Capitolo 4. L'ombra del passato - Parte Seconda

Il mercante e il figlio si misero rapidamente all'opera, e aiutati dagli avventurieri resero quella radura brulla un ospitale campo dove trascorrere la notte. L'oscurità avvolse come un manto la compagnia, ma presto le fiamme sfrigolanti del fuoco, avviato con maestria dal ranger, cominciarono a proiettare il loro bagliore sui volti di coloro che vi si affaccendavano intorno.

La primavera su Irvania era giunta da troppo poco perché la terra potesse scrollarsi completamente di dosso il ricordo del gelo, e ben presto tutti i membri della carovana furono costretti a radunarsi intorno alle pietre arrossate, tesi verso il calore familiare che quel campo improvvisato era in grado di offrire.

Carni e formaggi vennero offerti ai compagni, che contribuirono al pasto offerto dai mercanti con ciò che avevano portato con loro da Collediquercia, e chiacchiere leggere accompagnarono il pasto per tutta l'ora successiva.

Lieto della compagnia e dello svago che quei viaggiatori portavano al suo viaggio altrimenti monotono, Gamos corse al carro, e dalle casse di merci estrasse una damigiana colma di liquido ambrato e dei bicchieri in terracotta, per poi fare ritorno al cerchio con volto esaltato.

«Miei cari compagni di viaggio, permettetemi di offrirvi un assaggio del nostro sidro» disse loro facendosi spazio sulle coperte stese in terra. «È prodotto con le mele più dolci di Viandola, ed è quello che ci vuole in una notte come questa».

Accompagnato dalle esclamazioni di gratitudine del gruppo, il tappo saltò con facilità, e i cocci girarono tra le mani dei viaggiatori, spargendo il morbido profumo nell'aria.

Jake assaporò quell'aroma fruttato con lentezza, lasciando che la dolcezza delle mele scendesse lungo la gola e si insediasse, scaldandolo delicatamente dall'interno.

«Fratello, non avevo mai bevuto nulla di simile» esclamò CJ, seduto accanto a lui, dando voce ai pensieri di tutti gli altri. Gamos rise di quel commento, le guance già rosse a causa del fuoco, della felicità e della delicatezza dell'alcolico.

«Le nostre mele non deludono mai, vero moglie mia?».

La donna sorrise e annuì, mantenendo il contegno che la sua posizione le aveva imposto fino a quel momento; ma alcune ciocche ribelli cominciavano a scivolare dalla severa acconciatura nella quale le aveva strette, e le sue gote iniziavano a imporporarsi, man mano che il bicchiere che reggeva in mano veniva riempito, ora dal marito, ora da uno dei viaggiatori che si stringevano accanto a lei. L'euforia e la lietezza della compagnia erano irresistibili e la spinsero ad abbassare la guardia e a rilassarsi, come non faceva più da molti anni. Vedendola sorridere serenamente come faceva in giovinezza, il marito la guardò con dolcezza, e il suo sguardo non sfuggì agli avventurieri radunati intorno a loro.

L'affetto dell'uomo era sincero e palpabile, e fu reso chiaro dal trasporto con il quale le prese la mano e le parlò:

«Carthana, mia adorata, non pensi sia la sera giusta per uno dei tuoi racconti?».

Lei inizialmente esitò, poi cercò i figli con lo sguardo, come a volersi rammentare il suo ruolo, il compito che aveva accettato tanto fedelmente di svolgere a discapito di ciò che era stata; vide Nor, alla sua destra, estasiato dalla velocità con la quale l'halfling mescolava le carte, spiegandogli al contempo le regole di un gioco. E Annah, la sua dolce figlia, seduta con le ginocchia tirate e il volto sognante rivolto verso il mezz'elfo; sul suo viso di giovane donna riconosceva se stessa, quei sentimenti che tante volte aveva provato, e dai quali era ora su compito, come madre, proteggerla.

Ma quando ritrovò gli occhi del marito, vi lesse la gioia, e una silenziosa richiesta di tornare ad essere giovani e ingenui, almeno per quella sera, e la Carthana ragazza spinse per farsi avanti, offuscando per breve tempo la donna compita che era diventata.

«Ne sarei lieta» rispose al marito prima di aver tempo di ripensarci, e lo vide sorridere, di una gioia sincera e pura.

«Ascoltate miei cari ospiti» esordì Gamos attirando gli sguardi dei compagni e dei figli «Mia moglie ci allieterà con uno dei suoi racconti. A Viandola, prima di diventare la mia signora, era conosciuta come una delle cantastorie più dolci che Irvania abbia mai conosciuto».

Carthana arrossì per quella presentazione e per un attimo sentì la pressione degli sguardi densi di aspettativa che le vennero rivolti. "Non so neanche più come si fa" pensò, prima che la voce di Annah si levasse, leggera:

«Madre, raccontaci del Fiume d'Argento. Rammenti? Era la nostra storia della buona notte».

Il sorriso colmo di tenerezza di Annah e il crepitio dolce del fuoco la riportarono indietro nel tempo, e la voce uscì da sola, avvolgendo dolcemente i suoi spettatori:

«Nessuno di coloro che oggi camminano su Irvania rammenta direttamente quell'epoca lontana; eppure il suo ricordo è rimasto intatto, cresce e si diffonde, passando di racconto in racconto, mutando come la corrente fa quando un nuovo ostacolo si frappone al suo passaggio. Chi ha orecchie e cuore per ascoltare apprende, e attraverso le parole ricorda.»

Carthana parlava accarezzando le fiamme con lo sguardo, e dentro queste vedeva Irvania, come doveva essere stata, come non l'avrebbe mai vista che nella sua fantasia.

Raccolti attorno a lei, i viaggiatori la ascoltavano, rapiti dalla sfumatura che aveva assunto la sua voce, e dall'intensità di quello sguardo perso tra le fiamme.

«Ricorda di un tempo nel quale la pace dei cieli di Irvania era spezzata dal battere incessante di ali robuste, e i raggi del sole venivano oscurati dalle nuvole più vive che il mondo possa ricordare.

Chiunque alzasse gli occhi al cielo allora, poteva scorgere in lontananza le sagome dei padroni dei cieli, che si levavano fieri e minacciosi sulle razze prive di ali che li osservavano dal suolo.

Magnifici nella loro forza, terribili nella loro superiorità, i draghi vivevano considerandosi i signori di Irvania, e nessuno, in cielo o in terra, poteva pretendere di uguagliarli.

Complessi come solo gli dei sanno essere, i draghi erano venerati come tali, e a loro venivano levati i canti e le invocazioni degli abitanti della terra. Troppo distanti per essere raggiunti però, molti dei canti morivano prima di arrivare a loro, e quelli che arrivavano venivano ignorati e sfumavano entrando in contatto con il manto d'aria che avvolge il suolo.

Ma una piccola parte di questi canti riusciva a liberarsi della resistenza delle correnti e penetrava lo strato di nembi per venir accolta e custodita da colui che aveva a cuore il destino dei mortali; Athair, il padre della terra, era il nome con il quale era conosciuto su Irvania, e i suoi figli cantavano a lui quando il dolore li investiva e il cielo si tingeva di oscurità.

Così fecero anche quel giorno, e quelli dopo ancora, quando a poco a poco le acque si ritirarono da Irvania, e nel cielo le uniche nuvole visibili furono le sagome dei fratelli di Athair. I canti disperati dei suoi figli assetati giunsero fino a lui, e dall'alto il padre della terra accolse il loro dolore, facendolo diventare il suo.

A nulla valsero le parole dei fratelli, a nulla servirono i loro rimproveri. Sordo a ogni argomento, Athair scese sulla terra e vide con i suoi occhi ciò che Irvania era diventata: i dolci fiumi, i laghi e le cascate che amava osservare dall'alto del suo nido, erano prosciugati, e nei loro scheletri giacevano disperati i figli della terra. Il mare stesso si era ritirato, allungando le coste a dismisura, assetando e affamando coloro i quali nel suo grembo avevano imparato a trovare rifugio.

Athair sorvolava i cieli distrutto da quella visione, e le sue scaglie argentee riflettevano il sole, spingendo i suoi figli a levare gli occhi al cielo; e la paura diventava sollievo, il dolore si tramutava in speranza, e i canti aumentavano al punto da superare quel guscio di nembi, e toccare gli altri signori del cielo.

Dai loro rifugi, i fratelli di Athair osservavano il vecchio drago volare disperato su quella terra distrutta, ma nessuno di loro scese al suo fianco.

E allora fu chiaro al padre della terra quale fosse il suo ruolo.»

Nor, attratto come una calamita dalle parole della madre, sussultò, rammentando nei suoi ricordi di bambino la fine di quella storia; Annah lo strinse a sé e Carthana spostò delicatamente lo sguardo sui suoi figli, terminando il racconto come se in quella radura vi fossero solo loro:

«Per l'ultima volta volò sopra i cieli di Irvania, raccogliendo quei canti come fossero la sua benedizione. Poi si fermò, lì dove l'acqua si era ritratta per la prima volta, e accompagnato dalle voci dei suoi figli si lasciò cadere, permettendo alla terra di abbracciare il suo corpo e al mondo di assorbire la sua essenza.

Attirati dalla sua discesa, i figli di Irvania corsero verso il luogo dove Athair era precipitato, ma quando vi giunsero del corpo del drago non era rimasto null'altro che le possenti e fiere ali, tese nell'ultimo volo. Dove prima era stato il suo corpo però, ora sorgeva la loro speranza: dalle montagne nelle quali si era trasformato cominciò a zampillare l'acqua che tanto avevano agognato, e questa scorse, rapida e vitale, riempiendo i letti vuoti, lambendo le colture distrutte, ripristinando la vita. Quando giunse infine alle coste, penetrò la terra riarsa e attraverso quella raggiunse il mare distante, e lo convinse a tornare. E l'acqua riprese a bagnare la terra, e i canti e le preghiere si lavarono per l'ultima volta ai piedi della grande montagna.

Le due cime gemelle vennero da allora chiamate Sciatháin an Athar, le ali del padre, e il fiume divenne il Grande Drago Argento, il onore di colui che ha salvato Irvania».

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