𝟐. 𝐈𝐥 𝐩𝐚𝐬𝐬𝐚𝐭𝐨 𝐢𝐧 𝐜𝐚𝐫𝐧𝐞 𝐞 𝐨𝐬𝐬𝐚
Fuori dalla classe saluto Adam con un bacio a fior di labbra.
Ovviamente uno dei più brillanti studenti della Westwood, nonché figlio del preside, non avrebbe mai potuto frequentare gli insegnamenti insieme a comuni mortali. A lui e ad altri pochissimi eletti, infatti, sono state destinate lezioni private con i migliori professori degli Stati Uniti.
Come ogni giorno, prendo posto accanto a Claire, che si sporge per lasciarmi un leggero bacio sulla guancia. Alice, invece, sembra essere in ritardo.
Claire Anderson, fidanzata storica di William Lane - nonché miglior amico del mio fidanzato e anch'egli giocatore di football - e Alice Russo, la cui pelle costantemente ambrata ne suggerisce le origini italiane tanto quanto il cognome, sono le mie migliori amiche ormai da quattro lunghi anni.
Conservo ricordi dettagliati del primo giorno di liceo e so per certo che fu Claire ad avvicinarmisi.
A quel tempo non ero la fidanzata di nessun giocatore di football, né l'amica del cuore di qualche fortunata ragazza d'alto rango. Non ero nemmeno la figlia di un facoltoso uomo d'affari o la nipote di una qualche famosa stilista, come la maggior parte dei ragazzi che mi circondavano.
In parole povere? Ero una sfigata.
Mentre passeggiavo per i corridoi di una delle più facoltose scuole d'America, passavo inosservata, come un'ombra latente. Gli sguardi di ghiaccio di quelli che di lì a poco sarebbero diventati i miei compagni, mi scivolavano addosso con indifferenza.
Nemmeno il fruscio del leggero abito celeste che avevo optato per l'occasione, il più costoso che avessi nell'armadio, o le scarpe con il tacco basso che avevo preso in prestito da mamma, rigorosamente firmate e nuovissime, erano riusciti ad attirare l'attenzione.
Avevo legato i capelli in uno chignon sulla testa e lasciato cadere alcuni boccoli ai lati del viso. Mi ero persino truccata, facendo attenzione a non esagerare con gli ombretti.
Ma in nessun modo avrei potuto celare chi ero veramente. O chi non ero.
Se non fosse stato per la generosa somma di denaro che avevo ereditato dopo la dipartita della mia nonna materna, non mi sarei mai potuta permettere di essere lì; avrei dovuto optare per una normalissima scuola pubblica e, probabilmente, rinunciare al sogno che mi accompagnava da una vita: lavorare nel mondo della moda.
Per quanto mi impegnassi nel nasconderlo, il mio basso ceto sociale era lampante. E il motivo principale per cui tutti mi ignoravano, fingendo che non esistessi.
Tutti, tranne Claire Anderson.
Il carisma di quella ragazza si avvertiva ad un miglio di distanza, tanto distintamente quanto il suo profumo costoso.
Ricordo che fu l'unica a presentarsi quel giorno. Accanto a lei, una più timida Alice si limitò ad accennare un secco saluto.
Claire è figlia di uno degli uomini più ricchi d'America, nonché nipote di una famosa stilista.
Non so cos'abbia visto in me, né per quale motivo abbia scelto proprio me come amica, nonché fedele braccio destro. In fondo, non ero l'unica sfigata ad aver varcato la soglia della rinomata Westwood.
Numerose erano le riserve dei nostri compagni, che per mesi continuarono a non vedermi di buon occhio. Ma quando Claire mi presentò al miglior amico del suo fidanzato, che si innamorò di me nel giro di poche settimane, fu finalmente chiaro a tutti che aveva fatto la scelta giusta.
Da quel momento, quella che tutti al primo sguardo avevano considerato un bocciolo secco, senza prospettive di vita, è sbocciata in una rosa dai petali e dallo stelo indistruttibili.
L'arrivo di una trafelata Alice interrompe il corso dei miei pensieri. Si butta letteralmente sulla sedia di fronte a noi con un affannato "Buongiorno, ragazze". Poi, dopo essere riuscita a ricomporsi, si volta nella nostra direzione.
<<Avete già saputo la novità?>> esordisce, rivolgendosi a entrambe ma esaminando solo la mia reazione.
Di fronte alla mia espressione sorpresa, lei prosegue: <<Temo non ti piacerà, Skye.>>
Le mie due migliori amiche si lanciano un'occhiata eloquente, mentre io rimango interdetta.
Osservo Claire in cerca di spiegazioni e solo adesso mi rendo conto del suo bizzarro mutismo. Da quando sono arrivata, non ha ancora spiccicato una sola sillaba, mentre di solito è molto – oserei dire fin troppo - loquace.
Faccio vagare lo sguardo dall'una all'altra. <<Possibile che io sia sempre l'ultima ad essere messa al corrente delle novità?>> domando retoricamente, fingendomi offesa.
<<Se ancora non lo sai, presto comunque lo vedrai da te>> afferma una Claire improvvisamente sorniona.
Non faccio in tempo a indagare oltre, che la professoressa di matematica, la signorina Morris, fa il suo ingresso in aula.
Non è sola: dietro di lei, qualcuno la segue a ruota.
La temperatura nella stanza crolla a picco in un istante, strappandomi il fiato dai polmoni.
Subito dopo, raggiunge un clima simile a quello del Deserto del Lut, per poi precipitare nuovamente e sfiorare i livelli dell'ibernazione.
Non riesco nemmeno più a respirare tra tutti questi sbalzi e sto letteralmente boccheggiando alla ricerca di ossigeno, quando la signorina Morris esorta il ragazzo accanto a lei a presentarsi.
<<Mi chiamo Isaac>> mormora semplicemente lui. <<Isaac Miller.>>
O, per meglio dire, il passato in carne e ossa.
Claire mi lancia uno sguardo turbato, tant'è che per un secondo ho la sensazione di aver espresso quel pensiero ad alta voce. Avverto alcune sue parole arrivarmi ovattate alle orecchie, ma un fastidioso fischio mi impedisce di concentrarmi.
Sono al centro di un vortice e non c'è nulla a cui possa aggrapparmi per tornare con i piedi per terra.
Incrociare improvvisamente i suoi occhi di petrolio è uno scontro violento.
Anche il suo petto sembra subire un lieve sussulto. Riesco a percepire il suo nervosismo fino a qui.
È allora che avverto il moto di rabbia, che fino ad ora era rimasto inerme e silenzioso al centro del petto, salirmi in gola e stringersi in un nodo quasi doloroso.
Il cuore incomincia a battermi furiosamente, come se volesse sfuggirmi dalla gabbia toracica. I palmi delle mani fremono per il bisogno di colpire qualcosa.
Non qualcosa. Qualcuno.
Non sarebbe mai dovuto tornare.
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