Capitolo 14. Il tempo delle decisioni - Parte Seconda

«Ti senti meglio, ora?»

Galatea annuì, stringendo tra le dita sottili il bicchiere ormai vuoto che il ranger le aveva portato poco prima. Approfittando della sua assenza momentanea, l'elfa aveva bevuto e lasciato scorrere tutte le lacrime che premevano ai margini dei suoi occhi, immaginando che queste, scivolando leste sulle guance, trascinassero con sé i brandelli di nebbia confusa che l'avevano attanagliata fino ad allora.

Aveva funzionato solo in parte, ma almeno si sentiva solo stordita, e non più avvinta in quel vortice di pensieri e drammi che difficilmente avrebbe sopportato ancora a lungo.

Molta della tranquillità acquisita la doveva alle spiegazioni di Jake, oltre che al pianto liberatorio, perché il ranger poco prima aveva ribadito e chiarito come i cadaveri sul pavimento della bottega non fossero che il risultato di una loro difesa, strenua e all'ultimo sangue solo perché così era stato deciso dai loro stessi nemici, e non di una volontaria e spietata azione di morte.

Anche l'odore, quella nota rugginosa e stonata che l'aveva colpita sulla soglia della bottega, in quel momento era appena percettibile, e faticava a superare l'uscio socchiuso della piccola stanzina interna dove Lerov l'aveva invitata ad accomodarsi per riprendersi.

Dall'altra parte della parete, l'elfa sentiva i compagni discutere su una possibile visita all'uomo indicato da Silveride, ma lei cercava di estraniarsi da quelle voci, intenta a imporsi di respirare adagio e profondamente per non sprofondare ancora nell'ormai familiare baratro che iniziava a temere con tutta se stessa.

«Ti va di raccontarmi cosa è successo?»

La voce del ranger la sorprese, aveva quasi cancellato la sua presenza, immaginando che l'uomo fosse tornato dai compagni lasciandola nuovamente sola in quel piccolo ambiente spoglio. Invece, alzando lo sguardo lo vide in piedi davanti a lei, le braccia conserte e la schiena posata alla parete. La osservava con curiosità, ma sul suo viso segnato Galatea notò anche un accenno di preoccupazione, che la turbò come già aveva fatto sulla via per Riverwood, dopo l'attacco da parte dei chierici del dio infuocato.

Inspirò ed espirò intensamente un'altra volta, prima di inchinare il capo per distogliere lo sguardo da quello intenso dell'uomo. «Non è facile da spiegare» sussurrò infine, più a sé stessa che a lui. «È come se improvvisamente il mondo si fosse ribaltato, e io non avessi più alcun punto di riferimento.»

Jake rimase in silenzio, e Galatea intuì che le stesse lasciando la possibilità di decidere se continuare a parlare, senza forzarla. Scosse leggermente la testa, sentendo alcune ciocche scivolare dalla treccia ormai allentata. Poi si fece forza, alzando il volto per trovare quello del compagno, ancora in attesa. «Non credo di farcela ad andare avanti, Jake. Non so più chi sono, né cosa voglio... Silveride ha detto tante di quelle cose, ha messo in discussione così tante delle mie convinzioni, che ora non so più a cosa credere. So solo che ho paura, e questo mi distrugge...» ammise, dando voce al pensiero che da ore rimbombava nella sua mente in echi confusi e tormenti così oscuri da toglierle il respiro.

«La paura è un sentimento normale, Galatea. Tutti ne abbiamo. Ed è un bene, ci aiuta a sopravvivere...»

«Sì, ma non così. Non questo tipo di paura.» Lo fissò ancora, cercando segni di giudizio e impazienza in quel volto ormai familiare. Non ne trovò.

«Questa ti paralizza, ti impedisce di pensare o agire» concluse, in un gemito, distogliendo lo sguardo per l'ennesima volta.

«Come ti è successo sulla strada maestra?»

Galatea si irrigidì. Non credeva che qualcuno avesse avuto modo di notarla, non durante uno scontro rapido e concitato come quello. Non rispose, ma scosse ancora il capo, immaginando con tristezza che Jake e gli altri l'avessero vista in quello stato, ferma e indifesa in mezzo alla polvere e al fragore delle loro armi e dei loro incantesimi.

Inutile, come si sentiva in quel momento. Priva di scopo, di certezze, di futuro.

E adesso, dopo il colloquio con Silveride, anche priva di radici.

«Non ti turbare così tanto. Io l'ho notato, ma non è detto che lo abbiano fatto anche gli altri. Erano piuttosto presi» la consolò poco dopo il ranger, ma lei fece fatica ad accettare quelle parole, così come a riportare lo sguardo su di lui. «E in ogni caso, non mi hai permesso di finire» continuò lui, muovendo qualche passo per raggiungerla.

Si inginocchiò davanti a lei, per spingerla a voltarsi e incrociare ancora il suo sguardo. «La paura è una nemica dura da vincere, ma si può battere» le sussurrò, osando sfiorarle una guancia. «Ma raramente viaggia da sola, e ancora più raramente è il vero ostacolo. Dici di non sapere chi sei, né cosa desideri realmente. Forse è questo a spaventarti maggiormente, non pensi?»

Galatea tremò leggermente, e un ormai familiare pizzicore preannunciò la comparsa di due piccole sfere, che la giovane sentì rotolare lungo le gote e vide scontrarsi con la pelle ruvida della mano del ranger, ancora accostata al suo viso. «Io... Forse» mormorò poi, abbassando le spalle. «Forse non sono fatta per tutto questo. Le profezie, gli attacchi, i misteri. Forse non sono in grado di reggere qualcosa di così grande.»

«Non dire così. Hai dimostrato una forza notevole in queste settimane, molti di noi l'hanno riconosciuta. E apprezzata, nonostante il pessimo carattere con cui l'hai condita.»

Le sfuggì un sorriso, che l'uomo prontamente ricambiò, prima di riprendere. «Sei in grado di affrontare questa sfida, come molte altre che si sono presentate in precedenza. Hai avuto il coraggio di lasciare la tua casa, di viaggiare da sola in un mondo sconosciuto e spesso minaccioso...»

«Non era coraggio» mormorò lei di rimando, allontanando il viso dalla mano dell'uomo per abbassarlo e impedirgli di notare lo sforzo che stava compiendo per trattenere nuove lacrime. «Era superbia. E solo ora mi accorgo di quanto fosse immotivata. Credevo di essere superiore, mi nascondevo dietro l'orgoglio del mio sangue e della mia razza. Ma nulla ci distingue dagli altri, siamo umani quanto voi. Sanguiniamo allo stesso modo, proviamo la stessa rabbia, lo stesso odio. La stessa paura.»

Jake sorrise ancora, scuotendo appena il capo per enfatizzare le parole successive. «Tu la chiami superbia, io penso fosse tenacia. Ma non è questo il punto. La domanda che dovresti farti non è se sei in grado di combattere al nostro fianco. Ma piuttosto, se è questo ciò che desideri davvero.»

L'elfa alzò di scatto la testa e sgranò gli occhi. «In che senso? Come potrei non volere la salvezza del mondo? Mi pensi così egoista da...»

«Non sto dicendo che tu sia egoista, non vedere tutto bianco o nero. Quello che stiamo facendo, la nostra ricerca, ciò che ormai è diventato un obbiettivo comune... Chi dice che sia l'unico modo di aiutare il mondo? Chi dice che sia la cosa giusta, la rotta corretta? Non ti sei mai chiesta se le nostre azioni fossero sensate, se la meta valesse il prezzo del sangue che ci ha guidato fin qui?»

«Prima di oggi... Non penso. Ma dopo stamattina, dopo ciò che Silveride ha detto sugli elfi e sui Liberanti, io non so più cosa sia giusto o sbagliato...»

«Io invece me lo sono chiesto, molte volte» la interruppe lui, per non perdere ancora il filo di quel discorso contorto eppure così essenziale da farlo fremere di impazienza. «E l'unica risposta che sono riuscito a trovare, è che fosse giusto per me. E questo basta per farmi andare avanti.»

«Non capisco cosa intendi...»

«Pensa alle persone che viaggiano con noi. Ben, Spock, Daniel, CJ, Jord... Li conosciamo da poco, eppure già intuiamo come ragionino, cosa cerchino. E pensi che a guidarli siano gli stessi ideali, le stesse convinzioni? Che vogliano tutti la stessa cosa e conoscano solo questo modo per raggiungerla?»

Galatea non rispose subito, ma cercò di afferrare il significato di ciò che Jake cercava di trasmetterle, immaginando i fili sottili che muovevano i desideri di ciascuno di loro. «No» ammise poco dopo, con sicurezza. «Non penso che siano mossi tutti dagli stessi ideali. Anzi, penso che per alcuni versi siano quasi contrastanti.»

«Esatto. Ma tutti loro hanno trovato un senso in questa battaglia, uno scopo e un modo di realizzare i loro obbiettivi. Questo però non significa che sia l'unico esistente per farlo. Né che sia il più giusto.» Il ranger si mosse appena sui talloni, accompagnando le parole con gesti enfatizzati delle mani, per permetterle di comprendere meglio ciò che desiderava trasmettere. «Pensaci. Sappiamo talmente poco di questa profezia, che potrebbe essere addirittura finta. È solo perché ciascuno di noi sente di avere un posto qui, in questa missione, che andiamo avanti. E mettiamo da parte i timori personali, e le domande, per farlo.»

«Mentre io continuo a pormi dei dubbi, a provare paura. E a sentirmi fuori posto» mormorò lei, che iniziava a comprendere dove il ranger volesse andare a parare. «Perché non so cosa cerco. Né come lo voglio ottenere.»

«Esatto. Per questo devi chiederti: tu, cosa desideri? Cosa muove i tuoi passi, cosa ti spinge ad alzarti ogni mattina e a metterti in viaggio? Solo quando saprai rispondere a queste domande, sarai in grado di sconfiggere la paura che ti attanaglia e capire quale posto ti appartiene.»

Lei ammutolì, più a lungo di quanto avesse fatto fin a quel momento, tanto che Jake pensò di averla ferita, con quelle parole. Poi la vide sospirare, un respiro lento e misurato, cosciente e timoroso al contempo. «Potrebbe volerci del tempo» mormorò infine l'elfa, con voce flebile. «E questo, potrebbe voler dire separarci.»

Jake le si avvicinò ancora e, questa volta la circondò con un braccio, in una stretta che sapeva di calore, e famiglia. «Se anche la tua ricerca dovesse portarti lontano, le nostre strade potranno sempre incrociarsi ancora. Farai sempre parte del gruppo, qualunque cosa sceglierai. Questo non dimenticarlo mai.»

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