Occhi che Non Possono Vedere
La mano scosta le frasche. Frusciano, si piegano, protestano indispettite. Il vento spira, giunge da chissà quale posto sconosciuto e pericoloso oltre la valle e le colline che la proteggono. Si contorce tra le fronde, scivola sulle foglie e si attorciglia attorno ai rami. È un vento gentile, porta odore di pioggia estiva, di sicura copertura nuvolosa. Gli alberi si diradano in una radura sulla sommità dell'erta, fili d'erba si increspano come la superficie di un laghetto. Il vento venuto da lontano riprende a correre. Lì, sulla collina ai margini della valle riprende velocità, dopo aver per bene dato un'occhiata al villaggio. Si avvia verso oriente, improvvisamente impaziente di arrivare dovunque sia diretto: luoghi sconosciuti, pericolosi, arsi dal sole. Il vento passa di frequente da lassù, pare non voglia attardarsi. Ma se si getta nella valle rallenta un poco, per salutarne gli abitanti e raccontare di quello che ha visto. Racconta odori freddi e asciutti, caldi e umidi, di roccia, di legno e di nuvole. Gli abitanti della valle lo accolgono con letizia, ma non capiscono mai quello che dice loro, come Mu, non conoscono il suo linguaggio. Il vento è fortunato, perché può spirare quando vuole, di notte e di giorno, e la luce non gli dà certo alcun fastidio.
«Troppe stelle, già. Troppe stelle».
Kera è accovacciata sulla sommità della collinetta e scruta il cielo circospetta. In effetti il cielo è davvero affollato quella notte. Migliaia di luci sbirciano indiscrete sulla terra, qualcuna ammicca a intermittenza. Mu deglutisce e fa un passo fuori dall'ombra dei carpini neri. Un lembo nero di cielo viene squarciato da un'improvvisa luce che si lascia dietro un taglio accecante nella volta. Mu balza all'ombra di un albero.
Kera si è immobilizzata. Ma il taglio è già stato ricucito dai fili neri della notte. «Tranquillo, Mu. Era solo una cometa».
«E se ce ne sono altre?»
«Ce ne saranno altre. È così ad agosto, ma tu stammi vicino e non fare stupidaggini. Non è di quelle che vedi che devi avere paura , ma di quelle che non vedi».
Mu si avvicina cauto, piega le ginocchia, sfiora coi palmi i fili d'erba. «E se una cometa cade quaggiù?»
Kera allarga le braccia e alza il mento, facendo la linguaccia alle stelle. «Se così succede siamo tutti stecchiti. Ma tanto non possiamo sapere se succede e quando, quindi a che serve preoccuparsi?»
«Giusto».
Kera è una persona molto pratica. Si aggiusta l'arco a tracolla e scende giù dalla parte opposta della collina. La cacciatrice si muove con le ombre, come se danzasse, e neanche i leggeri spasmi della testa o delle mani smorzano questa eleganza.
«Kera», le bisbiglia Mu raggiungendola mentre scruta il sottobosco da dietro un albero.
«Cosa c'è?», domanda sistemandosi con tre colpetti il cerchietto che le tiene indietro i capelli biondi.
«Se c'è qualcuno che può trovare il Cervo Nero, quella sei tu».
La cacciatrice non risponde. Ma un sorriso le adombra il mento. Fa ancora due passi, si arresta nuovamente. Volta di scatto la testa, guardando in obliquo su un ramo. Mu sta per chiederle cosa ha visto, ma lei chiude gli occhi e tende un orecchio.
«Cosa c'è?» domanda lui.
«Sh. Lo senti?»
La danza della notte è animata dal gentile richiamo di un cuculo lontano, gracidio di rane risale dal torrente giù a valle. Sulla collina da cui sono scesi friniscono i grilli. «Non sento nulla».
«Perché non sai ascoltare. C'è qualcosa. Vieni».
Kera riprende ad avanzare più veloce. I suoi stivali come piume sul terreno, quelli di Mu fanno scricchiolare l'erba secca, sbriciolano il terreno prosciugato, raschiano sassi e stridono sopra rami caduti. Ora Mu lo sente, un mormorio gracchiante, accompagnato da suoni bassi e stranieri.
I due si fanno strada finché il rumore non diventa più nitido. Più nitido ma non per questo familiare. Un ritmo basso viene scandito da colpi sempre uguali, come di qualcuno che batte su un tamburo. Ma colpi che a volte incespicano, qualcuno talvolta più forte, talvolta più debole. Il resto è un'accozzaglia di suoni che si salgono sopra a vicenda disordinati.
Mu sfiora una spalla di Kera. «E se sono gli Altri?»
La cacciatrice fa per tirare un pugno a un albero, poi ci sbatte le nocche sopra come se bussasse. «Se sono gli Altri cosa?»
«Se sono gli Altri non è meglio tornare indietro?»
«Se vuoi fallo».
Il bosco si alza sopra di loro, tra colonne e capitelli d'ombra non si scorge la fine della cattedrale verde scuro. Ma Mu non ha alcuna intenzione di tornare indietro da solo, non con quelle angoscianti luci che strappano il cielo, né con la possibilità che gli Altri siano così vicini.
«No, sto qui. A meno che tu non torni indietro».
Kera lancia un pugno in aria. «Assolutamente no. Se ci sono gli Altri qui dobbiamo riferirlo alle sentinelle».
«E a Saggia Pan».
«E a Saggia Pan».
Mano a mano che proseguono la cacofonia si fa più alta, soverchiando gli accordi armonici della notte. Fuori dal bosco, davanti a loro, luci coniche feriscono il buio che emerge dalla terra. Con la punta all'ingiù si espandono verso l'alto, illuminano sagome grandi con quattro arti, rigonfie, figure che borbottano facendo da sottofondo a quella sincopata di colpi di legno e pietra. Kera preme una mano sulla la spalla di Mu e lo costringe ad accovacciarsi.
«Devono essere i Boi», afferma Kera. «Tu stai qui».
«Ma, è pericoloso. Saggia dice...»
«Saggia dice tante cose, e su questa ha anche ragione. Ma io mica sono stupida, non mi faccio acciuffare», dice e si preme il pollice in mezzo alle sopracciglia con fare teatrale. La cacciatrice si sdraia per terra, si muove carponi verso quelle sagome inquietanti. Gli arbusti di spine inghiottiscono la cacciatrice. Mu attende. Gambe che tremano, orecchie che gli implorano di scappare lontano da quei rumori disordinati e stranieri. Sembra passare un'eternità, ma finalmente Kera ritorna. Lo afferra per un polso, lo strattona lontano, su per la collina.
«Cosa c'è? Li hai visti?»
«Certo che li ho visti, babbeo. E sono tremendi. Ho visto i loro occhi: sono piccolissimi e non so come facciano a vedere. Secondo me sono quelle loro luci a cono che li hanno ridotti così. No, anzi. Secondo me loro si muovono di giorno ed è il sole che gli ha fatto diventare gli occhi così piccoli».
«Ma che dici», ansima Mu cercando di starle dietro, strattonato dalla sua presa ferrea. «Nessuno può sopravvivere al sole».
«Magari Saggia Pan si sbaglia. Magari si può sopravvivere ma si diventa così, come quei Boi. Oh, Mu, preferirei togliermi gli occhi da sola che ritrovarmi con quelle palline risucchiate nella faccia».
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