IX. Quel che è bello
“𝓥𝓲𝓮𝓷𝓲 𝓽𝓾 𝓭𝓪𝓵 𝓬𝓲𝓮𝓵𝓸 𝓹𝓻𝓸𝓯𝓸𝓷𝓭𝓸 𝓸 𝓼𝓸𝓻𝓰𝓲 𝓭𝓪𝓵𝓵 ’𝓪𝓫𝓲𝓼𝓼𝓸, 𝓫𝓮𝓵𝓵𝓮𝔃𝔃𝓪?”
𝓒𝓱𝓪𝓻𝓵𝓮𝓼 𝓑𝓪𝓾𝓭𝓮𝓵𝓪𝓲𝓻𝓮, 𝓘𝓷𝓷𝓸 𝓪𝓵𝓵𝓪 𝓑𝓮𝓵𝓵𝓮𝔃𝔃𝓪
*
C’è qualcosa di bello, nei cadaveri. Quasi poetico. Quando una persona muore diventa più bella, è inevitabile: porta un leggero strato di cipria sul volto, i suoi capelli sono acconciati a dovere, indossa sempre il vestito migliore. E anche se il ragazzo era stato orribile e grottesco il giorno che era morto, anche se il suo volto era paonazzo e gli occhi fuori dalle orbite, anche se aveva un crocifisso che spuntava dalla sua gola e dal suo retto, macchie di sangue che gli colavano tra le cosce, quel giorno era bellissimo.
Le sue guance erano state schiarite con il trucco, i suoi occhi chiusi. Tutto il sangue era stato ripulito e lui era stato vestito di tutto punto, con un abito portato da sua madre in lacrime. Suo padre non si era presentato.
Kenton lo guardava così sistemato, cercava di scordare la visione che aveva avuto la notte prima, quando aveva trovato il suo corpo straziato in quel modo orrendo, umiliato ed esposto davanti agli occhi di tutti quelli che potevano vederlo. Non ci riuscì. L’immagine del bel ragazzo curato davanti a lui non si sovrappose a quella del corpo martoriato, e lui continuò a vedere quelle minuscole gocce di sangue tra le gambe, quella pelle rossa e gonfia, gli occhi spalancati.
Strangolamento. Questo era stato ciò che l’aveva ucciso, ma non si potevano vedere i lividi intorno al collo in quel momento, coperti dal trucco e dal colletto. Qualcuno aveva stretto la gola di Cedric sino a ucciderlo, poi l’aveva spogliato e l’aveva umiliato con le due croci, messo sull’altare. Doveva essere qualcuno con una forza discreta, che aveva dovuto sollevare il suo cadavere di un certo peso per adagiarlo sul marmo gelido.
Tutti i ragazzi del dormitorio, come sempre, sospettavano di William, per tre motivi: lui non si era trovato nel dormitorio al momento del fatto; il suo arrivo aveva rappresentato l’inizio di tutti quei guai; e tutti si rifiutavano di credere che chiunque altro di loro, che conoscevano così bene, avrebbe potuto macchiarsi di un crimine tanto efferato.
Non avevano potuto raccontare di essere stati insieme tutta la notte, perciò Kenton non avrebbe potuto scagionarlo. La versione ufficiale era stata che William si era recato ai servizi durante la notte e che Kenton era andato a cercare Cedric, notando la sua assenza. William aveva negato di essere stato presente al momento del ritrovamento, perché non potevano rivelare di essere stati in giro per il collegio insieme.
Kenton avrebbe voluto dire ai compagni che William non era il responsabile di tutto questo, che avevano passato le ore nella sala della musica a darsi piacere e scambiarsi effusioni e confidenze, e che, ancor più importante, era una creatura buona, amabile, che non l’avrebbe mai fatto.
Non poteva.
Così inghiottì le risposte a quelle accuse, con una furia nel petto, e inghiottì anche la bile che ristagnò in lui quando vide Hunter sorridere al funerale, scherzare coi suoi amici come se niente fosse successo, o peggio, come se quello che era successo gli facesse piacere.
Era seduto su una delle panche della cappella, Thomas da un lato e Eustace dall’altro, e non stava piangendo anche se voleva farlo. Era domenica, la messa si sarebbe tenuta comunque, ma nessuno si aspettava che sarebbe stata un funerale
La madre di Cedric piangeva, unico suono che si poteva sentire oltre alla voce del sacerdote, e Kenton guardava verso la bara, seduto rigido come un fuso, cercando di scorgere qualche ciuffo dei suoi capelli castani.
Thomas, che era solito suonare l’organo in cappella, quel giorno non se l’era sentita e non erano riusciti a trovare un sostituto. Per quella messa non ci sarebbe stata la musica, e nelle pause che il pastore prendeva tra una proclamazione e l’altra della parola di Dio per la piccola chiesetta passava un silenzio siderale.
Kenton sentì gli occhi bruciare, ma non pianse neanche in quel momento, neanche sentendo i singhiozzi sconsolati della madre di Cedric, che era andata là per vestirlo e assistere alla messa, per poi portare via la bara e avere il vero funerale nella parrocchia di famiglia.
Cedric era sempre stato un ragazzo solare, mosso da senso di giustizia e da una gentilezza che l’aveva fatto brillare ai suoi occhi. Non era come gli altri ragazzi del collegio, non era come Kenton stesso, come William, come Thomas, neanche come Darcy. Era puro, di una purezza devastante, eppure il fatto che il Signore l’avesse richiamato a sé gli sembrò malsano, sbagliato.
Si diceva spesso che Dio avrebbe preso con sé i migliori, per tenerli accanto nell’alto dei cieli, perché erano troppo fragili e buoni per una vita terrena. Nonostante questo, il fatto che Cedric fosse morto sembrò a Kenton un’ingiustizia, una stortura, un errore a cui rimediare.
Desiderò avere William accanto, lui che era stato lì quando l’avevano ritrovato, che aveva avuto la prontezza mentale di allontanarsi e fingere di non esserci mai stato. Desiderò poter essere solo con lui, farsi consolare come solo il ragazzo avrebbe potuto fare. Ogni volta che erano stati insieme, ogni altro pensiero nella sua mente era svanito. Forse avrebbe funzionato anche con la morte di Cedric.
Si voltò e guardò verso di lui, seduto in uno degli ultimi posti, sulla panca vicino alla porta, insieme a ragazzi degli altri dormitori che non lo odiavano come quelli del suo. William non guardava lui però, guardava la bara, la bara aperta con Cedric tutto sistemato al suo interno, più bello che mai.
Forse anche lui cercava di sostituire l’immagine della notte prima con quella del ragazzo addormentato in pace di quel giorno, forse anche lui non c’era riuscito, Kenton non lo sapeva.
I singhiozzi strazianti della madre di Cedric facevano da colonna sonora cruda e inquietante alle parole del sacerdote, che in quel momento scendeva le scale dell’altare per poter dare la comunione ai fedeli.
Anche Kenton si alzò dalla sua panca con gli altri, attraversò la navata e si fece imboccare l’ostia. La prese nella sua bocca, la piegò con la lingua e mandò giù, senza masticare.
“Corpus Dòmini nostri Iesu Christi custòdiat ànimam tuam in vitam aetèrnam.”
“Amen.”
Guardò negli occhi del pastore allora, che durante la messa dovevano essere gli stessi occhi di Cristo. O almeno, sua madre soleva dire così, l’aveva sentita spesso. Lo sguardo dell’uomo bassottino e ingobbito dal tempo incrociò il suo, un attimo, solo il tempo della comunione, e a lui sembrò leggergli dentro. Leggergli dentro che aveva peccato, peccato in modo orrendo e reiterato, che la sua anima non si sarebbe più potuta salvare.
Ormai la sua anima era persa da anni, quasi dieci, da quando aveva ucciso una vita innocente. Non aveva senso preoccuparsi in quel momento. Eppure gli occhi di Cristo, gli occhi di quel sacerdote gobbo e mingherlino, riuscivano a giudicarlo.
La messa finì, e la fiumana di studenti si allontanò verso l’uscita. Kenton sentiva il pianto rotto della madre di Cedric che si allontanava, e anche lui si sentiva sul punto di piangere. Non poteva essere certo che avrebbe retto senza versare lacrime.
Gli uomini non piangono, sussurrò al suo orecchio la voce di suo padre.
Cercò ancora William con lo sguardo e vide che ora sì, stava guardando lui. Lo guardava con espressione neutrale, senza far trapelare nulla, si limitava a fissarlo con una maschera di noia e disinteresse nello sguardo. Eppure Kenton sapeva che dietro quegli occhi scuri e freddi, distaccati e distratti, si nascondeva preoccupazione, paura e rabbia.
Desiderò allungare il braccio e sfiorargli la mano, un solo tocco che lo avrebbe liberato di quel peso che sentiva nel petto, gli fracassava la gabbia toracica. Non lo fece, erano a pochi passi eppure mille miglia di distanza, due rette parallele, destinate a incontrarsi solo all’infinito, che per loro si traduceva tra le fiamme dell’inferno, nella loro prossima vita dopo la morte.
“Signor Walker,” sentì la voce di Davies chiamarlo tra la folla, e si voltò. Era insieme a un uomo corpulento, vestito in divisa, col caschetto di Scotland Yard. Uomo che lo guardava con un sorriso amichevole, dietro cui si nascondeva del gelo. “La polizia vuole farvi qualche domanda. Venite, per favore.”
E lui obbedì. Sentì dietro le spalle lo sguardo di William che lo seguiva, mentre addentrandosi nei corridoi del collegio la temperatura si abbassava e l’aria diveniva buia, scura. Si ritrovarono nell’ufficio di Davies, una stanzetta dove i genitori che portavano i figli a invecchiare al Saint Cuthbert Mayne avevano il colloquio preliminare. Erano anni che non entrava in quella stanza, ma la ricordava come fosse passato un giorno. La scrivania in mogano, la cartografia del Regno Unito alla parete insieme a quella delle colonie, il ritratto della Regina, la libreria colma di volumi, il lampadario acceso che pendeva di fiammelle tremolanti sull’ambiente angusto dandogli un’aria onirica e spettrale.
“Voi siete il signor Kenton Walker, giusto?” chiese il poliziotto, sedendosi che oltre la scrivania, nella poltrona di Davies.
“Sì, signore.”
“Accomodatevi pure. Facciamo una chiacchierata, vi va?”
Kenton, come sotto incantesimo, obbedì alle parole dell’uomo e si accomodò sulla sedia. Avvertiva la presenza di Davies, appoggiato allo stipite della porta, che li guardava.
“Allora, voi siete stato il primo a ritrovare il corpo. Come mai eravate fuori dal dormitorio a quell’ora?” Kenton si irrigidì, e lo sguardo dell’agente si fece più morbido. “Non vi sto accusando, è solo per capire.”
“Io…” Kenton esitò. Non poteva certo rivelare il vero scopo dietro la sua uscita, era malsano, sbagliato. Ricordò quello che aveva provato con le mani di William su di lui, la sua bocca sulla pelle, e rabbrividì. “Io mi sono svegliato e non ho visto Cedric nel letto. Pensavo fosse ai servizi, non mi sono allarmato subito, ma quando ho visto che non tornava sono andato a cercarlo.”
“Voi eravate molto amico del signor Cedric Harrington, non è vero?”
Kenton annuì, gli occhi che bruciavano. “Sì,” mormorò, poi aggiunse, nella sua mente, gli uomini non piangono.
“Sai dire per caso se aveva attriti con qualcuno? Se aveva litigato da poco con uno dei compagni?”
“Cedric non litigava con nessuno. Lui era una persona buona.”
L’uomo gli sorrise. “Ma certo,” rispose. “Un’ultima cosa. Ho saputo che da un po’ di tempo c’è qualche vandalo qui che si diverte a combinare guai. Non è detto che le due cose siano collegate, ma hai idea di chi possa essere?”
Kenton non aveva dubbi a riguardo. “No.”
Avrebbe accusato Hunter, sapeva che era il primo sospettato, che avrebbe potuto essere colui che metteva zizzania accusando il nuovo arrivato, ma se avesse fatto il nome di Hunter, Hunter avrebbe fatto il nome di William. E aveva il dovere di tenerlo fuori da questa storia, almeno lui.
“Grazie, singor Walker, della disponibilità. Potete andare.”
Kenton annuì e sgusciò fuori dalla stanza, dopo un veloce sguardo al signor Davies. Sentì che il poliziotto diceva “Dobbiamo radunare gli inservienti,” e poi si allontanò troppo per origliare, ansioso di tornare al suo dormitorio.
Quando arrivò, si pentì di non essere rimasto nell’ufficetto a dare informazioni. Hunter era là in camerata, con Jackson e Malley, e lo aspettava.
“Walker! Cos’è quella faccia? Ti manca il tuo amichetto?”
“Lascia perdere Hunter, oggi non è aria.”
“Decido io quando è aria,” commentò, secco. “E ho voglia di torturati un po’. Ora non c’è il tuo amichetto a protestare, sei solo.”
“Lasciami in pace,” sibilò, freddo. “Te l’ho detto, non è aria.”
“Mi hai contraddetto davanti a Davies e alla governante,” disse Hunter, ignorando del tutto le sue parole. “Nessuno mi contraddice e resta intero, dovresti saperlo. Soprattutto quando mi contraddice per difendere un novellino.”
“Impara a dire meno stupidaggini, e vedrai che non verrai contraddetto da nessuno.”
“Dlin dlon, risposta sbagliata!” esclamò, la sua bocca si aprì in un sorriso. “Ragazzi, tenetelo fermo.”
Kenton provò a sgusciare via, ma i due furono più veloci. Lo strinsero, uno per braccio, e lui si divincolò ma la stretta era forte. Gli altri studenti nel dormitorio facevano finta di nulla. Kenton era apprezzato dai compagni, non vennero a fare il tifo e incitare Hunter, ma nessuno intervenne per fermarlo. L’unico che l’avrebbe fatto sarebbe stato Cedric, ma Hunter aveva ragione: Cedric non c’era più, e lui era solo.
Il ragazzo si avvicinò. Era alto, il più alto del collegio, e quell’anno sarebbe stato l’ultimo per lui. Aveva già diciassette anni, limite massimo per il Saint Cuthbert, e a Marzo sarebbe andato via lasciando il collegio per sempre.
Tutti aspettavano quel momento con ansia, tutti tranne qualche manipolo di suoi seguaci accaniti.
“Spero ti serva da lezione, Walker, e la prossima volta che parlo tu riesca a farti da parte,” disse, e Kenton continuò a tirare, in un disperato tentativo di liberarsi.
Il pugno che gli arrivò alla bocca dello stomaco lo avrebbe fatto piegare in due, se non fosse stato sorretto dai ragazzi al suo fianco. Il dolore che provò gli mozzò il fiato in gola e gli fece vedere rosso per un attimo. Le gambe gli tremarono, ma non ebbe il tempo di urlare. Un altro pugno, stavolta in pieno volto, gli fece esplodere il dolore tra la bocca e il naso, e sentì sulla lingua il sapore ferroso del sangue.
“Chiedimi scusa,” gli disse, aspettando prima di caricare un altro colpo, il sorriso sempre sul volto.
“No.”
Hunter guardò verso i due sgherri e annuì. Kenton non sapeva cosa aspettarsi, e il ragazzo gli diede un forte calcio alla caviglia, nell’esatto istante in cui gli altri due lasciarono la presa. Si ritrovò a terra senza aver avuto il tempo di schermare la caduta, la testa gli faceva male, anche la spalla aveva preso una bella botta, e la sua tempia pulsava in un dolore assordante.
“Chiedimi scusa,” ripeté Hunter, e Kenton guardò su. Il ragazzo troneggiava su di lui, gli occhi piccoli e chiari che lo fissavano, il sorriso galvanizzato sul volto e le gote rosse dalla foga. “Chiedimi scusa e ti lascio in pace.”
Kenton si guardò intorno, spaventato. Nessuno pareva fare caso a loro, nessuno tranne William. Seduto sul suo letto, osservava la scena con la stessa espressione neutra sul volto. Una statua di sale, i suoi occhi neri imprimevano un segno sulla sua pelle, un marchio che non sarebbe più andato via. Poi lo fece, impercettibile, rivolto a lui e lui soltanto, scosse la testa in un minuscolo movimento del volto.
Lo sguardo di Kenton tornò su Hunter. “No.”
Le cose divennero meno chiare a quel punto. Gli arrivò un primo calcio, ancora allo stomaco, che gli azzerò i sensi dal dolore e gli succhiò tutta l’aria via dai polmoni. Poi arrivarono gli altri.
Schiena, petto, testa, gambe, una pioggia di calci da tutti e tre i ragazzi accaniti verso di lui, e a Kenton non restò che rannicchiarsi il più possibile e proteggersi la testa con le braccia, chiudendosi a riccio e gemendo dal dolore, a gran voce ma non abbastanza da richiamare qualcuno degli inservienti.
Tutto gli faceva così male, era così confuso, che fu come se fosse anestetizzato per un attimo, tutto gli apparì ovattato, persino i colpi che gli facevano scricchiolare le ossa e fermare il cuore facevano meno male.
Non sapeva quanto tempo fosse passato, quando la tortura finì. Hunter ritenne sufficiente la punizione da lui impartita e d’un tratto smise di prenderlo a calci, lasciandolo agonizzante sul pavimento. Senza un’altra parola, uscirono dal dormitorio e tornarono nel loro, o forse andarono a molestare qualche altro ragazzo nelle aree comuni, Kenton non poteva saperlo.
Fu Darcy ad avvicinarsi per primo, con un timido “Ce la fai ad alzarti?” a cui Kenton scosse la testa.
Era debole, tutto gli faceva male, aveva voglia di piangere, la nausea e la testa gli ronzava. Voleva solo restare là, su quel pavimento, a vegetare e poi a morire. Se fosse morto in quel momento, chissà se sua madre avrebbe pianto come quella di Cedric. Pensava di no. Lui a sua madre aveva rovinato la vita, aveva ucciso suo figlio, non voleva avere più niente a che fare con lui. Quando tornava a casa, nei mesi estivi, la donna non gli rivolgeva neanche uno sguardo o una parola. Cancellato.
Solo Cedric lo aveva capito, Cedric gli era stato accanto negli anni, Cedric lo aveva ascoltato, sopportato, gli aveva voluto bene. E ora non c’era più. Era bellissimo adesso, un cadavere, aveva dei bei vestiti e il trucco e i capelli non erano più disordinati com’erano sempre stati. Era morto.
Gemette di nuovo e si raggomitolò in posizione fetale. Il peso sul cuore, al centro della cassa toracica, si era aggiunto a tutti gli altri mali e non riusciva più a respirare.
Restò per terra per ore, sotto lo sguardo disinteressato dei compagni e quello intenso e silenzioso di William, immobile e inerme, a soffrire.
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