Capitolo 7. Riverwood - Parte Prima
Oltre le imponenti inferriate, la città si sviluppava graziosamente lungo tre ampie strade acciottolate, ciascuna cinta ai fianchi da signorili costruzioni a due piani. Le ville che accoglievano i viaggiatori dietro le bianche mura erano solo il preludio dello splendore che la città dei dieci templi era in grado di offrire, ma erano state costruite proprio con lo scopo di incantare i nuovi arrivati, mostrando loro una delle molte facce vivacemente colorate di cui Riverwood era dotata.
Non vi era uniformità nelle tinte delle pietre dei loro patii, come non ve n'era nella scelta dei blocchi marmorei dei muri, o in quella dei pittoreschi balconi ricolmi di tenui cascate in fiore. Eppure quella cromia non poteva che essere stata pensata con lo specifico intento di trasmettere armonia e gioia agli occhi ignari che vi si posavano sopra.
Gli avventurieri procedevano lungo una via laterale, lastricata e gremita di gente, e costeggiavano il muro esterno, concedendo agli edifici qualche fugace e imprevista occhiata di apprezzamento: tra i tetti in pietra rossa riscaldati dal sole di metà mattina, vedevano svettare le guglie e la cupola candida, ornate dei rami degli alberi sacri agli abitanti del posto. Seppur ancora distanti, questi rimanevano visibili da ogni angolo della strada, spettatori silenziosi della vita fremente della città, ed era semplice distinguere i nativi dai viaggiatori proprio questi ultimi camminavano con il naso rivolto verso l'alto, abbagliati dai motivi eleganti che già si intuivano appartenere a quelle strutture.
Anche i compagni vi dedicavano sguardi colpiti, ma la loro curiosità era attenuata dall'attenzione riservata ai banditi, ancora raggruppati sul retro del carro. Gamos li scortava verso la caserma facendosi largo tra la folla, e il suo mezzo ne incrociava spesso di altri altrettanto ingombranti, costringendo la carovana a rallentare la marcia e a destreggiarsi tra bancarelle colme di mercanzia e acquirenti carichi di prodotti freschi e profumati.
L'aroma di prodotti esotici e speziati si mischiava però a quello meno gradevole del pesce appena pescato e delle molti carni crude esposte al sole e dunque già soggette ai primi segni di naturale marcimento, limitato solo dal sale sparso sulle loro superfici. L'effetto era a tratti gradevole, a tratti nauseante e andava ad aggiungersi all'aria già satura dell'odore di corpi compressi e di fognature.
Strappato alla sicurezza della natura familiare e catapultato in quelle vie intasate da una moltitudine di anime, suoni e colori, Spock camminava irrequieto, preda di un senso di malessere che aumentava a ogni passo. Il suo sguardo si spostava disperatamente verso l'alto, sulle cime di quelle piante che intravedeva tra i balconi, mentre con immane sforzo cercava di ignorare di essere spinto di continuo in avanti, sempre più dentro le viscere di quella civiltà dalla quale si era tenuto volontariamente lontano in tutti quegli anni.
Ricordi di una vita precedente affioravano ai tratti ai margini della sua coscienza, quando incrociava una casa dalle fattezze simili a quelle che un tempo aveva conosciuto, o qualche volto che poteva essere assimilato a quelli che avevano percorso la sua infanzia. Le prime volte era rimasto frastornato e si era bloccato a osservarli con stupore e confusione, per realizzare quasi subito che non fossero le stesse persone che si era aspettato; ma appena il carro lo aveva superato, la folla si era richiusa intorno a lui e il senso di soffocamento era aumentato, spingendolo ad accelerare il passo per recuperare la posizione accanto al veicolo, l'unico che pareva in grado di aprirsi un varco sicuro in mezzo alla gente.
La tentazione di scappare era diventata atroce, e lo dilaniava nel profondo quando un nuovo odore colpiva le sue narici, o una persona distratta dalle bancarelle lo urtava, per evitare di intralciare il passaggio del carro. L'idea di voltarsi e correre lontano, verso il rifugio sicuro offerto dagli alberi, continuava ad affacciarsi nella sua mente, eppure Spock la scacciava ogni volta, aggrappandosi a quella stessa sensazione che lo aveva convinto a seguire i compagni fino a Collediquercia, una volta lasciato il baratro e le sue minacce.
Più andava avanti, più sentiva, con sempre maggiore sicurezza, che il suo piccolo rifugio lontano dal mondo gli sarebbe sembrato limitato, insufficiente, se vi fosse tornato; ora che la fortezza e la pergamena gli avevano mostrato quanto cose ignorasse, al di là degli amati tronchi e delle ricche fronde, la radura appariva la scelta più comoda ma anche la meno attraente, la meno entusiasmante. Fuggire sarebbe stato facile, ma convivere con l'idea di aver perso l'occasione di sapere, di apprendere quali forze misteriose si agitavano su Irvania, era una prospettiva che si faceva sempre meno allettante ogni giorno che passava.
E dunque procedeva dietro i compagni, ingoiando l'ansia e sperando che le formalità alla caserma si sarebbero risolte rapidamente, permettendo loro di raggiungere un tempio e ottenere le risposte che cercavano. Al suo fianco camminava Galatea, e di nuovo il druido percepì nel suo sguardo un turbamento simile al suo, nel nervosismo dei suoi gesti lo stesso timore per quella vita così radicalmente lontana dalla loro; ma di nuovo cercò di ignorarla, non riuscendo a trovare altro punto di contatto con la superba elfa oltre quella sensazione di disagio e confusione.
Nella cacofonia di suoni e lingue diverse di quella folla, Gamos si stava perdendo in racconti sulla città e le sue meraviglie, in parte in favore dei compagni di viaggio, stretti al carro per udirne le parole, in parte di un'estasiata Carthana, che gli sedeva accanto. Deciso ad allontanare definitivamente il malessere che lo pervadeva, Spock si concentrò sulla discussione che procedeva davanti a lui, lasciando che le parole del mercante offuscassero le fitte di disagio che lo pervadevano.
«Riverwood è uno dei gioielli del casato di Ileyn. La stessa regina vi giunge in pellegrinaggio due volte l'anno, per rendere omaggio al tempio di Heironeous!» esclamò il mercante con foga, agitando una mano in direzione della bianca cupola «La regina Matilda ha presenziato al rito la stagione scorsa ed è anche una delle donatrici più generose che il tempio possa desiderare. Oh!» Il mercante tirò le redini, arrestando il paio da tiro a un incrocio, per lasciar passare un altro carro, coperto anch'esso da fitti tendaggi colorati.
Jake si sporse, interessato, verso il mercante «E le altre guglie?» chiese, indicando con il mento gli edifici oltre i tetti.
Gamos non si volse, ma spronò i cavalli a proseguire «Ciascuna è la sommità di un tempio, e ognuno di essi è dedicato a un culto, come lo sono gli alberi che vi sorgono intorno. La grande guglia dorata...»
«È dedicata a Pelor!» scattò su Nor, felice, mentre il padre annuiva, lo sguardo sempre concentrato alla strada e alla folla.
«Io e il piccolo Nornor abbiamo studiato la storia della città di recente» spiegò Carthana, rivolgendosi agli avventurieri «Mio marito e io abbiamo scelto di cominciare la sua educazione in casa, per prepararlo all'arrivo del suo precettore».
Il mercante sorrise, annuendo «Proprio come abbiamo fatto per la nostra Annah». La ragazza, che camminava accanto al carretto, annuì distrattamente, tornando poi a parlare con il mezz'elfo al suo fianco.
Carthana sospirò vedendoli, ma poi riportò l'attenzione sulla discussione, attirata dalla felicità nel tono del figlio «Madre, quella grigia è la guglia di St. Cuthbert, vero?»
La donna annuì «E gli alberi?», gli chiese.
Nor ci pensò su qualche secondo, poi parve trovare la risposta perché sollevò un braccio con foga, strappando un sorriso anche a Jake e Ben «L'ulivo è dedicato a Obad-Hai, la quercia a Corellon Larethian e il salice...» una pausa, nella quale il bambino si grattò la testa, coperta di sottili ciuffi biondi «Elhonna!» esclamò felice.
Gamos rise, orgoglioso «Esattamente, piccolo mio» e Nor batté le mani, entusiasta «Da grande sarò uno storico, mamma lo dice sempre».
«Sempre se continuerai a studiare con attenzione» precisò la madre, ma l'attenzione del piccolo era già stata sviata da una bancarella colma di giocattoli di legno e girandole, mosse dalla leggera brezza che filtrava lungo la via. Al passaggio del carro, il bambino la fissò ammirato, sporgendosi dalla cassetta finché non scomparve coperta dalla folla.
«Una scelta bizzarra, quella di dedicare un tempio a Obad-Hai ed Elhonna» osservò Jake, rivolgendosi a Carthana «Per quanto magnifica, questa città è molto distante dalla natura incontaminata che i due proteggono».
La donna annuì «Comprendo che possa sembrare strano» disse, in tono gentile «Ma Riverwood è nata dalla fratellanza tra razze differenti e questa armonia si riflette sulle sue strutture, nonché sui suoi culti». Il cigolio delle ruote diminuì, quando il mercante rallentò l'andatura per imboccare uno svincolo e infilarsi in una strada più stretta e meno affollata. Gli edifici che la cingevano cominciarono a cambiare, perdendo la magnificenza di quelli all'ingresso in favore di una maggiore praticità ed economia di materiali.
Gamos si volse ancora verso gli avventurieri, intervenendo nel discorso «Carthana dice il vero. Quando è nata l'isola dei templi, i fondatori della città hanno scelto di dedicarla agli dei che hanno vegliato sulla sua costruzione. Tra loro vi erano anche alcuni elfi, che hanno portato alla città i loro culti, dunque anch'essi hanno trovato il loro posto sull'isola».
«Inoltre, Riverwood sorge su un fiume, da esso trae vita e nutrimento. Anche questo è un modo di convivere con la natura» concluse la moglie.
Jake sospirò, riconoscendo una verità profonda nelle parole della donna «L'armonia è in grado di assumere diverse forme e non sempre sono quelle che ci aspettiamo, dico bene?». Carthana sorrise, lieta di constatare come il ranger avesse colto il senso della sua frase.
Il mercante spezzò il momento, arrestando il carro davanti a un edificio squadrato in pietra, privo degli ornamenti e della delicatezza di quelli precedenti «Siamo arrivati, è ora di liberarci di questo carico».
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