Capitolo 14. Il tempo delle decisioni - Parte Prima

Il colloquio con l'anziano chierico si era protratto a lungo, tanto che avevano intravisto il sole compiere la seconda metà del suo arco e cominciare la discesa verso le fronde e le case oltre il fiume. Galatea e Spock vi avevano però badato poco, concentrati sulle parole del vecchio Silveride nella speranza di dare un senso a ciò che avevano visto nelle settimane appena trascorse.

L'elfo aveva proseguito il suo racconto per l'intero pomeriggio, interrompendosi solo per invitarli a condividere con lui un pasto frugale ma saporito, e aveva a poco a poco arricchito di dettagli ignoti e sfumature impensate un evento che, almeno per Spock, era sempre stato sufficientemente antico da considerarsi ormai dimenticato. Duemila anni dalla Grande Guerra al suo presente gli erano sempre parsi sufficienti a ignorarne molti dei risvolti, specie da quando aveva messo da parte gli insegnamenti ricevuti nella casa del padre e aveva scelto la vita da eremita nei pressi di Collediquercia. Eppure, il filo conduttore che emergeva dalle parole dell'anziano, tra il misterioso dio del fuoco e i Liberanti, era saldo e sufficientemente spesso da far pensare che il chierico incontrato lungo il cammino e la profezia nella fortezza si inserissero in un quadro più ampio, che affondava le sue radici proprio in quegli eventi obnubilati dal tempo.

In che modo questi due elementi fossero collegati a quella guerra folle di liberazione però, rimaneva un mistero anche per Silveride stesso. Alla fine del suo racconto, Spock si era sentito abbastanza sicuro da rivelare al vecchio le loro scoperte, condividendo con lui le parole della profezia e il luogo ove essa aveva riposato per oltre duemila anni. L'altro era parso sorpreso da quel ritrovamento, e aveva ammesso con candore di non conoscerne l'origine o il significato, dei quali non si faceva menzione in alcun racconto o ricordo che la sua memoria preservasse dell'epoca.

Ma, quando già la delusione iniziava a strisciare nella mente dei due avventurieri, Silveride aveva aggiunto di conoscere un uomo interessato al culto del dio del fuoco quanto e più di lui. Una persona fidata, che avrebbe saputo dar loro, se non delle risposte definitive, almeno una direzione verso la quale voltarsi per cercarle.

Così, dopo aver appreso dove trovare quest'uomo, avevano ringraziato l'anziano elfo e lo avevano salutato con calore, promettendogli che, se il destino lo avesse permesso, sarebbero tornati al tempio di Ehlonna per metterlo a parte delle loro scoperte.

Lasciando la casa immersa nella natura e la zona dei templi, Galatea era rimasta silenziosa, come avvolta da un velo di pensieri e preoccupazioni capace di estraniarla dalla realtà della loro camminata verso la locanda. E Spock non l'aveva distolta, approfittando di quel momento di silenzio per riordinare i pensieri e preparare un racconto coerente per i compagni, che immaginava già in attesa di nuove alla taverna.

Purtroppo non li avevano trovati né nella sala grande, né nelle loro stanze, ma a riceverli avevano scorto una nota, lasciata sul letto rifatto di fresco nella camera del druido:

"Raggiungeteci alla bottega del vecchio Lerov, nella zona commerciale nord della città.
E venite armati, si prospetta aria di tempesta - Jake"

Ora dunque, i due camminavano nuovamente per le strade di Riverwood, mantenendo lo stesso rigoroso silenzioso ma condividendo un velo di timore per le parole vergate frettolosamente dalla mano del ranger.

Il flusso di pensieri che attanagliava l'elfa dall'isola dei templi però era ben più denso della mera preoccupazione per la sorte dei compagni, solido e difficile da districare sebbene la giovane fosse perfettamente capace di comprenderne l'origine: il racconto di Silveride sulle azioni dei suoi antenati l'aveva turbata, tanto da calarla in un pozzo di confusione senza punti saldi per iniziare una risalita. Dentro quella piccola casa in legno di noce, molte delle sue certezze si erano infrante, a cominciare dalla presunzione di appartenere alla razza saggia ed eletta di Irvania, superiore alle mere lotte di potere e soprattutto, incapace di arrecare ingiustamente del male alle altre razze sorelle.

Che solo una piccola fetta del popolo elfico si fosse opposto allo sterminio dei Liberanti, scegliendo l'esilio a Foraoise na Betha pur di non prendervi parte, le pareva sconcertante e doloroso in egual misura, sebbene non avesse pensato che un istante alla possibilità che l'elfo mentisse.

Più del fatto che gli elfi avessero messo mano alle armi contro gli umani - cosa che supponeva fosse già successa in un passato ancor più remoto della Grande Guerra - a deluderla nel profondo era l'idea che si fossero abbassati a dare la caccia ai sopravvissuti dei ranghi sconfitti dei Liberanti, come dei biechi cacciatori di taglie. Loro, che fin dalla creazione si erano considerati la razza perfetta, simulacro di saggezza e portatori di grazia ed eleganza; loro, che disprezzavano i più giovani cugini umani proprio perché permettevano alle emozioni e soprattutto alla rabbia di guidare le proprie azioni, in guerra come in apparente pace.

Era questo, ciò che Galatea faticava ad accettare più di ogni altra cosa. Che le affilate lame del popolo alto si fossero fatte largo per Irvania in una caccia sanguinosa e brutale, istigate dallo stesso odio che disprezzavano nei Liberanti.

L'elfa era cresciuta barricata dietro la certezza della superiorità del proprio sangue, capace da solo di elevarla sopra le razze che la circondavano. Ma tale superiorità, per la sua educazione, era sempre stata supportata da un atteggiamento fiero, estraneo alla perfidia e alla ferocia, capace di apprezzare la bellezza naturale e votato a difenderla e preservarla. E lo sterminio di intere famiglie, spesso anche innocenti, era tutto fuorché simbolo di superiorità. La guerra stessa iniziava a sembrarle tale, così come lo spargimento di sangue e il prevalere grazie alle armi e non al raziocinio.

Di questo cominciava a convincersi, mentre camminava accanto al druido in direzione di un edificio in pietra rossa, con le tende tirate sull'unica vetrina visibile e sui battenti della sola porta presente. E stava rivalutando rapidamente la giustezza delle azioni passate della compagnia della quale faceva parte, quando Spock giunse sull'uscio e vi batté due colpi, annunciando il loro arrivo.

Dopo qualche secondo, che Galatea passò a rivivere l'incontro con il chierico lungo la via per Riverwood, la porta si aprì dinnanzi a loro, mettendo prima in luce i volti prostrati di Ben e Jake, e poi uno spicchio di pavimento, chiazzato di macchie scure e scarlatte.

L'elfa ebbe appena il tempo di udire un: «Alla buon'ora, siete arrivati giusto alla fine» borbottato e ridacchiato dal guerriero, prima di muovere un passo all'interno e posare lo sguardo su una piccola catasta coperta con della stoffa, macchiata anch'essa della stessa sfumatura vermiglia dell'assito interno. Prima che il fiato le si spezzasse, e la mente prendesse a lavorare freneticamente per cercare una spiegazione diversa da quella che si faceva ferocemente largo tra i suoi pensieri, gli occhi le caddero su una mano pallida, riversa sul legno sbeccato del pavimento su cui già posava i piedi.

***

«Siete sicuri che non ce ne fossero altri?» stava chiedendo in quel momento Spock, e tutto quello che Galatea riusciva a sentire era un'eco sfocata della voce sbrigativa del druido.

La giovane sostava, da qualche minuto, come paralizzata, ferma al centro della stanza nella quale si erano riuniti e con lo sguardo puntato fermamente verso le chiazze di sangue sul pavimento, tenuto al contempo volontariamente lontano dai compagni che discutevano accanto a lei.

Jake aveva appena terminato di raccontare dell'aggressione, con tono solo appena alterato dalla violenza subita e inflitta, e con la solita praticità che lo aveva caratterizzato fino a quel momento. Eppure, l'elfa faticava ancora ad accettare quelle parole, così come a reggersi in piedi, sopraffatta dalla brutalità che emergeva da quel resoconto, e che non faceva che amplificare la già terrificante presenza di quella pila di corpi mal coperti ancora posati a un angolo della stanza.

Disgusto, confusione, terrore, incomprensione...

Questi i sentimenti che attanagliavano il suo spirito e la rendevano incapace di dare un senso alle parole del ranger, al sangue sugli abiti dei compagni, al volto pallido e teso del vecchio bottegaio che aveva intravisto poco prima.

Su tutti, spiccava una sensazione di estraneità, che la portava a sentirsi presente nella stanza solo in parte, mentre brandelli di lei vagavano persi in una densa nebbia intangibile, umida e fredda a sufficienza da morderle la pelle, ma fitta altrettanto da impedirle di distinguere più dei contorni di ciò che aveva intorno.

Le parole di Silveride facevano da eco ai suoi pensieri, rimbombavano come tuoni oltre il suo campo visivo, senza però che riuscissero a far presa a sufficienza da diradare il mare d'ansia nel quale stava sprofondando.

"Nessuna azione viene compiuta senza una ragione..."

"....La loro non è stata che una reazione...",

... È facile giudicare a posteriori...

...Non scordarti che dietro ogni spada c'è stata un'anima, che ha dovuto scegliere di spezzare la vita di qualcuno che salvare quella di qualcun altro...

... rifletti, comprendi e impara."

Quelle parole rotolavano ai margini della sua coscienza senza avere la forza di scalfirla, schiacciate dalla realtà dei corpi insanguinati davanti a lei, e dei bagliori di ferocia che aveva intravisto negli occhi dei compagni.

La realtà delle parole di Jake, la necessità della quale erano impregnate, non erano sufficienti a sollevarla, non bastavano a lenire il dolore che iniziava a invaderla a ondate; e mentre lo scambio davanti a lei procedeva, tutto quello che riusciva a fare era circondarsi il petto con le braccia, per trattenere il tremori che già muovevano dal centro del suo cuore al resto del corpo.

"Che diritto abbiamo di decidere chi vive e chi muore? Chi dice che siamo nel giusto? Come possiamo esser certi che la nostra ricerca valga il prezzo di altre vite?"

Il discorso con il chierico, il racconto della Guerra dei Liberanti e del loro sterminio, aveva iniziato a scavare e farsi strada dentro di lei, aprendosi dei varchi nella sua coscienza che lei stessa mai avrebbe pensato di poter provare.

Il suo disprezzo, la sua suddetta superiorità, il suo disdegno per la vita altrui, iniziavano a dissolversi come neve al sole, lasciando spazio a un terreno arido e privo di certezze, ancora incapace di dare dimora a nuova vita.

Preda di quel dolore sordo e tenace, Galatea faticò a mettere a fuoco il volto del ranger, che ora la fissava con preoccupazione e si avvicinava a lei circospetto, con lo stesso atteggiamento che aveva adottato nelle settimane precedenti, quando l'aveva aiutata a lasciarsi dietro il panico e la sofferenza.

«Galatea, stai bene?» mormorò Jake, e l'elfa ebbe la sensazione che quella non fosse la prima volta che il ranger pronunciava quelle parole, che cominciavano pian piano a farsi largo fino a lei.

«Io... Io...» balbettò la giovane elfa, incapace di esprimere a parole l'oceano di dolore nel quale stava annegando. «Temo di aver bisogno di un momento» riuscì infine a sussurrare, permettendo alle prime lacrime di rispondere al richiamo della gravità.

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