I. - Eriadne

Socchiudo le palpebre, lentamente.
Una luce calda ma intensa mi perfora gli occhi facendomi subito riacquisire ogni percezione.
L' alba dev'essere già sorta.
Libero una gamba dalle lenzuola pregiate in cui sono semiavvolta; un peso ingombrante mi preme fra le scapole.
Lentamente scivolo verso destra per liberarmene e, sforzandomi di non fare movimenti azzardati, mi siedo sul bordo del letto.
L' aria tiepida che filtra oltre il drappo della finestra accarezza il mio corpo nudo.
Mi passo le mani sulle braccia avvertendo un sordo indolenzimento alle gambe e al ventre.
Sospiro quando, abbassando lo sguardo sul mio seno, lo trovo ricoperto di lividi e macchie violacee.
Il soldato che ancora dorme alle mie spalle, emette un grugnito inarticolato.
Lo osservo tendere un braccio fra le lenzuola, cercandomi a tentoni, per poi sprofondare di nuovo nel sonno.
Rabbrividisco notando un rivolo di saliva colargli dalle labbra circondate da barba scura e ispida.
Con attenzione mi alzo in piedi per cercare la mia tunica.

La stanza è disseminata di avanzi di cibo e coppe vuote.
Una pozza di vino scuro giace davanti alla porta con accanto un vassoio di frutta rovesciato.
Minuscoli chicchi d'uva sono disseminati sul pavimento di granito e una coscia di quaglia spunta da sotto il letto.
Non mi meraviglio.
Deglutisco, individuando la mia veste al lato opposto della sala.
Mentre la indosso non posso fare a meno di notare quanto sia logora, in alcuni punti perfino strappata.
Un nodo mi stringe la gola seguito immediatamente da un conato.
Mi premo una mano sull'addome mentre il moto di disgusto cresce a dismisura.
Disgusto verso ciò che ho fatto questa notte.
Disgusto verso ciò che faccio quasi ogni notte.
Disgusto verso ciò che faccio da diciannove anni di vita.
Disgusto persino per ciò che sono.

Stringo le palpebre e, senza voltarmi, abbandono la stanza silenziosamente.
Percorro a piedi nudi un primo corridoio per poi svoltare velocemente in un secondo.
Una breve rampa di scale conduce ai sotterranei del palazzo, dove si trovano gli alloggi degli schiavi.
Le stanze sono poche: è un privilegio possederne una.
Abbasso lo sguardo incrociando una guardia, tuttavia non mi sfugge l'occhiata lasciva che mi indirizza.
Mi stringo nella veste trattenendo il fiato finché, raggiunto il mio alloggio, non mi chiudo la sottile porta alle spalle.

Un respiro profondo mi sale spontaneo mentre riprendo padronanza delle mie emozioni.
Sono momenti difficili: una parte di me lotta per liberarsi di tutto ciò.
La poca dignità che mi è rimasta si sforza ancora di emergere.
Ma il fatto è che ormai dovrei esserci abituata. Non c'è cosa che non abbia subito o che non sia stata costretta a fare.
Perché, dopo tutto, questo significa essere una schiava.
Perdere il possesso di ogni cosa, persino del proprio corpo.
Obbedire senza esitazioni.
Donarsi a qualsiasi uomo come un semplice oggetto di piacere e svegliarsi la mattina seguente con il terrore di aver concepito un futuro schiavo.

Mi passo la lingua sulle labbra secche dirigendomi verso il fondo della stanza.
I pochi oggetti di arredamento consistono in una cassapanca, un treppiede con una bacinella d'acqua e una branda dal materasso grezzo riempito di foglie secche.
Sollevo il coperchio della cassapanca semivuota prelevando un panno ripiegato e una tunica turchese.
Un momento dopo sono di nuovo svestita e mi sto passando il panno umido su tutto il corpo.
Il bagno è un onore non permesso agli schiavi: dobbiamo arrangiarci con il poco che ci viene concesso.

Immersa nei miei pensieri osservo le gocce d'acqua scivolare sulla mia pelle, tracciando lucidi sentieri trasparenti.
Segni di unghie si intrecciano sulle mie spalle bruciando a contatto con l'acqua gelida.
Stringo le labbra.
Darei qualsiasi cosa per lavare via anche questa sensazione di sporco che mi sento dentro da anni.
Una volta lavata mi asciugo velocemente e indosso la tunica turchese.

Tutto ciò che possiedo ora mi è stato lasciato da mia madre. Fu la prima ancella della regina Ecuba e aveva origini greche, ma se ne andò a causa della febbre quando io ero poco più di una bambina.
La malattia non risparmia nessuno, soprattutto se si è deboli.
Non ne conosco il motivo, ma re Priamo acconsentì che mi fossero lasciate le sue proprietà non appena fossi stata in grado di gestirle.
Per questo, forse, dovrei sentirmi onorata.

Indosso un paio di calzari semplici e intreccio i lunghi capelli castani in un'acconciatura sulla nuca riflettendo sul come innumerevoli cose siano cambiate in queste ultime tre lune.
Una foschia di dubbi e tensione ha avvolto la città da quando lei ha messo piede per la prima volta a Troia.
Inizialmente si trattava solo un presentimento e, malgrado a corte non ci sia stata alcuna presentazione ufficiale, la conferma è giunta non appena la notizia ha iniziato a viaggiare veloce, alimentata e sostenuta dalle ali leggere dei calzari di Ermes.
Da quel momento continuo a leggere turbamento sul volto di ogni abitante; a ogni ora, in ogni momento della giornata, ma specialmente la sera, quando i bracieri vengono accesi e le scintille dorate da loro prodotte vengono cullate dal vento tiepido.
È in quel momento che le ombre rivestono le mura della città, sfiorando il cielo, e alimentando i timori.
Nessuno ha il cuore di parlarne, molti probabilmente non lo ammettono neppure a se stessi ma l'inquietudine che le cose possano mutare, così, da un giorno all'altro, logora le anime con la stessa precisione e perseveranza di un tarlo invisibile.
Oramai sono tre lune che la città trattiene il respiro, nell'attesa di qualcosa che non ci è nemmeno dato sapere.
Il futuro ormai è divenuto un'incognita che sembra nessuno abbia il coraggio nemmeno di ipotizzare e che soffoca qualsiasi speranza.

E tutto questo per lei.
La donna più bella del mondo si dice, verso cui pare che la stessa Afrodite porti rancore e invidia.
È giunta qui insieme a Paride, di ritorno dalla Grecia come delegazione di pace insieme a suo fratello Ettore.
La famiglia reale si ostina a nascondere la presenza di questa straniera come se il popolo di Troia fosse divenuto improvvisamente cieco e sordo.
Molti subito hanno parlato di rapimento ma l'unica verità certa consiste nel fatto che nessuno l'abbia vista più di qualche istante durante il suo arrivo, e che da quel momento la sua presenza venga celata ogni giorno e per quanto possibile da occhi indiscreti.

La porta della mia stanza si spalanca di colpo facendomi sobbalzare.
Una guardia in armatura compare sulla soglia squadrandomi con i suoi penetranti occhi chiari.
- Muoviti - ordina secca - sei attesa ai piani superiori. -
Deglutisco abbassando lo sguardo e annuendo.
Agli schiavi non è consentito guardare negli occhi una persona libera.
Il soldato si congeda rivolgendomi un'ultima occhiata.
Attendo qualche istante, indecisa.
Non mi è mai capitato di venire convocata direttamente; i miei obblighi sono sempre gli stessi, ogni giorno, ogni luna.
Mi mordo l'interno della guancia e finalmente mi decido a uscire.
Percorrendo i corridoi incontro numerose altre ancelle; alcune più anziane altre più giovani di me.
Le vesti di queste oscillano lentamente sfiorando il pavimento.
Molte conversano, altre procedono a testa bassa con espressione neutra.
Superiamo un cortile costeggiato da un ampio portico e, salita una scalinata, giungiamo presso il punto più alto dell'acropoli.
Fermandomi per qualche istante sull'ultimo scalino, mi volto per ammirare il panorama.
Ilio, simbolo di tutta la Troade, si apre davanti ai miei occhi.
I tetti delle abitazioni e le mura color sabbia si confondono con il paesaggio secco e arido.
Rivolgo lo sguardo ad occidente dove, all'ombra delle fitte fronde di alberi antichi, scorre il fiume Scamandro.
Le sue acque pure e cristalline rendono fertili le pianure poco distanti.

Due soldati mi superano per raggiungere la cima della scalinata e posizionarsi sulla soglia del massiccio portone in legno intarsiato che da accesso alle stanze reali.
Un vago senso di curiosità incomincia ad espandermisi nel petto mentre mi affretto a raggiungere le mie compagne radunate in due file ordinate sul pianerottolo.
Le ante dell'ingresso si schiudono lentamente facendo gemere i pesanti cardini e aprono la via a tre figure scortate da due guardie reali.
Le armature di queste ultime risplendono di una riflesso ramato alla luce calda del sole di mezzogiorno.
Reprimo un brivido di timore reverenziale quando in una delle tre figure riconosco la regina Ecuba, scortata dalla sua ancella di fiducia e avvolta nella sua usuale veste blu notte decorata da ricami dorati. I capelli, raccolti in un'acconciatura ornata di perle e coralli, sono venati da sfumature argentee, segno che il tempo ha iniziato a lasciare tracce anche su di lei.
- Siete state convocate - inizia con tono austero - poiché il vostro compito sarà, d'ora in poi e a turno, quello di occuparvi della nostra ospite. Questo deve rappresentare un grande onore per voi. -
Le parole della regina vengono trasportate dalle tiepida brezza marina prima di venire coperte dal brusio che si alza dalle mie compagne.
I miei occhi si muovono spontaneamente sulla terza figura il cui profilo è oscurato da un ampio mantello color porpora.
- Sarà vostro dovere fare in modo che non le manchi nulla e accogliere la sua presenza con il massimo riserbo. Badate, ogni atto di negligenza verrà punito severamente. -
Il tono di Ecuba assume i contorni di una minaccia velata che fa immediatamente interrompere il vociare presente sino a questo momento.
Ho un brivido mentre cerco di non dare peso al presentimento che sento farsi strada in me.
Dopodiché un cenno della regina fa avvicinare la persona ancora celata ai nostri sguardi; con un gesto leggero la osservo abbassare il cappuccio.

Una cascata di boccoli scuri ricade fuori dalla concavità della veste, esponendo alla mia vista un viso indubbiamente femminile dai lineamenti dolci e aristocratici.
Occhi azzurri come le profondità marine e labbra rosee e delicate spiccano sul volto della giovane.
Trattengo respiro mentre perfino il vento pare calmarsi di fronte a tanta bellezza.

L'atmosfera di attesa, che si era creata poco fa, viene sostituita da una di profondo disagio.
Per qualche attimo nessuno osa parlare.
Quando Ecuba abbassa il mento in un muto segno di congedo realizzo come nessuno abbia avuto bisogno di presentazioni, e di quanto gli istanti di poco fa rappresentassero una vera e propria quiete prima della tempesta.

Una tempesta che mi rendo conto solo ora di temere più di quanto immaginassi.

E così, mentre mi sforzo di sedare il disagio che sento aumentare dentro di me, una folata improvvisa di vento avvolge in pieno la sala.
La mia acconciatura si disfa facendomi scivolare alcune ciocche sul viso.
E una parola giunge alle mie orecchie.

Elena.

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