Capitolo 4. L'ombra del passato - Parte Terza
Sull'accampamento era sceso il silenzio già da qualche ora, eppure nell'aria permeavano indelebili le parole di Carthana.
Ben, seduto su un tronco piegato, osservava l'oscurità di quella notte fatta di sidro e stelle, vigilando sulla radura e sui compagni, addormentati in cerchio intorno ai residui del fuoco morente.
Era rimasto sveglio per il turno di guardia, eppure era certo che avrebbe fatto fatica ad addormentarsi anche se non gli fosse toccato quel compito in sorte. Le immagine evocate dalla donna si erano impresse nella sua mente, e l'idea di un'epoca passata, dove i draghi infiammavano i cieli da signori di Irvania, non faceva che rotolargli nella mente, a tratti assumendo le tinte di leggenda, a tratti il fascino della realtà.
Sapeva poco o niente di ciò che era stato di quei tempi antichi, e non era in grado di dire se fossero davvero accaduti quegli eventi; eppure si sentiva spinto a crederci, come in una sorta di speranza insita in lui. Era nato da contadino, cresciuto da semplice soldato, eppure in entrambe le parti della sua vita il mito, la leggenda, erano stati quei frammenti di irrealtà che avevano dato un senso più profondo alla mera esistenza.
Per questo motivo, nello stesso modo nel quale era spinto a credere ai tempi raccontati da Carthana, era portato a pensare che fosse reale anche ciò che era racchiuso nella pergamena trovata nella fortezza.
D'altronde, non aveva forse visto, con i suoi stessi occhi, un cucciolo di drago all'interno della dimora sotterranea? Sembrava quasi che le due leggende si volessero fondere, rinforzandosi l'un l'altra e sostenendosi a vicenda. Come a voler dir loro che se una era vera, tangibile, allora poteva esserlo anche l'altra, allo stesso modo.
Non sapeva dire quanto fosse strana la presenza del cucciolo in quelle profondità, ma Spock aveva detto loro che ancora era possibile trovare qualche creatura sopravvissuta all'estinzione che li aveva investiti, magari celata alla vista del resto del mondo, proprio sotto coloro che un tempo era abituati a guardarli dal basso con stupore. E lui aveva accettato quella spiegazione, perché non aveva alcun modo di dire se fosse giusta o sbagliata, e aveva preso quell'incontro come un caso fortuito e non replicabile, sul quale aveva smesso di ragionare.
Fino a quel momento.
Ora la presenza del drago sembrava quasi un segno, una spinta a credere nel cuore stesso delle leggende. E lui iniziava a percepire che dietro quel foglio di pergamena sottile, ci fosse ben più di qualche scritta confusa e indecifrabile. Restava solo da comprendere cosa.
Il fluire confuso di pensieri si interruppe quando notò il ranger alzarsi dal suo giaciglio e osservare il campo fino a individuarlo, dalla parte opposta. Muovendosi piano, Jake si apprestò a lui, per accomodarsi al suo fianco sul ramo nodoso che gli faceva da seduta.
«Manca ancora qualche ora al cambio» gli fece notare, sondando il volto del compagno in cerca di segni di turbamento.
Jake sospirò, osservando gli alberi e ascoltando i suoni di quell'ambiente tanto familiare e rassicurante. «Non credo sarei in grado di dormire ancora» gli rispose infine, rivolgendo il viso verso di lui. Nella penombra creata dalle poche spire del fuoco rimaste, la cicatrice appariva più oscura, quasi contorta. «Continuo a pensare alla storia di Carthana. All'epoca in cui i draghi volavano liberi per Irvania. Riesci a immaginarlo?».
Ben scosse la testa, pensando a quanto una semplice storia della buona notte si fosse rivelata carica di significato per tutti loro «Già, anche io pensavo lo stesso. E non credo di avere abbastanza fantasia per immaginarmi una cosa simile».
«Nemmeno io» sospirò Jake voltandosi verso il campo.
Su di loro calò di nuovo il silenzio, rotto solo dal fruscio del vento sulle foglie, e dal leggero crepitio delle fiamme. La notte odorava di umidità, e di un leggero sentore di muschio e sidro, che giungeva a tratti alle loro narici.
Per qualche minuto lasciarono che la foresta parlasse loro, senza turbarne la calda quiete. Avevano già condiviso diversi momenti in quei pochi giorni di conoscenza, eppure nessuno di quelli custodiva la stessa intensità dello stare semplicemente accanto, senza parlare.
Infine Ben si schiarì la gola, attirando l'attenzione del compagno.
«È un po' che volevo chiederti...» cominciò adagio, osservando il volto di Jake tinto dalle fiamme morenti «Quello che è successo nella fortezza. La cicatrice... Sono collegati?».
Jake continuò a osservare il fuoco, quasi immobile salvo per le pieghe che si formarono sul suo viso, rese più evidenti dalla danza di ombre create dal baluginio quasi soffocato. Sembrava assorto su quelle spire infuocate, eppure Ben era sicuro che non fosse più lì con lui, ma che si trovasse molto vicino a quello stesso abisso nel quale era sprofondato qualche giorno prima.
«Jake...» lo chiamò, pronto a farsi indietro e scusarsi per quell'intromissione, ma l'uomo al suo fianco parlò, tenendo gli occhi puntati davanti a sé:
«Ricordo ancora tutto come fosse ieri, sai? Ricordo i preparativi per la battaglia, l'esaltazione che provavo all'idea che avremmo contribuito alla salvezza delle nostre terre. Sono stato un soldato, proprio come te, anche se sono sempre stato più capace come esploratore che come guerriero».
La voce gli usciva roca, sofferta e pareva giungere direttamente da quell'abisso. «Sono stato io a individuare il campo della tribù. Avevamo ricevuto diversi attacchi, erano mesi che gli orchi sconfinavano nei nostri territori e razziavano ciò che trovavano al loro passaggio. Li avevamo respinti con fatica, ma il nostro capitano pensava che non sarebbe bastato. Era necessaria un'azione risolutiva, qualcosa che avrebbe convinto i nostri nemici a interrompere ogni azione ostile. Così, quando feci rapporto sulla mia scoperta, l'esercito si mise in moto».
Jake staccò lo sguardo dal fuoco, alzandolo fino a superare la cinta di alberi e raggiungere la volta celeste sopra di lui. Un'infinità di stelle brillava sopra il campo, ma il ranger non era in grado di distinguerle. Le immagini che si erano ripresentate molte notti di fila affollavano ora i suoi pensieri, offuscando la bellezza del cielo sopra di lui. «Attaccammo di notte, muovendoci silenziosi tra le fronde, rendendo inermi le guardie prima che potessero dare l'allarme» riprese, posando lo sguardo su Ben, senza però vederlo davvero «Piombammo sull'accampamento in un'onda di sangue e morte, urlando al cielo stellato la superiorità delle nostre armi. Le nostre grida si fondevano con quelle di disperazione dei membri della tribù, e il sangue brillava sotto le poche torce che illuminavano l'oscurità. Le mie frecce volavano sui nemici, bloccando la loro fuga disperata. I guerrieri a difesa di quell'accampamento morirono prima di riuscire a impugnare le armi. Poi, prima ancora di accorgermene, toccò ai civili. I primi piccoli caddero sotto le lame dei miei compagni, le madri vennero passate a fil di spada senza avere la possibilità di difendere la loro prole. Preda di quel delirio di superiorità, anche io lasciai l'arco per impugnare le lame, e corsi verso i miei compagni, pronto a tingere l'acciaio con il sangue di innocenti» gemette al ricordo, passandosi una mano sui capelli tagliati radi «Ma quando arrivai al primo gruppo, rannicchiato inerme a terra, mi vidi riflesso nel loro sguardo di paura. Ero un mostro, proprio come lo erano stati loro per me fino a quel momento. Arretrai, preda della confusione, e una delle orchesse si staccò dai piccoli e mi corse incontro, con un pugnale stretto in mano. Non lo vidi nemmeno, sentii solo il dolore acuto, lacerante e per un momento il mondo si fece buio.»
Dal capo la mano scese al volto, e alla cicatrice che ora, nella penombra cominciava a sparire «Quando infine a fatica riaprii gli occhi, vidi il mondo tinto di sangue. E poi capii che era il mio. Sotto quella cortina scorsi uno dei miei compagni, che estraeva la lama dal ventre dell'orchessa, poi udii la sua voce, turbata, a pochi passi da me. Da lì in poi, ho solo ricordi confusi. So di essere stato portato al nostro campo, medicato e ricucito. Quella è stata la prima di una serie infinita di notti insonni. Dopo circa una settimana ero abbastanza in forze da riprendere a camminare. Dopo due sparii tra le fronde, portando con me solo l'arco e le mie spade».
Le immagini continuarono a ripresentarsi davanti ai suoi occhi, poi a poco a poco sbiadirono, finché la radura non riprese i suoi contorni, e il volto di Ben non riapparve davanti al suo. In tutto quel tempo, il compagno era rimasto in silenzio, evitando di interrompere quel flusso di parole che premevano per uscire.
«È la prima volta che ne parlo apertamente, sai?» gli disse Jake e Ben sorrise. Sul suo viso, il ranger riusciva a leggere chiaramente i segni del turbamento che il racconto gli aveva causato, ma fu sorpreso di non trovarvi biasimo, né avversione.
L'uomo al suo fianco sospirò, riprendendo a guardare le stelle.
«Non sei l'unico ad avere dei rimorsi» gli sussurrò, tanto piano che Jake fece fatica a sentirlo. «Ma sono lieto che tu mi abbia raccontato tutto questo» continuò poi, riprendendo a guardarlo. «Per quello che può valere, sappi che capisco. E non ti giudico».
Un senso di sollievo pervase il ranger, ma gli fu difficile dire se fosse dovuto solo alla reazione del compagno; era certo però che raccontarlo avesse messo in una nuova luce il suo passato, aprendo la prima porta verso una guarigione che non aveva mai sperato di riuscire a intraprendere.
Rimasero così ancora a lungo, condividendo quel momento di familiarità che, ancora non sapevano, sarebbe stato il preludio di un'amicizia duratura.
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