IV. Crocifissi
“𝓓𝓸𝓹𝓸𝓽𝓾𝓽𝓽𝓸, 𝓾𝓷𝓪 𝓫𝓾𝓰𝓲𝓪 𝓬𝓸𝓼’𝓮’? 𝓝𝓲𝓮𝓷𝓽 ’𝓪𝓵𝓽𝓻𝓸 𝓬𝓱𝓮 𝓵𝓪 𝓿𝓮𝓻𝓲𝓽𝓪’ 𝓲𝓷 𝓶𝓪𝓼𝓬𝓱𝓮𝓻𝓪.”
𝓛𝓸𝓻𝓭 𝓑𝔂𝓻𝓸𝓷, 𝓓𝓸𝓷 𝓖𝓲𝓸𝓿𝓪𝓷𝓷𝓲
*
Gli occhi di William, neri e profondi come gli anfratti più bui di quel collegio silenzioso, erano fissi su di lui.
“Letto nuovo,” rispose, alzando le spalle. “Non riesco a dormire.”
“Cosa… cos’è successo?” balbettò, ancora intontito dal sonno e dall’eccitazione che tardava a dissiparsi, mista alla paura e al terrore cieco.
“È successo che hai iniziato ad agitarti nel sonno, e a mugolare. Rischiavi di svegliare tutti, sembravi in preda agli incubi, così ti ho svegliato.”
“Sì,” mormorò il ragazzo, la mente che iniziava a snebbiarsi. “Grazie.”
Era tutto così onirico, che Kenton si chiese se stesse ancora sognando. Nella penombra del dormitorio, studiò il volto del ragazzo che era piegato sul suo letto e su di lui. Pallido come un cadavere, non aveva l’aria stanca o sbattuta di chi passa le ore a rigirarsi nel letto senza dormire. Il suo sguardo era vispo e acceso di curiosità, le sue labbra sottili piegate nel sorrisino che aveva avuto quando era arrivato al collegio, i due nei che sbucavano dal colletto sul collo e gli facevano venire voglia di allungare la mano e sfiorarli con le dita.
“Tutto bene, sicuro?”
“Sì. Io… mi sono svegliato di soprassalto. Scusa. Non sono tanto in me.”
“Carino,” commentò William, a bassa voce per non svegliare gli altri, “Il grande Kenton Walker, principe del Saint Cuthbert, tutto arruffato e rallentato dal sonno.”
Il ragazzo si sentì avvampare a quelle parole. “È una presa in giro, questa?”
Il sorriso di William, un sorriso ferino e tagliente, freddo come il metallo ghiacciato, si allargò. “Può darsi. Buona notte, principino,” gli disse, e dopo uno sguardo allusivo tornò a passo leggero al suo letto, a qualche posto di distanza, lasciandolo solo.
Kenton si ritrovò sul materasso ad ansimare, cercando di calmarsi, la sua eccitazione ormai scemata e addosso l’appiccicosa e strisciante sensazione di essersi scucito troppo davanti a qualcuno che avrebbe potuto fargli del male, anche se non aveva detto nulla di sospetto o che il suo compagno avrebbe potuto fraintendere. Era come se quegli occhi bui potessero leggergli dentro, scrutargli l’anima, sviscerarlo e sezionarlo come una libellula nelle mani di un bambino un po’ crudele, intrappolata e infilzata ancora viva con delle spille da balia per poterla studiare a piacimento.
Aspettò che i suoi respiri si calmassero, che i battiti del suo cuore, impazzito senza ragione, rallentassero e lo lasciassero in pace.
Fu solo dopo ore, quando i primi raggi del sole iniziarono a infiltrarsi tra la coltre di nebbia all’orizzonte, che finalmente si addormentò.
*
Il giorno dopo fu un urlo che li gettò giù dal letto, uno strillo prolungato ed assordante, che raspò loro dentro e grattò i loro timpani e persino la loro cassa toracica.
Kenton sobbalzò nel sonno e si svegliò di soprassalto per la seconda volta quel giorno, mentre i suoi compagni mugolavano nel dormiveglia e aprivano contrariati gli occhi per affrontare la nuova mattinata.
“In piedi! Tutti in piedi! Subito!” la governante Beverly entrava, camerata dopo camerata, spalancando la porta e gridando a pieni polmoni per buttarli giù dal letto il prima possibile. “Vi voglio tutti all’ingresso entro dieci minuti! Tutti, senza eccezioni!”
“Ma cos’è successo?” chiese Cedric, la voce impastata dal sonno per essere stato svegliato tanto di soprassalto.
“Chi è morto?” chiese Darcy, alzandosi dal letto con l’aria stravolta.
“Nessuno è morto,” borbottò Thomas, che aveva già iniziato a cambiarsi. “Hunter ne avrà combinata una delle sue, o è solo lei che fa l’isterica come sempre.”
Lei, la governante Beverly, era celebre per lasciarsi talvolta prendere dalla foga dell’accusare qualcuno, prona alle urla selvagge e alle punizioni corporali.
Kenton si alzò, accusando un principio di mal di testa che gli schiacciava le tempie e fracassava il cranio. Si spogliò della vestaglia da notte in fretta, per evitare che il freddo decembrino gli entrasse nelle ossa, senza più la vergogna al pensiero che i suoi compagni potessero vederlo nudo, ormai abituato a togliersi i vestiti davanti a tutti e a vedere tutti farlo con lui. Quando si fu vestito, si unì alla fiumana di ragazzi assonnati e preoccupati, scendendo le scale del collegio, gli scarponcini degli studenti che risuonavano per il pavimento di marmo gelido.
Tra la folla iniziò a diffondersi un certo brusio, che crebbe di intensità man mano che i presenti si accorgevano di qualcosa che non andava: ogni crocifisso, da quelli sulle scale e nei corridoi sino a quello grande all’ingresso dove si riversarono, era stato rovesciato, appeso come impiccato con l’asta più corta che puntava mesta verso il basso.
“Inaccettabile!” sbraitò la governante Beverly, sembrava fuori di sé dalla rabbia. “Chiunque abbia fatto questo scherzo di cattivo gusto verrà punito! E se non salterà fuori verrete puniti tutti, nessuno escluso!”
Kenton guardava fisso il grosso crocifisso che svettava sul muro bianco sopra la porta d’ingresso. Chiunque l’avesse rovesciato aveva avuto bisogno del suo tempo, di prendere una sedia dalle classi e usarla per arrivare là in alto, se non addirittura la scala dallo stanzino degli attrezzi. Quel simbolo satanico era là, lo sbeffeggiava dall’alto della sua austerità, la croce capovolta come un passaggio verso un mondo di incubi, un’apertura nella parete che avrebbe portato a un mondo grottesco e inimmaginabile, delirante e avvizzito, come un fiore strappato dal terreno e lasciato a marcire.
“Se avete visto o sentito qualcosa, se qualcuno si è vantato con voi di questa bravata, è il momento di parlare adesso. Altrimenti verrete puniti tutti come il vero colpevole e vi assicuro che non vi piacerà.”
Hunter, il bulletto del collegio, alzò la mano verso il soffitto e attese, buono davanti alle autorità, che il signor Davies gli desse il permesso di parlare.
“Andando in bagno stanotte ho visto il ragazzo nuovo fuori nel corridoio! Penso che sia stato lui.”
Kenton sentì Cedric mozzare il respiro. Hunter non aveva tardato a vendicarsi del torto subito, e sembrava più incattivito che mai.
“Qualcosa da dire a tua discolpa, Oldman?”
Gli occhi di Kenton, ancora una volta, spostandosi dal crocifisso furono attratti da lui. William, rigido nella sua divisa perfetta, la cravatta ben annodata e i capelli ben pettinati benché si fosse appena alzato dal letto, resse lo sguardo del signor Davies con allenata superiorità. “È una menzogna. Io non ho fatto niente, e voi lo sapete. Sta solo cercando un capro espiatorio, tutto qui.”
“Non sono l’unico che l’ha visto,” continuò Hunter. “Anche Jackson e Malley sono d’accordo con me, giusto ragazzi?”
Ma prima che i due tirapiedi potessero confermare la versione del loro capo, Kenton si ritrovò con una mano al cielo, a richiedere il permesso di parlare.
“Walker?” chiese la governante, alzando un sopracciglio e rivolgendogli uno sguardo asettico.
“Sono stato sveglio questa notte senza riuscire a dormire. Il signor Oldman è stato sempre nel suo letto, posso confermare. L’ho visto coi miei occhi.”
Del vociare sommesso si diffuse per la sala, e Kenton vide William ricambiare il suo sguardo. I due pozzi neri lo ingoiarono intero, e lui si sentì inondato e sopraffatto, cancellando il resto del mondo per un attimo.
“Silenzio!” abbaiò Davies, chetando quel vociare indistinto in un attimo. “È stato o non è stato il signor Oldman? Parlate.”
“Sì, io l’ho visto!” insistette Hunter.
“Non ho fatto niente!” esclamò William, alzando la voce.
“Uno di voi due mente,” disse la governante, guardandoli con attenzione e soffermandosi su di loro con lo sguardo. “Non mi interessa chi. Dato che non è uscito fuori il vero colpevole, verrete tutti puniti in egual modo.”
Un coro di proteste si levò per la sala d’ingresso, zittito sul nascere dallo sbattere del piede di Davies sul pavimento. Kenton si rese conto che molti occhi ostili erano puntati su di lui, forse perché senza il suo intervento sarebbe stato William il solo a sopportare la punizione, al contrario della prospettiva che ora li attendeva.
“Andate a fare colazione, senza parlare! Quando andrete in classe saprete cosa vi aspetta.”
Andando verso la mensa, Kenton sentì un qualcosa spingerlo da un lato, e fu investito da un puzzo di colonia misto a sudore. “Questa me la paghi, Walker,” sibilò Hunter, che continuò a camminare verso la colazione seguito dai due inseparabili.
Kenton deglutì. Sapeva che le vendette di Hunter potevano rivelarsi pericolose e si chiese se ne fosse valsa la pena per difendere qualcuno che neanche conosceva, con cui aveva a malapena parlato due volte nella vita e che non era neanche sicuro gli stesse tanto simpatico.
“Grazie, principino,” sentì, e voltandosi a seguire il suono vide William che gli sorrideva, e un istante dopo gli faceva l’occhiolino. Il ragazzo sentì lo stomaco in subbuglio a quel gesto e restò in silenzio, senza sapere cosa rispondere, trascinato poi da Cedric via da quel suo stato di torpore, riscosso dal vuoto dei suoi pensieri.
“Si può sapere che ti prende?” sibilò il suo amico, dopo averlo tirato per un braccio verso la direzione in cui si dirigevano tutti gli studenti.
“Non è stato lui,” sussurrò di rimando, “Hunter voleva solo vendicarsi di quel che gli ha fatto per l’iniziazione. È ingiusto.”
“Già, e ora tanto lo puniranno lo stesso. Solo che così puniranno anche noi. Grande vittoria, davvero.”
“Almeno Hunter è rimasto con un pugno di mosche. Già solo per questo ne varrà la pena…”
“E si vendicherà con te. Non credere che lo dimenticherà tanto facilmente…”
“Hunter non mi fa paura.”
“Allora sei uno sciocco.”
“Silenzio!” l’urlo di Davies fece tremare loro le viscere. “Ho detto che dovete stare zitti! Ogni persona che sento in chiacchiere sarà un quarto d’ora in più di punizione per tutti!”
Kenton si morse il labbro per non rispondere alle provocazioni di Cedric. Sapeva che il suo amico aveva ragione, che quello che diceva lo diceva soltanto per il suo bene, perché Hunter lo avrebbe preso di mira, perché gli altri lo avrebbero incolpato per la punizione collettiva. Non gli importava. L’accusa di Hunter era stata ingiusta, dettata solo da uno stupido spirito di vendetta, e lui aveva sempre tutelato gli studenti in difficoltà, sempre.
Grazie, principino, sentì ancora, e quelle parole seguite dall’occhiolino gli provocarono un curioso movimento al basso ventre, unite a una leggera tachicardia. Tutto intorno a loro, gli inservienti del collegio erano occupati a rivoltare i crocifissi che erano stati capovolti nella notte, per riportare tutto alla normalità chiudendo quei passaggi oscuri che avrebbero popolato le menti degli studenti per le settimane a venire.
I ragazzi si sedettero lungo la tavolata stiracchiata nella sala della mensa, davanti a un piatto di fagioli e pane nero. Kenton sentiva gli sguardi dei suoi compagni che lo bruciavano, dardi velenosi e pungenti che gli arrivavano dritti al cuore e allo stomaco, creando subbuglio e malessere dentro di lui.
La poltiglia sul piatto di ceramica, nera e dal forte odore agrodolce, aveva l’aria di qualcosa in decomposizione. La portò alla bocca senza fiatare, come il signor Davies aveva richiesto, e per tutta la durata del pasto silenzioso i ragazzi sentirono rumore di sedie trascinate sul pavimento, di mobili strisciati come corpi morti sul marmo ghiacciato.
Quel suono poteva significare una sola cosa, e Kenton la conosceva bene, così come la maggior parte dei ragazzi là presenti. Il piccolo Thane, arrivato da poco, era ancora ignaro e mangiava la sua colazione guardandosi intorno preoccupato e confuso da ciò che lo aspettava. L’altra persona all’oscuro, William, consumava il pasto con la tranquillità di chi non ha nulla da temere né da dimostrare.
Kenton aveva pensato inizialmente che quel suo atteggiamento distaccato e menefreghista sarebbe finito presto, ma era sopravvissuto all’iniziazione con Hunter e alla punizione derivata dall’aver avuto la sua camicia strappata, e ora non era più tanto sicuro che quell’aria da galletto sarebbe svanita.
Lo guardava come si guarda uno strano esperimento inquietante, una creatura misteriosa e macabra, dai contorni vaghi e nebulosi. Ancora una volta, lo guardò e vide l’autunno, la poesia delle foglie cadute, l’odore di terra bagnata e del fango, il rumore bianco dello scoppiettare del camino acceso. William era freddo eppure sgargiante, inquietante eppure sicuro.
Quando finirono di mangiare e si recarono in classe, divisi per le varie annate e i livelli di competenza, Kenton trovò ciò che già si aspettava. I banchi e le sedie erano stati ammassati in fondo all’aula, e alle varie postazioni degli studenti erano stati sparsi dei ceci.
“Oggi farete lezione in ginocchio,” disse loro il signor Crain, un uomo sulla cinquantina dal naso grosso e i capelli sbianchiti dal tempo. “Per tutte le ore di lezione. Porgete le mani, prego,” disse, e i ragazzi, riluttanti, obbedirono.
Kenton si mise in piedi davanti alla sua solita postazione e allungò le braccia in avanti. Sentì il primo urlo soffocato venire dalla prima fila, dove Thomas si era fatto bacchettare le mani per tre volte e in quel momento si inginocchiava.
Guardò verso William, in prima fila anche lui, i due nei che spuntavano dal suo colletto come segni del bacio di un diavolo, lo sentì mugolare di dolore e poi anche lui fu costretto a inginocchiarsi sui ceci che stavano sul pavimento gelido.
Kenton attese, paziente, e quando il signor Crain giunse davanti a lui trattenne il respiro.
Le tre bacchettate sulle dita fredde furono come se gli stessero strappando le unghie dalla carne, un dolore bruciante e crudele che gli prosciugò tutta l’aria dai polmoni e gli fece inondare gli occhi di lacrime. “Giù, ora,” abbaiò il professore e lui, con le dita intorpidite dal dolore, obbedì.
Le sue ginocchia si posarono sui ceci e fu come posarsi su degli spilloni affilati, gli si conficcarono nella pelle e gli estorsero un altro gemito. Sarebbe dovuto restare là fermo e buono per otto ore, se avesse ceduto la punizione sarebbe stata ancora più grave e avrebbero scritto ai suoi genitori, lo sapeva.
Sentì Cedric accanto a lui guaire per la bacchetta sulle dita, poi tirare su col naso, pietoso e fragile. Si inginocchiò a sua volta, con una smorfia di dolore che gli accartocciò il volto pieno, una lacrima che gli rigava silenziosa la guancia.
Il signor Crain terminò la sua opera di punizione e tornò alla cattedra, dove guardò gli studenti con occhi freddi e disinteressati. Sembrava una statua, un fantasma, un essere altro a cui non appartenevano i problemi dei mortali. Un dio maligno e indifferente che non provava neanche più piacere all’assistere al loro dolore, ma ne prendeva atto e andava avanti, senza farsi toccare dalle circostanze.
La lezione di algebra passò che lui non aveva ascoltato una parola, troppo occupato a soffrire come un cane per le sue mani fredde e doloranti e le sue ginocchia martoriate.
Dalle classi vicine si udì una serie di urla e strepiti, il che significava che il primo ragazzo non aveva retto, si era accasciato a terra per avere un po’ di sollievo ed era stato battuto col bastone, sulla schiena e sulle gambe, punito perché non ce l’aveva fatta.
Fu alla terza ora che accadde. Kenton era stremato, e così tutti i suoi compagni. Era l’ora di letteratura inglese, e il professore leggeva un brano di Swift, ignorando i sommessi gemiti degli studenti e i volti contorti dal dolore. Cedric diede avvisaglie del suo cedimento, iniziò col piegarsi in avanti e poggiando le mani sul pavimento per scaricare il peso, il suo volto si fece paonazzo e infine là si accasciò. Le sue gambe tornite si allungarono non appena lui fu disteso, e mugolò come un animale massaggiandosi le ginocchia ferite, costellate di lividi bluastri come macchie di muffa.
“Cedric, alzati,” sibilò Kenton, il suo cuore che iniziava a corrergli nel petto. “Cedric, avanti, torna in ginocchio. Torna in ginocchio, ti prego.”
“Signor Harrington!” il grido del signor Vane attraversò la sala come una frustata. “Rimettetevi in ginocchio, subito! O sarà peggio per voi!”
Ma Cedric non stava ascoltando. Continuava a mugolare e rotolare sui ceci, massaggiandosi le gambe e lasciando libere le lacrime di scorrere sulle sue guance.
Il signor Vane si alzò dal suo posto in cattedra, gli occhi di tutti i compagni erano puntati su Cedric. L’uomo afferrò il bastone e si avvicinò. “Ultimo avvertimento signor Harrington, mettetevi subito in ginocchio. È un ordine.”
Il ragazzo non accennò la minima intenzione a farlo.
Kenton guardò il professore alzare il bastone, e il suo cuore si fermò. Avrebbe voluto gettarsi tra loro, fargli da scudo col suo corpo, ma avrebbe peggiorato le cose per tutti, così rimase fermò al suo posto.
Il bastone calò e Cedric urlò. Il signor Vane continuò a batterlo ancora e ancora, facendolo gridare come un animale al macello, supplicare tra le lacrime, il moccio che iniziava a colargli dal naso e il volto rubicondo, contorto dal dolore.
Basta, pensò, anche se non riusciva a smettere di guardare. Basta, basta, basta!
Più Cedric urlava più la luce selvaggia negli occhi dell’uomo aumentava di intensità, un piacere sadico che si alimentava, ne aumentava la foga a ogni bastonata, in un’eccitazione perversa e malata.
La tortura continuò, imperterrita e crudele, sino a che il ragazzo non perse i sensi, stremato dalla paura e dal dolore. Kenton restò immobile in silenzio, non riuscì a fare a meno di pensare che quella era anche colpa sua. I suoi occhi, come riflesso di quel senso di colpa, corsero al posto più vicino alla cattedra. William era in ginocchio, voltato indietro come tutti gli altri, lo sguardo fisso su Cedric. Non sembrava preoccupato o spaventato, solo provato dalla sua posizione scomoda, la pelle pallida segnata dalla stanchezza, ma gli occhi come sempre ardenti e vivi.
Il suo sguardo si spostò da Cedric e cercò Kenton, che gli era proprio accanto. Quando vide che anche lui lo stava guardando non fece una piega. Continuò a fissarlo con espressione neutrale, una maschera di cera, poi quando il professore, soddisfatto, tornò verso la cattedra lui si voltò verso la lavagna, senza una parola.
“Riprendiamo, allora. La terra degli Houyhnhnm,” disse il professore, e tutto tornò alla normalità.
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