava su di loro tra i motivi di scene sacre e decorazioni d’oro.
Giunsero all’ingresso dell’edificio, il salone più grande del collegio, là dove la statua di Saint Cuthbert svettava, col cappio al collo e la pelle strappata dal corpo, sui ragazzi impauriti ed arrabbiati.
“Conoscete le regole!” disse la governante, una volta che si furono disposti in file ordinate com’era stato loro richiesto. “Ho bisogno di sapere chi è stato. Se non salterà fuori, verrete tutti puniti in egual modo come colpevoli. E quello che farò non vi piacerà.”
Kenton sentì il brusio intorno a lui aumentare, ma non riusciva a capire ciò che i suoi compagni dicevano. Era tutto distante anni luce da lui, confuso e vago, e anche gli strilli della governante non gli trapassavano il cervello e bucavano i timpani com’erano soliti fare quando la donna si scaldava a tal punto.
Sentì indistinta la voce di William dire qualcosa, di certo chiamato in causa ancora una volta da Hunter, ma quel giorno non intervenne per difenderlo, anche se avrebbe voluto. Sentì le gambe cedere e la voce di Cedric chiamare “Ken? Ken?” poi la stanza cominciò a ruotare intorno a lui, arrivò una fitta di dolore, infine il nulla.
*
Quando si svegliò, il sole era alto sull’orizzonte e, pallido e lontano solo come a Dicembre sapeva essere, illuminava flebile la stanza, filtrato da nubi. Questo poteva significare solo una cosa, che lui aveva perso conoscenza per ore.
“Ma che diavolo…” chiese, la voce rauca e graffiante.
“Piano con le parole,” gli intimò una voce accanto al suo letto, “altrimenti ti mando giù con gli altri.”
Si schiarì la gola e strabuzzò gli occhi per mettere a fuoco ciò che c’era intorno a lui. Si trovava nella sua camerata, nel suo letto, senza scarpe ma con addosso ancora la divisa. Aveva freddo e mal di testa, si sentiva congestionato, e il suo stomaco provava un vago senso di nausea. “Cos’è successo?”
Seduto nel letto di Cedric, quello proprio accanto al suo, si trovava un inserviente che avrà avuto una ventina d’anni, forse poco di più, di cui Kenton non ricordava il nome. Le sue gambe penzolavano a ritmo come quelle di un bambino, e lo guardava con occhi un po’ seccati un po’ di scherno.
“È successo che ti sei preso una brutta febbre, e mi tocca starti dietro. Ma ti è andata bene, i tuoi compagni si buscano una punizione peggiore.”
“Cosa gli stanno facendo?”
Il ragazzo scrollò le spalle. “Sono in ginocchio sui ceci da ore. E ogni tanto, per rendere le cose più divertenti, arriva una bella cinghiata sulla nuca e sul collo.”
Kenton rabbrividì. Le cinghiate significavano che la governante e i professori erano davvero arrabbiati, questa volta. Allo stesso tempo, però, sentì come un peso che gli scivolava via dalle spalle. Se tutti erano stati puniti, significava che nonostante i tentativi di Hunter neanche questa volta le colpe erano state addossate su William.
“È stato difficile tenerti qui, sai? Un ragazzino ha fatto il diavolo a quattro perché non voleva lasciarti da solo. Abbiamo dovuto dare una cinghiata anche a lui per farlo smettere.”
“Cedric,” commentò Kenton, con un sospiro. “Gli ho detto mille volte che non deve…”
“So chi è Cedric,” lo interruppe, “è quel barile che ti sta sempre intorno. Questo era un altro, quello nuovo. Non si dava pace.”
A quelle parole, restò immobile e gli si mozzò il fiato in gola. Il pensiero di William che non aveva voluto lasciarlo ammalato in stanza da solo, che si era fatto prendere a cinghiate per restare con lui, gli strappò il cuore a metà tra il calore per il suo gesto e la preoccupazione di chi avrebbe potuto capire il perché. Represse un sorrisino perché non avrebbe saputo come giustificarlo e guardò il ragazzo seduto sul letto di Cedric come se gli avesse appena dato uno schiaffo, con sorpresa e incredulità. “Mi dispiace,” si decise infine a mormorare.
“Non scusarti per questo, scusati perché per colpa tua me ne sono dovuto stare qui a guardarti dormire mentre i miei compagni si beccavano tutto il divertimento.”
Kenton sapeva cosa quel ragazzo intendeva con ‘tutto il divertimento’, e cioè torturare gli altri studenti a cinghiate mentre, inermi e inoffensivi, stavano in ginocchio. Sapeva che certi inservienti provavano un piacere sadico nel battere gli allievi, ma non aveva mai sentito nessuno affermarlo con quella sicurezza e serenità.
Quelle parole gli provocarono un montare di rabbia tale che fu a un passo dell’alzarsi in piedi e saltargli addosso per mettergli le mani al collo. Forse l’avrebbe fatto, se non fosse stato tanto debole e la nausea non lo avesse costretto a letto per non rimettere il nulla che aveva mangiato.
Sentì il frullare d’ali di Cyril, che attendeva un pranzo che forse non sarebbe arrivato, e si decise a massaggiarsi le tempie doloranti. “Beh, puoi andare ora. Mi sento meglio.”
Il ragazzo si sporse in avanti e gli toccò la fronte con la mano. Quel tocco freddo e improvviso lo spinse a irrigidirsi sul suo letto, immobile per un’invasione tanto repentina del suo spazio personale. “Sei ancora caldo. Se non ti passerà in fretta chiameremo il medico per il salasso. Ti conviene rimetterti presto…”
Kenton rabbrividì. Aveva assistito a dei salassi prima, quando la febbre durava troppo e i ragazzini perdevano colore, energia, voglia di vivere. Talvolta la pratica funzionava, il medico riusciva a riequilibrare i fluidi corporei e lo studente si riprendeva, rinato a nuova vita. Altre volte la febbre era andata troppo in là e loro si spegnevano, senza clamore, con la sfilata delle madri in lacrime e dei padri dallo sguardo cupo che venivano a prenderne il corpo.
Non voleva fare quella fine.
“Non ci sarà nessun salasso,” disse. “Sto bene.”
“Ti lascio solo, allora,” rispose, scendendo dal letto con un saltello senza curarsi di allisciarlo. “Se hai bisogno di qualcosa, urla e qualcuno accorrerà.”
“Grazie,” mormorò, guardandolo allontanarsi. Non poté fare a meno di pensare che quel giovane stava andando dai suoi amici per colpirli con la fibbia dei suoi pantaloni, strappare loro la pelle e creare ematomi sui loro colli bianchi. Rivide l’immagine di William in terra nello scantinato, il livido sul volto, tremante e fragile, colpito dai suoi compagni codardi. Se avesse trovato altre ferite sul suo corpo avrebbe dato di matto, lo sapeva, avrebbe dato fuoco al collegio con sé ancora dentro dall’indignazione che avrebbe provato dentro di sé.
Eppure quel giorno il corpo di William era stato violato non dalla dolcezza dei suoi baci ma dalla cinghia di cuoio dell’inserviente, che crudele e dolorosa aveva distrutto i capillari e straziato quella pelle su cui avrebbe tanto volentieri passato la punta delle dita.
Cercò di non pensarci, aprì il suo libro là dove aveva lasciato il segno, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Sul suo grembo, là sul letto dove si trovava, cadde all’apertura il brandello di un foglio strappato, su cui erano annotate in calligrafia delle parole.
È peccato desiderarne troppa, di una cosa ch’è buona?
Se non ricordi che amore t’abbia mai fatto commettere la più piccola follia, allora non hai amato.
Cappella, subito prima di cena.
Ti aspetto,
W.
Kenton osservò quelle parole a occhi sgranati, fu come se sulla testa gli si fosse rovesciato un secchio di acqua gelata. Le due frasi del Come vi piace di Shakespeare lo stordivano e inebriavano, e quella promessa di un incontro riusciva a smuovergli le viscere, già provate dalla malattia. Sentì il respiro farsi affannato, il freddo che provava svanì per un attimo e pensò che forse era questo l’amore, forse era soltanto sciogliere il ghiaccio nelle ossa e sorridere non con le labbra ma col cuore.
Si portò il foglio al petto e sospirò, cercando di calmarsi. Come poteva sperare di passare inosservato se solo qualche parola su un foglio bianco riusciva ad accelerargli il respiro e imbambolarlo per più di un attimo?
Riprese il controllo di sé dopo lunghi secondi, quando si decise a nascondere il messaggio tra le pieghe del suo libro, al sicuro dove sapeva che nessuno l’avrebbe letto.
Restò là, seduto al suo capezzale, nonostante il freddo e le coperte abbassate solo sulle sue gambe, cadute come stracci abbandonati. Restò là senza più avere il cuore di aprire il suo libro e ricominciare a leggere, la sua mente un turbinio di pensieri, il mal di testa che aumentava e la debolezza che non era riuscita a rallentargli il cuore.
I suoi compagni, zoppicanti ed esausti, cominciarono a salire al dormitorio e prendere posto al loro letto, molti con gli occhi rossi e lividi sgargianti sulla pelle della nuca e del collo. Anche Cedric spuntò, malfermo sulle gambe, e non appena lo vide il suo sguardo si illuminò. Camminò più in fretta allora, sempre claudicante, arrancando sino al suo letto per poi collassarvi con un sonoro sospiro.
“Ced,” disse Kenton, allungando la mano verso di lui e vedendo che l’amico la allungava a sua volta. Le loro dita si sfiorarono. “Come stai?”
“Stavolta è stata tosta,” si lamentò, con un gemito. Aveva la voce tremante e aveva iniziato a massaggiarsi le ginocchia con una smorfia di dolore. “Tu? Stai meglio?”
“Sto meglio di te,” rispose, guardando il suo amico e sentendo la preoccupazione stringergli le viscere come una tenaglia.
“Già, ti è andata bene stavolta. E nessuno è più arrabbiato con te ora, penso ti lasceranno in pace. La nuova punizione ha cancellato tutto, ce l’hanno solo col novellino, adesso.”
“Con Bill? Perché?”
“Sono convinti sia stato lui. Hunter li ha plagiati per bene… penso gliela faranno scontare, adesso. Vedrai, i prossimi giorni non saranno divertenti per lui.”
“Dov’è ora?”
“Non lo so. L’avranno menato e buttato nello scantinato un’altra volta…”
Il cuore di Kenton si strinse a quelle parole. Lo vide ancora, proprio davanti a lui, umiliato e ferito. Lo vide tremante e indifeso, gli occhi scuri grandi che lo fissavano, sanguinante e in preda all’agonia, bello da star male.
Quando fu prima di cena, il ragazzo prese coraggio e si alzò. Cedric lo guardò, confuso e preoccupato, così si affrettò a rassicurarlo. “Vado ai servizi, credo di dover rimettere,” mormorò, ed era sicuro che la sua espressione di nausea sincera aiutasse a coprire la sua piccola bugia.
“Ti accompagno.”
“No, sei stato punito oggi, resta pure a letto. Andrò io, è qui vicino, vedrai che starò bene.”
“Sei sicuro?”
“Fidati di me.”
Detto questo, infilò le scarpe ancora umide e avanzò, lento e scarmigliato, verso il corridoio. Passò accanto ai bagni e li superò, con difficoltà e decisione, poi imboccò le scale. I quadri aperti in quel modo così grottesco erano stati tolti, per non turbare i ragazzi e per nascondere la vergogna di quell’atto sotto il tappeto.
Quando fu arrivato alla cappella, fu preso dal panico. E se William non fosse stato lì? Se si fosse trattato di una trappola? Se lui si fosse ritrovato ancora, solo e ferito, nello stanzino buio senza nessuno a cui chiedere aiuto?
Spalancò la porta della cappella con entrambe le mani, nonostante non avesse quasi più forze. L’ambiente sembrava deserto, la statua della Vergine contratta in una smorfia di dolore, il crocifisso dietro l’altare per ricordare a tutti la passione, le alte vetrate che proiettavano con la scarsa luce solare ombre colorate di sanguigno sulla navata spoglia.
“Bill?” chiese, per poi venire scosso da una furiosa serie di colpi di tosse. “Bill? Sei qui?”
Fu sul punto di uscire a cercarlo nello scantinato di nuovo quando, silenziosa, la porticina del confessionale si aprì. Al posto del prete, dove un pastore sedeva ogni domenica per ascoltare le confessioni, stava lui.
“Ciao,” gli disse, facendogli segno di avvicinarsi. Lui, come preso in trance, obbedì.
Camminò per la navata deserta, i suoi passi che sciabordavano al suo passaggio, e William tenne gli occhi fissi su di lui, come un felino con gli occhi fissi sulla sua preda.
“Che ci fai là dentro?”
“In questo modo, se qualcuno entrerà in cappella, non ci vedrà,” spiegò, per poi allungare la mano e trascinarlo con sé, chiudendo la porticina del confessionale stringendoli in quello spazio stretto dove a malapena entravano entrambi.
La sua vicinanza lo intossicava, era le sue foglie di coca, il suo oppio personale, e si ritrovò a non saper rispondere, aprendo la bocca senza sapere cosa dire. William gli prese il volto tra le mani allora, troppo vicino eppure non abbastanza, e d’un tratto non sentì più i brividi febbrili né la nausea.
“Sei bollente,” gli disse, poi sorrise. Era un sorriso furbo ma maligno, il sorriso del demonio e quello del peccatore. “Mi sei mancato, principino.”
Kenton non rispose che avevano vissuto insieme per tutti quei giorni, e non lo fece per due motivi distinti ed egualmente importanti. Il primo era che anche lui gli era mancato, stare senza le labbra di William su di lui era stato come stare senza bere per tutti quei giorni; il secondo era che il ragazzo aveva a quanto pareva deciso di rimediare al tempo perso e in quel momento lo stava baciando.
Il cuore di Kenton si allargò, li abbracciò entrambi, carne fresca e sanguinante, sinché non li ebbe ingoiati interi, loro e tutta la cappella e tutto il collegio e tutta Londra e tutto il mondo, così era grande il suo cuore mentre il ragazzo davanti a lui lo baciava e lo toccava, i loro corpi uno sull’altro, affamati.
“Stavolta ci vedrà,” sussurrò, tra gemiti e sospiri che forse si sentivano anche fuori da quel confessionale, non gli importava.
“Stai tranquillo,” mormorò William al suo orecchio, il suo fiato sulla pelle gli diede la pelle d’oca. “Non c’è nessuno qui.”
“Lui è in tutti i luoghi e vede tutto,” rispose, riuscendo contro ogni suo istinto a separarsi dal compagno. “Il Signore. Stavolta ci vedrà.”
“E se non mi importasse del Signore?”
Kenton si irrigidì e gli tappò la bocca con due mani. “Non puoi! Non puoi dire queste cose in chiesa!”
William si scostò le mani dal volto, senza difficoltà data la debolezza del compagno. “Se andrò all’inferno per questo, ne sarà valsa la pena.”
“Io non voglio andare all’inferno.”
“Prega, allora.”
“Cosa?”
“Prega, e il peccato non conta più. L’ha detto il pastore alla messa di Natale dell’altr’anno.”
“Sei sicuro? Ha detto proprio così?”
William, premuto contro di lui, gli soffiò piano sul collo, poi lo leccò. Kenton si lasciò sfuggire un gemito, questa volta non per la febbre. “Ha detto così. Prega, principino. Prega anche per me,” disse, per poi far scivolare la mano sul cavallo dei suoi pantaloni, estorcendogli un altro verso di piacere.
“Se prego il Signore non mi vedrà?”
“Promesso.”
La sua mano iniziò ad armeggiare con la cintura, e Kenton deglutì. “Confiteor Deo omnipotenti et vobis, fratres, quia peccavi nimis cogitatione, verbo, opere, et omissione,” mormorò, con voce strozzata, mentre l’altro lo liberava dalla fibbia di metallo.
“Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa,” completò l’altro, slacciandogli il primo bottone.
“Ideo precor beatam Mariam semper Virginem, omnes Angelos et Sanctos, et vos, fratres, orare pro me ad Dominum Deum nostrum.”
William cadde in ginocchio in quello spazio angusto, era incredibile che si fosse inginocchiato di nuovo dopo la sua punizione, e Kenton capì che lo faceva per lui, per consacrarsi a lui come i ragazzi si inginocchiavano ai piedi della Vergine, anche lui cercava di espiare i suoi peccati.
“Misereatur nostri omnipotens Deus et, dimissis peccatis nostris, perducat nos ad vitam aeternam,” sussurrò, tra i sospiri, e William, dal basso dove si trovava, gli sorrise del sorriso più bello che avesse mai visto, un sorriso velenoso e mortale.
“Amen,” disse, al termine della preghiera e, sporgendosi in avanti, lo svelò e poi l’accolse tra le sue labbra.
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