V. Da mi basia mille

“𝓕𝓾 𝓲𝓵 𝓽𝓾𝓸 𝓫𝓪𝓬𝓲𝓸, 𝓪𝓶𝓸𝓻𝓮, 𝓪 𝓻𝓮𝓷𝓭𝓮𝓻𝓶𝓲 𝓲𝓶𝓶𝓸𝓻𝓽𝓪𝓵𝓮.”
𝓜𝓪𝓻𝓰𝓪𝓻𝓮𝓽 𝓕𝓾𝓵𝓵𝓮𝓻, 𝓓𝓻𝔂𝓪𝓭 𝓢𝓸𝓷𝓰

*

Quando finalmente ai ragazzi fu concesso di alzarsi in piedi, le loro ginocchia non ressero subito. Kenton fece un primo tentativo ma aveva le gambe molli, doloranti, e si ritrovò a fare qualche passo e poi accasciarsi in terra di nuovo, troppo debole e sofferente per poter fare più di due passi di seguito. 

Cedric si era svegliato nelle ore successive, era rimasto per terra a singhiozzare, rannicchiato in un angolino, e in quel momento doveva essere coperto da lividi, nascosti dai vestiti che lo fasciavano.

Fu lui ad aiutare Kenton ad alzarsi ancora, seppur zoppicante, con lo stomaco che gorgogliava perché avevano tutti saltato il pranzo, la pausa annullata perché i ragazzi non potevano alzarsi dalla loro postazione.

Così si issò di nuovo, appoggiato all’amico ferito che però non aveva passato le ore in ginocchio come gli altri avevano fatto, più saldo sulle gambe. Provò a fare qualche passo con le ginocchia che tremavano, insieme ai suoi compagni che tentavano di fare come lui.

“Sarai contento, Ken,” borbottò Thomas, appoggiato alla cattedra per non cadere, il viso stravolto da uno sguardo stremato e di odio.

Il professore era già uscito dall’aula, andato a confrontarsi con gli altri, li aveva lasciati liberi di alzarsi e riprendere a camminare, anche se era difficile per tutti. Sentivano pianti a singhiozzi venire dalle aule dei ragazzi più piccoli,  e mentre Kenton si trascinava tra i crampi e i suoi muscoli straziati, i legamenti gonfi e le ginocchia coperte da un unico livido color vinaccia, non poté fare a meno di pensare che era tutta colpa sua.

Anche William si era alzato, a fatica e dolorante, era appoggiato al muro per non cadere. Newton, un ragazzo di un anno più grande che era stato bocciato, lo spinse con una manata e, poco stabile, lo fece finire di nuovo a terra. “Di’ la verità, è vero che sei stato tu. Hunter ha ragione.”

“Hunter è un idiota,” sibilò William, dal pavimento, non aveva perso la compostezza che lo contraddistingueva anche se aveva la mascella contratta dal dolore. “Non c’entro niente e tu lo sai benissimo.”

“No che non lo so. Sei appena arrivato e stranamente iniziano a succedere queste cose strane. Curioso, non trovi?”

“Come minimo è stato Hunter per incastrarlo,” mormorò Cedric, che ancora sorreggeva Kenton tenendolo a braccetto, il passo claudicante. 

“O magari sei stato tu,” aggiunse Thomas, stava guardando lui. “Hai detto di aver visto Bill nel suo letto ieri notte, vuol dire che eri sveglio.”

Kenton fece una smorfia. “Io? Mi conosci! Perché avrei dovuto fare qualcosa del genere?”

“Io continuo a puntare sul novellino,” sibilò Charles, gli occhi piccoli e chiari puntati su William. “Non mi convince la sua faccia.”

“Sarai bello tu.”

“Che cosa hai detto?” chiese il ragazzo, avvicinandosi di un passo con una smorfia per il movimento improvviso. “Cosa stai insinuando?”

“Lascialo in pace, Charlie,” ordinò Kenton, secco. “Il novellino non ha fatto niente, Hunter l’ha accusato solo per vendicarsi del fatto che gli ha rotto il naso.”

“Io non mi fido. Non mi fido di lui e neanche di te.”

Una manata sbatté sulla porta dell’aula facendoli sobbalzare. “Ancora qui? È ora di sgombrare, gli inservienti devono pulire!” La governante Beverly fece capolino dalla porta socchiusa, mozzando la discussione sul nascere. 

“Sì, signora,” mormorò Kenton, camminando a stento verso l’uscita. “Scusate, signora.”

La donna lo guardò, non un minimo di empatia e compassione le illuminò gli occhi fissi su di lui. “Che sia,” borbottò, per poi allontanarsi a chiamare gli studenti nelle altre aule.

Il ragazzo, aggrappato al suo amico e sentendo una fitta a ogni passo, passò accanto a William che tentava di nuovo di alzarsi in piedi, dopo la spinta ricevuta. Era finito di nuovo sui ceci, aveva una smorfia sul volto sofferente e infastidita, ma non sembrava colpito dalle accuse ricevute, non come Kenton si aspettava sarebbe stato.

Per un attimo ebbe l’impulso di tendergli la mano e aiutarlo a tornare in piedi. Era per terra, sembrava piccolo, fragile, anche se gli occhi erano più vivi e ardenti che mai. Kenton si sentì come di aprirsi la pelle e avvolgerlo, avvilupparlo in lui per nasconderlo agli occhi dei presenti. Scorticato come Saint Cuthbert avrebbe potuto proteggerlo, scaldarlo, nutrirlo come un grembo materno avrebbe fatto. 

Non lo fece. Non tese la mano, la sua pelle restò al suo posto, aggrappata alla sua carne e alle sue ossa, e piano piano uscì dalla stanza, lasciandolo solo con quelle persone che volevano vendicarsi di lui.

Con Cedric salirono le scale tenendosi al corrimano con tutta la forza che avevano, scaricando il peso sulle braccia e provando un’agonia a ogni passo, lui per le ore passate in ginocchio e il suo amico per le percosse ricevute. Salirono piano, con calma e sofferenza, circondati da altri compagni che facevano lo stesso, spauriti e in preda al dolore come animali bastonati. 

La scalinata di marmo ghiacciato fu lunga e infinita, e quando riuscì alfine ad arrivare al suo letto là si abbandonò, cadendo sulle molle cigolanti della brandina e mugolando dal sollievo. Si alzò le braghe, arrotolandole sino al ginocchio, e guardò la macchia rossastra tendente al viola scuro, indistinto grumo di sangue rappreso che sporcava la sua pelle bianca. 

Nessuno in dormitorio aveva voglia di parlare, si sentiva solo il pianto di Cyril, il piccolo corvo che Darcy aveva trovato, con un’ala spezzata, alla finestra il mese prima e aveva deciso di nutrire e allevare come suo. Il ragazzino gli dava acqua e carne e patate lesse rubati alle cucine due volte al giorno, puliva i suoi escrementi e lo accarezzava come un gatto. Il corvo, intelligente e sveglio, aveva imparato a riconoscerlo, e in quel momento piangeva come un bambino per la sofferenza del padrone e perché aveva fame, avendo quel giorno saltato il pranzo a causa della punizione. 

Kenton rabbrividì al verso dell’animale disperato, che ormai era divenuto una mascotte all’interno del dormitorio, un compagno simpatico e costante che portava leggerezza ai ragazzi e soprattutto a Darcy, il suo piccolo padrone designato.

Prese la sua copia di Notre Dame de Paris dallo sgangherato comodino accanto al letto e cominciò a leggere, cercando di isolare quel pianto costante che gli provocava brividi sulla pelle tumefatta e gli evocava brutti ricordi di un passato ormai lontano, che gli straziava il cuore.

*

Erano passate ore, quando alzò gli occhi dalla pagina e decise che delle conturbanti pulsioni di Frollo verso Esmeralda ne aveva avuto abbastanza, il suo mal di testa che non l’aveva abbandonato per tutto il giorno più forte che mai. Cyril si era calmato, ora che Darcy era andato da lui ad accarezzarlo e rassicurarlo, e Kenton decise che era ora di riposare un po’.

Alla sera, dopo le lezioni, i ragazzi erano liberi di fare ciò che volevano e girare per le aree comuni del collegio, stando attenti a non accedere alle aree vietate, come la sala della musica, aperta solo alla domenica, o le camere della governante e degli inservienti. Quel giorno però, doloranti e stremati, gli allievi del Saint Cuthbert erano tutti rifugiati nei dormitori, stesi a letto a massaggiarsi le gambe o, nel caso di Cedric, riprendersi dalle torture subite. 

Kenton si rigirò nel letto, sentendo un principio di assopimento che gli annebbiava la mente. Avrebbe fatto una breve pennichella per farsi passare il mal di testa, poi avrebbe ripreso a leggere o cercato di rimediare al danno fatto, riparando i rapporti coi compagni.

Fu proprio pensando ciò che i suoi occhi cercarono William con lo sguardo, lui, il simbolo di ciò che di avventato aveva fatto quella mattina, senza nessun motivo se non la sua solita sete di giustizia e forse qualcosina in più, lo stesso qualcosa che lo spingeva sempre a guardarlo quando entrava in una stanza, una mosca attirata dalla melassa, intrappolata nella dolcezza vischiosa di un paio di occhi neri. 

Il letto del giovane però era vuoto, e scorrendo il dormitorio con gli occhi non lo trovò, non era col gruppetto di ragazzi vicino alla finestra, seduto sul letto di un compagno, né da nessun’altra parte. 

“Qualcuno ha visto il nuovo arrivato?” 

Il suo cuore, per qualche motivo, si mise a correre. C’era qualcosa di strano in quell’assenza, che dava alla stanza un vuoto quasi siderale. William non era amico ancora di nessuno, non aveva ragione a presentarsi a un’altra camerata. Sarebbe potuto essere ai servizi, ma qualcosa dentro Kenton diceva che non era così. 

“Bill?” chiese Eustace, uno dei pochi che non sembrava arrabbiato con lui. “Non è salito da lezione, è da ore che non si vede.”

“Starà rovesciando qualche altro crocifisso,” esclamò Peter, “se ci fa avere un’altra punizione giuro che lo ammazzo con le mie mani.”

“Non essere stupido,” rispose Kenton, la preoccupazione che iniziava a montargli dentro, prepotente e lacerante. “Sai che non è stato lui. Quindi nessuno l’ha visto dalla fine della lezione?”

“Tu devi sempre fare l’avvocato degli sfigati?” chiese Peter, le gambe doloranti che penzolavano giù dal letto lungo e stretto in cui si trovava. 

Nessun altro rispose.

Kenton si alzò a fatica, le ginocchia ancora doloranti dopo ore. Prese il lumino sopra il suo comodino, lo accese con l’acciarino e proclamò “Vado a cercarlo.”

“Vengo con te,” mormorò Cedric, già in abiti da notte, le braccia e le gambe coperte di lividi bluastri. 

“No Ced, hai fatto abbastanza. Stai pure a riposare.”

“È grande,” disse Thomas, “non ha bisogno che gli fai da balia.”

“Oh, va’ al diavolo Tommy.”

Kenton Walker aveva sempre aiutato i novellini ad ambientarsi nel collegio, ricordava come ci si sentiva a essere un novellino a propria volta. Ricordava la sensazione di spaesamento e confusione, la mancanza di casa, il bisogno di affetto e di sicurezza, la sete di calore. 

Era solo per questo che in quel momento, con le gambe tremanti ancora attraversate da fitte fastidiose, si trovava con la candela in mano a vagare per i corridoi del collegio deserto. In genere a quell’ora i ragazzi attraversavano le aree comuni, si rincorrevano a giocavano, chiacchieravano e studiavano insieme. Quel giorno però, troppo provati dalla dura punizione, gli androni dell’edificio risalente a due secoli prima erano vuoti.

Kenton, zoppicante ma deciso, camminò per le fredde sale del Saint Cuthbert, osservando i crocifissi alle pareti, che erano tornati alla normalità. Quei simboli all’apparenza innocui di una storia di tortura e di passione gettavano un’ombra sinistra sul pavimento su cui procedeva, dando al luogo un’aria austera e severa, dove la sofferenza di Cristo faceva da padrona, esempio e aspirazione per i ragazzi che alloggiavano lì. I quadri alle pareti, di santi e martiri, aggiungevano all’atmosfera lugubre altra sofferenza. 

San Sebastiano, legato a un palo e il corpo martoriato dalle frecce, lingue scarlatte che colavano dalle sue ferite e l’espressione in estasi divina; Santa Lucia, gli occhi strappati dalle orbite tenuti in una mano, il volto sanguinante e le labbra piegate all’insù in un sorriso macabro; San Lorenzo, arso vivo sulla graticola, la pelle bruciata e sfrigolante, coperta di bolle purulente e dal fumo il cui puzzo poteva quasi essere sentito come se la scena stesse prendendo vita in quel momento.

Arrivò alle scale e si aggrappò al corrimano con una mano come se la sua vita ne dipendesse, tenendo la candela salda con l’altra. Sentì i muscoli delle gambe contrarsi in modo doloroso quando provò il primo passo. Gemette tra i denti, strizzando gli occhi. Il reggicandela nelle sue mani tremò, facendo tremolare a sua volta le ombre intorno a lui. Era penombra, il sole era al tramonto e il cielo velato, iniziava a fare buio sul serio. Si fece forza e fece un altro passo.

“Bill?” chiamò, con la speranza di sentire la voce del compagno.

Non ricevendo risposta, iniziò a preoccuparsi sul serio. 

“Bill?” 

Silenzio. 

Non avrebbe dovuto lasciare William in pasto a quei ragazzi che sospettavano di lui, che lo incolpavano per la loro punizione, e invece lui in modo codardo se n’era andato quel pomeriggio, tornando al dormitorio senza aiutarlo né curarsi di lui. 

“Bill?”

La sua voce echeggiò per l’ampia scalinata deserta, nessuno rispose ma i santi ai quadri lo osservarono, quasi infastiditi dall’essere disturbati nel loro dolore. 

Kenton, in preda ai crampi, scese le scale di ogni piano, bussò in ogni porta. Arrivò alla cappella e lì si affacciò, in un ultimo, disperato, tentativo. Talvolta alcuni ragazzi, dopo una punizione, si rifugiavano lì a chiedere perdono. Li trovava allora inginocchiati davanti alla statua della Vergine, a premere le labbra sui suoi piedi di pietra e supplicare il perdono. 

La navata non era molto lunga, solo otto panche per lato, e in fondo al corridoio stava l’altare. Un grande crocifisso si stagliava alto sull’ambiente, e subito sotto la statua della Madonna in lacrime, che osservava suo figlio sulla croce e si piegava su sé stessa, in preda al dolore più atroce. 

Le candele accese, voti degli studenti e dei docenti del collegio, davano alla cappella vuota un’aria cupa e spettrale, allungando le ombre e dando vita allo sguardo della Vergine disperata. Kenton si affrettò a chiudere la porta, poiché neanche là dentro si trovava ciò che cercava. 

Passò davanti alla porta dello scantinato, e notò che la porta era chiusa a chiave dall’esterno. Nessuno degli studenti aveva l’ardore di scendere sin lì, in quel budello di terra che si snodava sotto le fondamenta dell’edificio, puzzolente di muffa e senza finestre, buio con i vecchi mobili sfasciati, vecchie statue della chiesa e qualche attrezzo con cui degli studenti volontari curavano il giardino nel mese primaverile. 

La porta chiusa a chiave lo impensierì, non aveva senso sigillarla dall’esterno, non aveva senso a meno che non si volesse evitare di fare uscire un qualcosa – o un qualcuno – da quell’anfratto buio e maleodorante.

La sua mano libera andò sulla chiave che con un cigolio scattò, poi aprì la porta. Un odore di escrementi di topo e decomposizione gli riempì i polmoni, e lui infilò la candela all’interno, illuminando una piccola porzione delle scalette di legno che scendevano sempre più giù.

“Bill?”

“Sogno o son desto?” fece una voce, debole e roca, proveniente dal buio più nero. “È o non è forse il mio principe sul suo bianco destriero, venuto a soccorrermi?”

Kenton imprecò tra i denti e fece un passo all’interno, scendendo di uno scalino. “Che ci fai qui? Vieni fuori, avanti.”

“Temo di non poterlo fare. Non riesco ad alzarmi.”

“Come sarebbe a dire ‘non riesco ad alzarmi’?”

“Mi hanno menato e poi buttato qui. Mi fa male tutto.”

Il ragazzo imprecò di nuovo e, tenendo aperta la porta dietro di sé, iniziò a scendere le scale con come sola luce quella flebile e tremolante della sua candela, oltre a un filo che entrava dalle finestre dell’androne, dei lumi per la strada filtrati dalla coltre di nebbia. “Aspetta là, arrivo.”

“Mio eroe,” disse la voce nel buio, e Kenton riuscì a immaginarsi il suo sorriso mentre pronunciava quelle parole, anche se non poteva vederlo. 

Kenton non rispose. Era arrivato a fatica alla fine delle scale, intravide un’ombra davanti a lui, e sporse il braccio con la candela per illuminarlo meglio. Aprì la bocca per salutare William, ma presto si accorse che non si trattava di lui: una statua di Sant’Agostino lo guardava con occhi severi, in marmo grezzo e dalle occhiaie profonde, scavate nella pietra e approfondite dalle vacue ombre della candela. Ci passò accanto e trovò un’altra statua, coperta da un telo bianco, sotto cui poteva intuire una figura umana dalle braccia aperte, come una croce. Si infilò in quel dedalo di statue dismesse, ognuna gli sembrava lui, sinché non gli fu abbastanza vicino e lo vide. 

Rannicchiato a terra, si abbracciava le ginocchia e aveva un livido sul volto, proprio sotto l’occhio sinistro, che si allungava sino al mento. Aveva i capelli scompigliati, la pelle pallida quasi translucida, gli occhi neri di un inchiostro liquido brillavano come braci alla luce della candela. Sorrideva, la bocca come una ferita aperta sul volto, ed era bellissimo.

Allungò la mano verso di lui, e Kenton l’afferrò. “Un aiutino?”

Il ragazzo tirò con tutta la forza che aveva e con un gemito dolorante l’altro si issò, ritrovandosi in piedi proprio davanti a lui, tanto vicino che poteva percepire al freddo di quel bugigattolo ammuffito il calore del suo corpo. 

Il sorriso di William, dritto sulle sue gambe peste, si allargò. “Grazie, principino,” mormorò, poi, in modo del tutto imprevedibile e inaspettato, si sporse in avanti e soffiò leggero sulla candela accesa.

La stanza venne inghiottita dal buio, e d’un tratto fu come essere immersi in un freddo, stantio, nulla. Il cuore di Kenton si fermò.

“Perché… perché l’hai fatto? Ora come facciamo a risalire?”

“L’ho fatto perché così il Signore non ci vedrà.”

“Il Signore non ci vedrà? Cosa vuoi fare?”

Avvertì che l’altro si era avvicinato, poteva sentirne il respiro sulle labbra. 

“Voglio ringraziarti ora, è ovvio.”

Kenton, immerso in una eterna notte, tremante dal freddo e dall’angoscia che iniziava a serpeggiare in lui, fu sul punto di chiedergli cosa intendeva, ma non ne ebbe modo. Non ne ebbe modo perché, silenzioso ma preciso, William aveva posato le labbra sulle sue.

Kenton si irrigidì, e per quell’attimo il mondo smise di girare, l’aria si fermò immobile e persino il suono dei topi che correvano là sotto si congelò in un vuoto tombale.

Il ragazzo non vedeva nulla e non sentiva nulla se non la bocca di William premuta su di lui, la sua lingua che, calda e umida, gli passava sulle labbra e lui che le schiudeva piano, per accoglierlo dentro di sé.

Non aveva mai dato un bacio, aveva sognato di farlo tante volte, ma non aveva mai osato tanto, né era convinto che l’avrebbe fatto. Eppure, il suo corpo sapeva già cosa fare come preso da un istinto primordiale, un bisogno selvaggio e bestiale che lo spinse a lasciar cadere la candela spenta con un tonfo sordo e aggrapparsi a lui con entrambe le mani, i respiri affannati e la voglia di stringersi a lui il più possibile, sfregare i loro corpi e fonderli in uno.

Lo sentì gemere piano e una frenesia malata, una furia cieca e totale presero possesso di lui, che lo baciò con forza e con rabbia, con una sete di avere e di toccare, la presenza solida e calda premuta a sé che gli faceva annegare la mente in una pozza vischiosa di miele tiepido, fermandogli i pensieri. 

Aveva pensato, nel guardare William da lontano, che la sua pelle bianca e imperfetta, segnata da una costellazione di piccoli nei, sarebbe stata gelida come il marmo. Invece era calda, bollente, e bollente era quel bacio galvanizzante da cui nessuno dei due sembrava riuscire a separarsi, si auto alimentava in un circolo di voglia e desiderio.

Quando i due ragazzi si furono sfogati a sufficienza, quando la sua mente fu del tutto sommersa da candida ovatta, quando della coscienza di sé non rimase più nulla, allora si separarono.

“Questo sarà il nostro piccolo segreto,” sussurrò William, sfiorandogli la guancia. Il suo tocco lo bruciava, e lui prese fuoco di nuovo. 

“Sì,” rispose, senza fiato, per poi, non sazio, stringergli il volto tra le mani e perdersi ancora tra le sue labbra.

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