𝟏𝟗. 𝐋'𝐞𝐧𝐢𝐠𝐦𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐩𝐞𝐜𝐜𝐡𝐢𝐨

Immagino che tra i più esperti fabbricanti di maschere, il podio spetti - senza ombra di dubbio o di remore - agli specchi: eccezionalmente abili nel riflettere solo una parte del tutto, a mettere a nudo l'esterno e ad occultare l'interno, sembrano essere predisposti all'inganno.

Allo stesso modo, l'occhio pare invece essere programmato per lasciarsi ingannare, a dispetto di qualsiasi raggio di apertura o grado di accortezza.

Ma esiste un terzo bulbo oculare, incastonato sapientemente nelle cavità più profonde dell'essere umano, al punto da risultare irreperibile ad alcuni e inaccessibile ad altri. L'unico realmente dotato di un'impareggiabile capacità visiva: l'intuito. Ancor meglio se unito a una buona dose di esperienza e razionalità.
Il solo in grado di smascherare gli specchi, accorciando le gambe alle loro menzogne. Di scovare i grani di zucchero nelle saliere. Di proiettare un fascio luminoso e rischiarare le tenebre, come una finestra aperta, illuminata dalla luce elettrica, risplende nel buio della notte, rivelando ciò che si cela al suo interno.

Nessun occhio nascosto, tuttavia, sembra essere ancora riuscito a risolvere l'enigma di questo specchio. E ciò che anche questa sera mostra, non è nient'altro che la figura slanciata ed elegante di una ragazza dai boccoli neri, laccati come spire di liquirizia, che incorniciano un volto giovane e innocente. Si posano morbidi come seta sulle spalle, andando a coprire a mala pena le strette spalline dell'abito di satin. Un vestito che a sua volta scivola giù con delicatezza, percorrendo ogni curva di quel fisico asciutto, disegnato con perizia; avvolgendolo di un lucido color crema.
Un paio di sandali con il tacco alto, qualche luccicante gioiello dorato ai polsi e alle orecchie e una piccola borsa griffata.

Le profondità, al contrario, continuano a rimanere occultate sotto l'ingannevole superficie, come blocchi di ghiaccio che si protendono verso i fondali più gelidi. Pronte ad affondare e inghiottire qualsiasi tentativo d'invadenza.

Dopo un ultimo, attento controllo e non prima di essermi premurata di aggiungere all'outfit la consueta maschera - questa sera un po' più indifferente del solito, per adattarla all'occasione - mi affretto ad accogliere Alice alla porta.

Gli occhi dell'italiana sfilano per qualche istante lungo tutta la mia figura. <<Ricordo male o ti avevo raccomandato di metterci meno impegno del solito?>> commenta ammiccante.

<<Non so a cosa tu ti riferisca. Non mi sono nemmeno truccata granché.>>

<<Mannaggia a te, sei uno schianto. Giuro che se non fossi etero, sarei già caduta ai tuoi piedi.>>

Anche il mio sguardo cammina tra le sue curve, fasciate da un sensuale tubino rosso. Come un pellegrino, non può fare a meno di soffermarsi ad ammirarne i lunghi capelli castani, che le accarezzano la schiena in un fiume di caramello. Ne inquadra il volto naturalmente abbronzato, questa sera impolverato da un leggero velo di trucco, che ne enfatizza quegli occhi già enormi per volere dell'universo, incastonati come pianeti d'acqua sotto chilometriche ciglia scure.

Per la prima volta, si scopre quasi geloso di quella bellezza naturale. Ai limiti della competizione. Forse perché sa - senza necessità di alcun consulto con la terza parte più intuitiva - quanto le sia stato facile sfruttarla a proprio vantaggio, per catturare proprio quegli occhi meno indicati a rotolare ai suoi piedi.

<<Anche tu non sei poi così male>> la canzono, accennando un sorriso e scuotendo leggermente la testa, nel tentativo di affossare quel pensiero intrusivo in un angolo un po' più nascosto.

Cosa che riesco a fare solo parecchio tempo dopo, quando siamo già in viaggio da una mezza eternità, e non senza una certa dose di impegno.

Uno sforzo del tutto inutile, tuttavia, che viene completamente azzerato nel momento in cui Alice, alle prese con la sua guida prudente, decide di deviare la conversazione - fino a quel momento leggera - verso uno dei discorsi meno opportuni della serata.

<<Dicevi sul serio su Isaac?>>

Le dita avviluppate alla borsetta, si conficcano nella pelle come aghi di pino. <<A che proposito?>> Gli occhi fluttuano al di là del finestrino. Sfiorano le ombre dei grattacieli, che distendono gli arti stanchi sull'asfalto, allungandosi all'infinito. Accarezzano gli scheletri delle foglie, ridipinti a mano dal buio della notte, che si mescolano alle luci dei lampioni e svaniscono nelle pozzanghere.

<<Quando hai sostenuto che non sia una compagnia raccomandabile...>> Alice sembra ingranare la quarta e proseguire spedita verso il nucleo del discorso. Ma, dopo qualche attimo, ci ripensa. <<Scusa. Forse non avrei dovuto parlartene.>> Ingrana la retromarcia e si zittisce, probabilmente nel tentativo di adattarsi al mio silenzio. E da quel momento, è l'assenza di comunicazione ad occupare comodamente i posti vuoti all'interno dell'abitacolo, beandosi della musica leggera che esce dalla radio, fino all'arrivo a destinazione.

Quando scendiamo dall'auto, l'aria autunnale mi afferra ferocemente per le spalle. Una scia di brividi incomincia a marchiare a fuoco lo strato più superficiale dell'epidermide, esposta al gelo di ottobre come gli ultimi boccioli estivi, mentre inspiro a fondo. Lascio che l'aria notturna mi investa i polmoni in un'alta marea gelida, riemergendo finalmente da quella che definirei una lunga, infinita apnea.

<<Vieni, facciamoci strada verso i drink>> mi esorta l'italiana, prendendomi sotto braccio e scortandomi verso l'entrata del locale.

❖❖❖

Non sono mai stata una grande amante del caos, né tantomeno dell'eccessivo rumore.

Alle feste mi sono sempre sentita una virgola di troppo, tra le urla che irrompono con violenza nelle orecchie, sfrattandone l'udito. Un punto e virgola piazzato a caso, al momento meno opportuno, in mezzo alle orde di gente che finiscono per schiacciarti agli angoli o fagocitarti viva.

Credo di non averlo mai ammesso ad alta voce.

Del resto, quando sei la fidanzata di Adam Westwood, non puoi permetterti di restare in disparte da nessuna parte. E ritrovarsi al centro dell'attenzione è un cliché a cui devi imparare presto ad assuefarti - controvoglia o contromano.

Eppure, per qualche misterioso motivo, questa sera mi sento più a mio agio del solito.

Mentre mi addentro nel locale e tra la folla, ricambio con forzata allegria l'infinità di saluti di coloro che sembrano conoscermi - alcuni dei quali non riconosco e molti altri già dispersi nel proprio vortice alcolico, senza badare troppo al volume della musica. Anzi, al contrario, è il rumore stesso a colmare - almeno apparentemente - la fossa che avverto sprofondare al centro dello stomaco, come un'insaziabile fame d'aria; una trincea di vuoto e di silenzio, scavata fin dentro le viscere, che mi lascia tanto inerme quanto un soldato privato di ogni onore e gloria.

E quando Alice mi rifila un drink alcolico dal colore indefinito, al pari di un bicchiere da miscelazione di un pittore, lo finisco in pochi sorsi.

Disinfettare, colmare, ricucire.

Disinfettare, colmare, ricucire.

È l'unica formula matematica che conosco per smettere di fare i conti con le ferite peggiori.
Ma non sempre sembra funzionare.

Le iridi trasparenti come bolle di sapone, la mia amica mi rivolge lo stesso sguardo che avrebbe potuto riservare solo a un libro strappato - il che non fa altro che ravvivare il già rovente senso di colpa. <<Vuoi parlarmene?>> mi urla all'orecchio.

Ciondolo lentamente la testa. <<Se dobbiamo parlare di Adam, me ne serviranno altri>> ammetto, indicando il bicchiere ormai vuoto.

Quasi come se il fato concordasse con la mia tutt'altro che ragionevole dichiarazione, Alice intercetta all'istante un cameriere di passaggio: dopo avergli rifilato il bicchiere vuoto, ne afferra un altro paio - ricolmi fino all'orlo - dal vassoio. Sorseggia il proprio lentamente, mentre mi porge l'altro. Poi torna ad affibbiarmi quel vecchio e per nulla amato sguardo compassionevole.

<<Ti prego, non guardarmi così>> non riesco a non rimproverarla, l'arroganza conficcata tra lingua e palato come la spina di una rosa. <<L'ho lasciato io. O meglio, io ho deciso che fosse il caso di prendere le distanze. Perciò non merito quello sguardo.>>

Quando Alice mi abbraccia, prendendomi talmente alla sprovvista da rischiare di farmi rovesciare il drink sul vestito e di ritrovarsi lei stessa zuppa di quell'intruglio colorato, mi pento all'istante del tono con cui ho deciso di armarmi.

<<Non importa chi abbia lasciato chi. Né per quale motivo abbiate preso le distanze – se per Claire o altro. Stai soffrendo, è evidente. Perciò, in ogni caso, meriti tutto il mio supporto.>>

Quei foni mormorati direttamente nell'orecchio, si intrufolano in profondità. Raggiungono il nucleo del cervello, accarezzandone con delicatezza le sinapsi corrotte. Con un tripudio di ammorbidente, finiscono per sciacquare i pensieri più sporchi e lenire le fibre dei nuovi arrivati.

Non possono cavare quelle spine di rimorso dai fianchi, perché non ne conoscono la natura fino in fondo. Ma, per la prima volta, realizzo quanto dolore e delusione amino travestirsi da rabbia. Riversarsi sulle spalle sbagliate, inaspettatamente, come un acquazzone in un giorno di sole. O, peggio, armarsi di fredda apatia. Crearsi il proprio vuoto intorno agli altri vuoti, allontanando proprio ciò che potrebbe colmare; continuando testardamente a spingere quella porta con l'insegna "tirare" scritta a grandi lettere.

Allo stesso tempo, ricevere quella dose di comprensione incondizionata, mi fa sentire parte di qualcosa di immensamente più grande.

Mi suggerisce che, nonostante tutto, c'è ancora molto su cui poter contare: qualcuno pronto a spezzare una lancia a mio favore, quando entro in guerra con me stessa. A diseppellirmi dalle fosse in cui finisco per incavarmi con le mie stesse mani. Ad occupare quel posto al mio fianco, anche quando sostengo che sia già occupato, perché è in grado di intuire che non lo è affatto – e che, in verità, sto solo cercando di restare sola con i miei silenzi, perché non credo di meritare qualcuno che si sforzi di parafrasarli. Qualcuno che non mi imponga il proprio fiato sul collo, ma che sappia mantenere la giusta distanza, affinché io possa continuare a scorgere la sua figura in prima fila - senza mai darne per scontato il sorriso che mi riserva, né giocarmi la sicurezza che riesce a infondermi.

Ancora tra le braccia di Alice, gli occhi mi si riempiono di onde. Quando minacciano di lambire le guance, come barche nel bel mezzo di una mareggiata, intuisco quanto l'alcol stia già iniziando a corrodere le maschere. Il che mi impone di rallentare, se non voglio rischiare di concedere la libertà a qualche pensiero in gabbia di troppo.

<<Isaac...>> mormora lei all'improvviso, ma io mi affretto a interrompere quell'approccio sul nascere: <<Alice, non vorrei ripetermi... ma, seriamente, non credo che Isaac sia il genere di ragazzo che dovresti fre...>>

<<No, Skye, guarda>> urla lei, allontanandosi. L'esasperazione tra le mani, mi obbliga a piroettare su me stessa con uno strattone.

La testa vortica come una girandola impazzita nelle correnti. Finisco per ciondolare a destra e a manca per qualche istante, tanto instabile quanto un cielo imbottito di nubi, fino a ritrovarmi a collidere contro il petto di qualcuno, apparso dinnanzi come un inaspettato banco di nebbia.

Sono i suoi occhi neri, privi di luci, ad offrirmi un parapetto a cui aggrapparmi per ritrovare l'equilibrio; mentre quella mano che va a posarsi sulla mia schiena nuda, scivolando sulla pelle con la stessa leggerezza di una goccia, minaccia di indurmi a smarrirlo definitivamente.

Isaac Miller.

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