Capitolo 7- L'Erede e l'Esule
Godwyn si destò di soprassalto, grondante di sudore e dolorante, con un incubo morente che serpeggiava tra i suoi ricordi. Si tirò a sedere con lentezza, boccheggiando, e si portò una mano alla fronte nel tentativo di impedire che il suo cervello continuasse a vorticare come un diavolo di neve.
Era buio pesto e aveva la strana sensazione che qualcosa fosse fuori posto. Allungò la mano sul comodino di fianco al suo letto, cercando la candela che si curava di lasciarvi ogni sera. La afferrò sollevandola dal portacero di metallo e strusciò il pollice sulla pietra grafemica, che aveva al collo, per generare una scintilla di fuoco con cui accenderla.
Quasi incendiò il materasso quando, alla fioca luce del lume, si accorse che sotto la camicia fresca di bucato le sue braccia erano fasciate. Si catapultò fuori dalle lenzuola, sbattendo la schiena contro un armadio di legno. Girò su stesso, rischiarando prima una scrivania disordinata e poi una libreria che straripava di statuette eroiche e mitiche.
Corse alla finestra e scostò le tende, portando lo sguardo al cortile interno del castello. Il fiato gli abbandonò i polmoni quando gli occhi passarono sul terreno bruciato, sulle rastrelliere ribaltate e sul muro di ghiaccio evocato da Fraxinus che tratteneva tuttora le spade, a malapena visibili al chiaro di luna.
Indietreggiò di qualche passo; ebbe l'istinto di deglutire, ma la bocca era praticamente asciutta e la gola si contrasse invano.
«Ah, sei finalmente sveglio! Hai dormito per l'intero pomeriggio!» esclamò Fraxinus, che aveva aperto la porta alle sue spalle.
Godwyn sussultò e la candela che stringeva nella mano sinistra levitò verso il soffitto tondeggiante della torre, incastrandosi nei bracci del candelabro.
«E ancora pieno di energie...» constatò, schioccando le dita; ogni stoppino presente nella stanza prese fuoco, illuminandola completamente. «Questi li hanno lasciati gli altri apprendisti» disse, indicando biscotti, succhi di frutta, pezzi di torta e un paio di libri. «Sono venuti tutti a visitarti mentre dormivi.» Si accomodò sulla sedia di legno accanto al letto, dando un paio di colpetti al materasso affinché Godwyn si sedesse di fronte a lui. «Hai male da qualche parte?»
«No, ma... Maestro, io... io ho cercato di ammazzare Rufus?» chiese, prendendo posto tra le lenzuola stropicciate.
Fraxinus inspirò a denti stretti. «Beh... sì.»
L'apprendista si infilò le mani nei capelli. «Quindi è successo, non era un incubo» sussurrò, con la gola che si stringeva. D'un tratto spalancò gli occhi. «Non volevo usare i miei poteri in quel modo! Non volevo, lo giuro! Dovete credermi, ho provato a controllarli-»
«Ehi, ehi, lo so» lo interruppe Fraxinus, stringendogli la spalla con delicatezza, conscio delle sue ferite. «Non è colpa tua, niente di quello che è accaduto è colpa tua. Nessuno avrebbe potuto prevedere che la tua attitudine sarebbe esplosa in quel modo.»
«Ma perché è esplosa?»
«Hmm... ci arriveremo. Prima ti pongo una domanda: quanto conosci bene la magia?»
Godwyn si strinse nelle spalle, le guance chiare d'imbarazzo. «Non ne so praticamente nulla, avevo sette anni quando mio padre è morto e Maestro Tybalt aveva rimandato il discorso a quando la mia attitudine sarebbe apparsa e... beh, non ne ha avuto l'occasione.»
«Il fantasma di Ty potrebbe tornare a tormentarmi per ciò che sto per dire, ma te la sei scampata. Gli volevo un bene dell'anima, però era un tale chiacchierone! Ti sarebbe spuntata la barba nel tempo che avrebbe impiegato a spiegarti il necessario. Io sarò molto più coinciso.» Fraxinus si grattò il collo mentre Godwyn abbozzava un sorriso. «Da dove cominciare?»
«Dal principio, per favore, e non siate avaro di dettagli.»
«Allora, prima di tutto, devi sapere com'è nata. Il giorno in cui il nostro mondo ebbe inizio, l'energia primordiale che lo permeava, e che scorreva come sangue nel suolo di Phoel, si incarnò in quattro esseri: il Drago, il Leviatano, il Grifone e la Fenice. Gli Umani li battezzarono con il nome di Quattro Bestie, o Bestie Demoniache di recente, ma il nostro popolo li chiamava-»
«Dèi... Dèi Andati?» Godwyn si grattò la guancia. «Quando mio padre mi raccontò questa storia, non parlavo ancora la lingua umana e.... non sono sicuro che la traduzione sia corretta.»
«Lo è» lo rassicurò. «Gli Dèi Andati realizzarono presto che erano gli unici esseri a popolare la terra, così ognuno di loro, per conto proprio, provò a riversare l'energia che li aveva generati, e che ancora dimorava nelle viscere di Phoel, nelle nuvole e nella pietra, nella spuma di mare e nella cenere, ma non accadde nulla. Capirono allora di non essere quattro creature distinte e separate, bensì quattro metà di un unico insieme.» Fraxinus unì le dita per sottolineare il concetto. «Così il Grifone plasmò l'argilla in migliaia di statue diverse, creando il corpo, il Leviatano le irrorò dell'essenza dell'oceano, generando lo spirito, il Drago ruggì in loro la consapevolezza, destando la volontà, e infine la Fenice soffiò la scintilla incandescente della vita dentro di loro. Nel processo, però, furono costretti ad assorbire e consumare fino all'ultima goccia di energia che attraversava le vene di Phoel, e il cuore del continente smise di battere nel momento in cui i cuori dei loro figli pulsarono per la prima volta.»
«Non dovevate parlarmi della mia magia?»
Fraxinus ridacchiò. «Ci sto arrivando, Godwyn.» Si schiarì la voce, riprendendo la storia. «Dalle statue in cui i quattro elementi erano perfettamente bilanciati nacquero gli Umani. Alcune creature, tuttavia, presentarono più volontà, altre più spirito, più corpo o più vita. Si separano dunque dall'unico popolo e crearono quattro tribù: Uruls, Leisha, Dural e Ishkra. Così il Drago, il Leviatano, il Grifone e la Fenice seguirono i figli che somigliavano loro di più e capitarono nel nel Sud, nell'Est, nell'Ovest e nel Nord di Phoel. Gli Dèi Andati si accorsero poi che l'energia del loro comune genitore non era scomparsa, ma si era riversata nei loro figli nel momento in cui avevano dato loro i propri doni. Negli Ishkra la magia è alimentata dalla vita, e si presenta selvaggia e indomabile, per questo gli elfi hanno caratteristiche animalesche, comunicano e addirittura si trasformano in animali e controllano il fuoco. Nei Dural la magia, che attinge dal corpo, è solida eppure malleabile, per questo i nani hanno la pelle spessa e dura, resistono alle intemperie, sfruttano il magnetismo e modellano la terra. Nei Leisha la magia proviene dallo spirito, centro dei sensi e delle emozioni, e può essere sia stabile come un albero che burrascosa quanto l'oceano, per questo le fate simili alle piante, controllano le foreste, percepiscono gli stati d'animo e comandano le acque.»
«E in noi Uruls?»
«In noi Uruls regna la volontà, quindi la nostra magia dipende dal nostro volere più intimo e profondo... che è il motivo per cui il tuo dono si è improvvisamente scatenato nel momento in cui hai voluto far del male a Rufus.»
«Oh... ma perché proprio in quel momento? Sono state centinaia le volte in cui ho cercato di aizzarlo e non ha funzionato.»
«Perché a dispetto di quanto desiderassi attivarlo, la tua più grande volontà restava quella di essere Umano e il tuo dono, di conseguenza, rimaneva rintanato.»
«Ma non riesco ancora a essere orgoglioso di avere sangue Uruls.»
«No, però per una frazione di secondo, per il brevissimo istante in cui hai abbracciato il risentimento nei confronti di Rufus e hai lasciato che scorresse, la tua volontà si è trasformata: il suo obiettivo non è più stato proteggerti e nascondersi bensì, mossa dal richiamo della tua rabbia e dalla tua voglia di rivalsa, quello di attaccare.»
«Ho capito, ma... volevo solo dargli un pugno, non ammazzarlo.»
Fraxinus sospirò. «La tua volontà non conosce la differenza. Ha percepito le tue intenzioni violente e ha agito di conseguenza, sfogandosi e utilizzando il fiume di emozioni che hai sbrigliato come carburante; e una volta bruciata la rabbia si è cibata della paura e del dolore.»
«Per questo la mia magia aumentava sempre di più? Perché più esplodeva e più io avevo paura e soffrivo?»
«Esatto» gli confermò Fraxinus, sorpreso da quell'arguta supposizione. «Essendo la prima volta che la esternavi, tuttavia, il tuo corpo non era pronto ad essere attraversato da un'energia così famelica e potente e ha ceduto; con il tempo si abituerà e verrà persino potenziato da essa.»
Godwyn restò in silenzio per qualche secondo, pensando intensamente. «La volontà mi sembra fin troppo pericolosa e volubile.»
Fraxinus inclinò la testa da un lato e dall'altro. «Sì, per un giovane Uruls che non ha compreso come indirizzarla può risultare più dannosa che altro ma, una volta domata, ci permette di fare cose incredibili.»
«Del genere?»
Fraxinus stese le gambe accavallate sul letto e incrociò le braccia dietro la testa. «Vuoi sparare fulmini dalle mani? Nulla in contrario. Vuoi trasmutare un pezzo di ferro in un'armatura in un paio di secondi? Accomodati. Vuoi attraversare il continente con un passo? Che il Drago ti accompagni.»
Godwyn espirò incredulo. «E che altro?»
«Praticamente tutto.» Si fermò a riflettere per un momento e si corresse. «Beh, non tutto tutto. Ciascun Uruls ha soltanto una e una sola attitudine, la morte è oltre la nostra portata, creare la vita è una questione da Dèi e il tempo continua ad avanzare senza curarsi del nostro parere.» Si passò una mano tra i capelli biondi, cercando di illustrare altri lati positivi della magia per risollevare il morale di Godwyn. «I rami! Non ti ho parlato dei rami. Ecco, i primi Uruls divisero le proprie attitudini nelle parti che costituiscono un albero. Il tronco è la magia nella sua forma di base, un'energia che ogni singolo Uruls è in grado di esternare. I rami, invece, sono doti che la maggior parte della popolazione possiede. Sai che la trasmutazione, la mia attitudine, mi permette di plasmare la materia a mio piacimento, ma non di crearla da zero perché è impossibile. E mi hai detto che tua madre era un'alchimista.»
«Sì» asserì Godwyn. «Mio padre mi ha raccontato che conosceva fino all'ultimo vegetale e minerale e poteva fonderli per creare intrugli e pozioni in un battito di ciglia; le bastava una provetta in cui agitarli. Solo che era imbranata e molte esplodevano o non avevano l'effetto desiderato.»
Fraxinus sorrise all'idea, così come Godwyn stesso.
«Quali altre attitudini ha il nostro popolo?» chiese.
«La magia mentale! Il mio amico Archibald percepisce l'essenza lasciata dalle persone sugli oggetti, ed è in grado di seguirla come un segugio; sua sorella Coralie sbircia nei cervelli e nei ricordi altrui grazie a un semplice tocco. Loro padre era capace addirittura di imporre la propria volontà sul prossimo e manovrarlo come un burattino per un breve lasso di tempo.»
«Inquietante...» commentò Godwyn.
«Eh già, ma mai quanto la Negromanzia. Chi la possiede può percepire l'arrivo della morte, controllare i cadaveri e acquisirne la memoria e le emozioni.»
Godwyn rabbrividì, pensando improvvisamente che, a dispetto della catastrofe di quella mattina, non gli fosse andata così male.
«Continuando... ah, sì! Magia spaziale, ovvero l'abilità di creare portali come fa Mer e, infine, la creazione.»
«Non l'ho mai sentita.»
«Si tratta di un'attitudine piuttosto rara, è del tutto comprensibile. I creatori, per esempio mio padre, imprimono la loro volontà negli oggetti e creano in loro, per l'appunto, uno scopo che li anima.»
«Forte.»
«E non abbiamo ancora parlato della chioma dell'albero! Lì c'è un unico potere: la manipolazione dell'etere, il tuo dono, concesso a pochi fortunati del nostro popolo e trasmesso unicamente per via ereditaria.»
«È per caso la magia che millenni fa gli Artefici usarono-»
«Per costruire Urasha, la Capitale sospesa della Repubblica Uruls, sì.» Lo stregone annuì con un sorriso nostalgico, prese delle bende pulite dalla scrivania e tornò a sedersi davanti a Godwyn. «E nei secoli i detentori di questo potere hanno governato la città in qualità di Senatori... almeno fino alla sua caduta durante la Conquista.»
Godwyn incrociò le gambe e si levò la camicia di lana. «Mio padre era appena un bambino quando i Senatori, tra cui mio nonno, furono sterminati e Urasha precipitò dal cielo. Era solito dire che il rumore delle isole che impattano nel cratere del Picco Celeste risuona tutt'oggi nelle ossa di chi vi assistette.» Porse un braccio allo stregone e inspirò bruscamente quando lui cominciò a cambiargli la fasciatura.
«Tuo nonno era un Senatore?»
«Sì, si chiamava Goduy Exas. Suppongo di aver ricevuto la manipolazione dell'etere da lui.»
Fraxinus, concentrato sulle garze, si bloccò per qualche secondo con una strana espressione e Godwyn ne approfittò per togliersi un dubbio.
«Però perché mio padre era solo in grado di dominare i fulmini?»
Fraxinus strabuzzò le palpebre e ci impiegò un po' a rispondere. «Forse perché la manipolazione dell'etere si manifesta in maniera più o meno forte negli Uruls? Purtroppo, so poco più di te in proposito.»
«Quindi... questo dono mi permette di sollevare gli oggetti da terra?»
«E mica solo quello! La tempesta che si è abbattuta sulla foresta è opera tua.»
«Davvero?»
«Già. E potresti essere capace anche di volare e chissà che altro.» Fraxinus sospirò contento. «Per più di cento anni gli Uruls hanno pensato che il potere del Drago fosse scomparso da questa terra, annientato dalla sete di vendetta di Re Ludwen. Invece eccoti qui, la prova vivente che il retaggio del nostro popolo è sopravvissuto alla Conquista, a dispetto di quanto fatto per cancellarlo. Il Drago deve averti benedetto.»
Godwyn realizzò di essere incredibilmente fortunato: non solo la sua attitudine si era manifestata, ma si era rivelata essere una dote leggendaria creduta perduta, degna del protagonista di uno dei romanzi d'avventura che tanto amava. Avrebbe dovuto fare i salti di gioia, eppure, non riusciva a condividere l'entusiasmo di Fraxinus; si osservava le ferite aperte e i segni pallidi, simili a tessuto cicatriziale, che gli attraversavano le braccia lì dove le vene si erano gonfiate di energia, e non si sentiva affatto fortunato, piuttosto maledetto.
«A me non sembra proprio una benedizione» ammise ad alta voce.
Si accorse di aver parlato quando Fraxinus si fermò per fissarlo negli occhi. «Non dirlo mai. La magia è la nostra cultura, la colonna portante del nostro popolo.»
Godwyn si strinse nelle spalle. «Io sono grato che la mia attitudine sia finalmente arrivata, solo...»
«Solo non ti aspettavi che si rivoltasse contro di te e la tua famiglia.» Fraxinus annuì comprensivo, indicandogli di porgere l'altro braccio. «Nessuno si aspettava che reagisse in questa maniera alla tua rabbia o che fosse un'attitudine tanto importante.»
Trascorse qualche momento di silenzio mentre Godwyn raccoglieva il coraggio di porgergli una domanda.
«È possibile...» Il viso gli si contrasse in una smorfia di dolore per un istante mentre lo stregone stringeva le bende in un piccolo nodo poco sotto la spalla. «È possibile che perda di nuovo il controllo in quella maniera?»
«Purtroppo sì, ma mi assicurerò che non accada.» Si alzò e gettò le fasciature sporche nel braciere a fianco alla scrivania.
«E come?» chiese, rivestendosi.
«Tanto per cominciare, ci incontreremo qui tutte le sere per farti entrare in confidenza con la tua volontà e la manipolazione dell'etere, che sono due facce della stessa medaglia.»
«Cosicché sia in grado di frenarmi?»
«Esatto, e poi ho ideato queste.» Si voltò verso il ragazzino con un paio di catene tra le mani.
«Ehm...» Godwyn le fissò preoccupato.
«Non ho mica finito di forgiarle!» Afferrò gli anelli che collegavano le parti da agganciare attorno ai polsi, strappandoli via e riplasmandoli in una pallina di ferro con la trasmutazione. Lanciò sul letto i due polsini metallici, ricoperti di glifi in lingua Uru. «Sono un po' scomodi, lo ammetto.»
«"Scomodi" è un eufemismo.» Li sollevò con fatica. «Dei normali bracciali non andavano bene?»
Fraxinus si issò a sedere sulla scrivania, passandosi la sfera da una mano all'altra. «Non erano abbastanza grandi e solidi per ospitare glifi sufficienti a gestire il tuo potere.»
«E per quanto mi toccherà portarli?»
«Finché sarà necessario.»
Godwyn si portò il pollice alla bocca e si staccò una pellicina. «Ma agli Uruls non ci vogliono anni per domare il proprio potere?»
«Per padroneggiarlo con maestria, sì. Però a te basta imparare a non esserne travolto.»
Ripensò al dolore lancinante, alla sensazione glaciale e incandescente e alle braccia che si squarciavano pur di liberare la magia. «Non sono sicuro che ne sarò mai capace, considerando la scorsa volta.»
«È questione di pratica e di abitudine» lo rassicurò, annuendo con sicurezza. «Te l'ho detto: un giorno maneggerai quantità di magia persino maggiori di quella con naturalezza, senza che il tuo corpo si distrugga.»
«Lo spero proprio. Credevo di morire» confessò, infilandosi i polsini e chiudendo la loro serratura.
La porta della stanza si spalancò. «Fraxinus, Idunn sta per servire la-» Kalika si immobilizzò, adocchiando Godwyn sul letto. «... cena.»
«Ciao.» Sollevò la mano per salutarla, arrischiando un sorriso.
Lei assottigliò gli occhi. «Mi hai quasi uccisa oggi.»
Godwyn seppellì il collo nelle spalle. «Mi dispiace.»
«"Ti dispiace"? "Ti dispiace"?» ripeté, avvicinandosi al letto con un'espressione minacciosa. «Dovresti essere fiero! Sai in quanti ci hanno provato?»
«No...?»
«Beh, parecchi e nessuno ci è mai andato vicino quanto te.»
«E chi sarebbero questi "parecchi"?» domandò Fraxinus.
Kalika parve non udirlo, o forse scelse di ignorarlo. «Per non parlare del duello con Rufus! Eri a tanto così dalla vittoria.» Unì pollice e indice fino a farli quasi toccare. «Comunque, una cosa è certa: dopo oggi la pianterà di darti fastidio. L'hai spaventato per bene, è da stamattina che è chiuso in camera.»
Godwyn si rabbuiò. «Volevo che mi rispettasse, non che mi temesse.»
«Che importa? Ciò che conta è che-»
Fraxinus si intromise nella conversazione, percependo il disagio del ragazzino. «Perché non scendiamo nella Sala Grande? La cena si raffredderà se perdiamo tempo.» Spinse Kalika fuori dalla porta e si voltò verso Godwyn per incitarlo.
In seguito a una manciata di tesi e silenziosi minuti, giunsero nella Sala Comune, gremita di apprendisti.
«È vivo!» strillò Malcolm, dal divano di fronte al camino. Scavalcò la spalliera e gli prese il volto tra le mani. «L'avevo detto che avresti rispedito Emga a calci nell'oltretomba.»
«Non è mai stato in pericolo di vita» specificò Fraxinus, ma la sua voce venne coperta dallo strimpellio delicato del liuto di Duncan, spaparanzato sulla sua poltroncina abituale.
«Ah, la vita» sospirò il ragazzo, suonando un paio di note. «Cos'è la vita se non una struggente melodia?»
Arold lo osservò accordare lo strumento. «Ci conosciamo da anni, eppure non ho ancora capito se ciò che dici è profondo o semplicemente stupido.»
«Siamo contenti che tu stia bene» disse Billy, raggiungendolo. Alzò la mano per dargli una delle sue tonanti pacche consolatorie, solo che dovette ricordarsi delle ferite perché il bracciò cambiò rotta improvvisamente, scompigliandogli i capelli.
Arthur spintonò Malcolm via da Godwyn e si piegò di poco sulle ginocchia per sopperire alla differenza di altezza. «Perché tu stai bene, giusto?» Lo sguardo gli sfuggì sulle bende che spuntavano dai bordi della camicia e scomparivano nei polsini metallici.
Il ragazzino si tirò la manica cercando di coprirle. «Mai stato meglio.»
«Sicuro?»
Godwyn titubò; odiava mentire ad Arthur. Era un punto di riferimento per ciascun apprendista della Gilda e si era dimostrato un eccellente fratello maggiore nei suoi confronti in particolare fin da quando, ormai orfano, era stato adottato da Castel Neve. Era stato lui ad accompagnarlo ogni anno nei pressi di Vetro Azzurro affinché potesse visitare la tomba improvvisata che era stata allestita per suo padre.
Allontanò la mano dall'orlo della maglia e rilassò le spalle. «In realtà no.»
Arthur aprì la bocca per ribattere, ma si accorse di Malcolm, appollaiato come un'Alasporca oltre le sue spalle per non perdersi nemmeno una parola.
Si rimise dritto, rischiando di dargli una testata. «Che ne dici se, dopo cena, ne parliamo in camera mia?»
«Lo apprezzerei molto.»
«Mi sembra un'ottima idea!» esclamò Malcolm. «Sono invitato, vero?»
Arthur gli scoccò un'occhiataccia affilata e il ragazzo indietreggiò di malavoglia.
«Non occorre arrabbiarsi, Artie. Sai che presto orecchio volentieri alle turbe dei nostri fratellini.»
«Certo, ma mica perché vuoi aiutarli.» Gli puntò il dito contro. «Cerchi soltanto materiale per la prossima opera teatrale, dato che la precedente non è piaciuta a nessuno.»
«La colpa di quel disastro è delle canzoni di Duncan.»
Duncan scattò seduto. «Ehi, amico, non è affatto vero. Il mio accompagnamento musicale era sopraffino, sono state le tue battute volgari a disgustare il pubblico!»
«Volgari?!» urlò, levando le braccia al cielo. «La mia è arte, tu sei un misero bardo da strapazzo!»
Duncan imbracciò il liuto quasi fosse un randello. «Ti sfido a ripeterlo!»
Malcolm gli saltò addosso ed entrambi capitombolarono sul divano.
«Dovremmo separarli?» chiese Fraxinus, muovendo qualche passo avanti.
«Nah.» Arthur liquidò la faccenda scuotendo la mano. «Sostengono che azzuffarsi stimoli i loro processi creativi.»
Idunn sbucò dalla porta della Sala Grande, poco più in là sulla sinistra. «Per l'amor del Grifone! Rovinerete quel divano se continuate così! Se proprio dovete prendervi a pugni, andate fuori.»
Godwyn sbirciò lo stregone, con un'espressione a metà tra l'incredulità e l'apprensione, che guardava prima i gemelli e poi la Dul.
«Bambino mio!» La donna si pulì sul grembiule e corse ad abbracciare Godwyn.
«Sii delicata, lui-»
«Un po' di affetto materno non ha mai fatto male a nessuno» soffiò, spingendo Fraxinus ad allontanarsi.
Il ragazzino avrebbe avuto da dissentire, ma preferiva soffrire piuttosto che rischiare di adirare la Dul.
Rufus era appoggiato al davanzale in pietra della finestra arcuata di camera sua, a osservare la Foresta d'Alabastro baciata dalla luce melliflua della luna, mentre passava le dita sulla cicatrice nella parte interna dell'avambraccio sinistro. Era da ore che se ne stava in quel punto preciso a fissare la stradina che, quasi celata dalle alte conifere, serpeggiava verso la valle e continuava a snodarsi per la regione per leghe intere, toccando anche Alto Abete, la città-fortezza dei Reilly da cui era stato bandito.
Una parte di lui continuava ad attendere che gli stemmi araldici di un'eventuale delegazione mandata per riprenderlo comparissero nel sottile lembo di terra tra i tronchi degli alberi; l'altra parte era sempre più consapevole, giorno dopo giorno, che il suo esilio era definitivo e che una delegazione del genere non sarebbe mai arrivata.
In fondo, erano passati nove lunghi mesi da quando Kohir l'aveva spogliato del titolo di erede, gli aveva scavato il monito del suo tradimento nella pelle e l'aveva spedito e confinato a Castel Neve. Nove mesi e dieci giorni, per la precisione. Nove mesi e neanche una risposta alle sue lettere. L'ultima, incompleta e piena di cancellature, giaceva sullo scrittoio attaccato al muro sulla sua sinistra. Erano settimane che Rufus calpestava l'orgoglio e si scervellava sulla giusta combinazione di parole atta a conquistarsi il perdono del padre, o almeno l'opportunità di visitare la tomba di suo fratello Baldric, ma stava iniziando a pensare che semplicemente non esistesse...
Strinse il pugno e lo sbatté sul davanzale di pietra, maledicendo la sua codardia. Se avesse giustiziato quell'Uruls come gli aveva ordinato Kohir, in quel momento sarebbe stato nelle sue stanze ad Alto Abete, circondato dai suoi cari, e non intrappolato in un castello dimenticato da Stigo insieme a una manciata di figli delle bestie. Invece, nonostante quello stregone gli avesse portato via Baldric, a Rufus era mancato il coraggio... ma a sua sorella Nava no. Lei gli aveva strappato l'ascia dalle mani e aveva terminato l'esecuzione senza battere ciglio, guadagnandosi il titolo di erede.
La ferita infertagli da suo padre, nonostante si fosse ormai cicatrizzata, gli prudette di nuovo, come aveva continuato a fare sin da quella mattina. Se la grattò insistentemente e con rabbia, fino a provocarsi una fitta di dolore tale da spingerlo a serrare le palpebre e inspirare bruscamente.
Rilassò le spalle irrigidite solo dopo qualche secondo, espirando con lentezza. Una delle spade incastrate nel muro di ghiaccio eretto da Fraxinus riflesse la luce della luna, catturando la sua attenzione.
Rufus ripensò alle lezioni di storia che gli erano state impartite dall'Ambasciatore di Stigo Kavi, il saggio che aveva istruito suo fratello Baldric e sua sorella Nava prima di lui, e alle sue infinite storie sulle atrocità compiute dai figli delle bestie nei secoli precedenti alla Conquista. Solo l'idea di un'epoca in cui gli Umani erano trattati come schiavi, come merci, denigrati e bistrattati perché privi del dono della magia gli era sempre parsa impossibile. Non era mai riuscito a immaginare una Phoel in cui erano i figli delle bestie i sovrani.
Da quella mattina, però, ci riusciva. Godwyn non aveva nemmeno ancora tredici anni, eppure possedeva un potere capace di spazzare via un esercito in un istante; Rufus paventava cosa i guerrieri del suo popolo fossero stati in grado di fare. Eppure, quando si era trovato faccia a faccia con la prova che il vecchio Kavi e suo padre Kohir avessero ragione, che gli Uruls e i figli delle bestie fossero delle belve, non aveva provato paura, disgusto o odio, ma pena.
Gli erano tornati in mente i discorsi di suo fratello Baldric, la speranza che si agitava nei suoi caldi occhi castani quando gli raccontava di come avrebbe reso il Nord un paradiso in cui Umani e figli delle bestie avrebbero convissuto in pace da eguali. E d'un tratto non aveva più visto in Godwyn un nemico infimo e disonesto che non avrebbe esitato a ucciderlo per ciò che era, o piuttosto non era; davanti a lui c'era stato solamente il ragazzino esile e timido che si rannicchiava davanti al camino della Sala Comune a leggere tomi pesanti quanto macigni, lo stesso ragazzino che sussultava quando il fuoco scoppiettava e faticava a reggere una spada vera. Aveva osservato Godwyn piangere, ammutolito dal dolore, il suo volto allegro contorto e snaturato in un'espressione straziata, le sue braccia dalla pelle squarciata grondare sangue biancastro, e non aveva avvertito neanche una traccia della soddisfazione che traspariva dal ghigno di suo padre durante le esecuzioni dei figli delle Bestie, unico momento in cui pareva esternare un'emozione; al contrario era stata la tristezza a sommergerlo, la stessa che sconvolgeva il viso di suo fratello Baldric quando loro padre li costringeva ad assistere in silenzio.
Gli occhi glaciali di Rufus passarono sulle spaccature nel terreno, ora silenziose e spente, e un moto di compassione per Godwyn gli crebbe nel petto. Lo rivide svenuto, madido di sudore e tremante in braccio a Fraxinus. Si chiese cos'avrebbe provato Baldric nell'apprendere del comportamento che aveva avuto nei confronti dell'Uruls. Provò a figurarsi l'espressione delusa del fratello, ma nella sua mente apparve soltanto il suo volto esanime, macchiato di sangue e fango e sfigurato con crudeltà dai suoi assassini.
Rufus lasciò andare il colletto della camicia e si tirò via dalla finestra di scatto, scuotendo la testa. Per quanto detestasse suo padre per averlo marchiato e rifiutato per un attimo di debolezza, Kohir aveva ragione e Baldric torto. I figli delle bestie erano creature animate dall'ira e dall'odio, incapaci di provare qualsivoglia tipo di emozione e il loro destino era quello di essere abbattuti come le belve rabbiose che erano. Fu improvvisamente grato di non essere ad Alto Abete; se suo padre avesse saputo che aveva avuto pietà di un empiosangue, di uno degli uccisori di Baldric, avrebbe fatto ben di peggio che incidergli il braccio ed esiliarlo. Probabilmente l'avrebbe giustiziato di persona.
Rufus strinse la mascella e rammentò di essere da solo in territorio ostile, non poteva permettersi di sottovalutare il nemico; doveva ricordarsi le parole del saggio Kavi, di quanto i figli delle bestie fossero bravi a fingere e a recitare e che i sentimenti che supponevano di sentire erano fasulli, erano soltanto un inganno per spingere gli Umani a compatirli e ad abbassare la guardia.
Un lieve picchiettio alla porta lo destò dai propri pensieri.
«Avanti.»
Kalika entrò con un piatto di arrosto con contorno di verdure fra le mani. Si guardò intorno, cercando un ripiano dove poggiarlo e adocchiò lo scrittoio.
Rufus si affrettò a spostare il calamaio, la piuma, ma soprattutto la lettera, riponendoli sulla mensola sopra il letto.
«Mi hai portato la cena...» Più che una domanda, era un'affermazione sorpresa.
«Per la cronaca» iniziò lei, alzando un palmo. «Me l'ha chiesto Idunn, io non sono la serva di nessun Umano.»
Rufus la squadrò a lungo con la fronte aggrottata, spostando lo sguardo dall'elfa alla pietanza. «L'hai avvelenata?»
Kalika sbuffò e le piume dorate sul suo volto sobbalzarono. «Se volessi ucciderti te ne accorgeresti, perché ti ritroveresti Skal in gola.» Si voltò per andarsene, ma si fermò subito. «Comunque Godwyn ti cercava.»
«Perché? Intende finire il lavoro?»
«No, idiota, per chiederti scusa.»
Dopo un attimo di confusione, Rufus soffiò: «Beh, è il minimo. Tentare di uccidermi senza ragione-»
Kalika si girò di scatto e marciò verso di lui; era più bassa di lui di una spanna e fu costretta ad alzare quasi del tutto la testa per guardarlo negli occhi, ma ciò non la rese meno minacciosa. «Senza ragione?» ripeté, scandendo le parole a denti stretti. «Tralasciamo i mesi di angherie, Reilly, e concentriamoci solo su questa mattina.»
«Dunque?»
«Credi forse che non ti abbia sentito nessuno? Se quelle parole fossero state rivolte a me, non cammineresti più su questa terra.»
Rufus deglutì, ma si impose di non lasciar trasparire l'ansia. «E tu credi di farmi paura? Ma per favore! Ascoltami attentamente-»
«No, ascoltami tu.» Assottigliò quei suoi occhi da animale, avanzando, e il ragazzino indietreggiò di un passo. «Torcigli un solo capello, anzi, azzardati solamente ad avvicinarti a lui e giuro...» Le penne le si tinsero di rosso e due lingue di fuoco divamparono su di esse; Rufus retrocesse fino a sbattere con la schiena contro al davanzale della finestra. «Giuro che di te non resterà neanche la cenere. Sono stata chiara?»
Rufus sbatté le palpebre un paio di volte, sia perché le fiamme brillavano tanto da causargli dolore agli occhi, sia perché non comprendeva per quale motivo Kalika ce l'avesse con lui; era Godwyn quello che aveva tormentato e sarebbe stato logico che fosse l'Uruls a nutrire del rancore nei suoi confronti.
«Se desideri tanto uccidermi, allora perché mi hai salvato la vita?» le chiese. Non c'era rabbia o un accenno di provocazione nella sua voce, solo una sincera curiosità.
Kalika stette in silenzio per qualche secondo e si toccò il sopracciglio prima di parlare. «Non l'ho fatto per te, ma per Godwyn. Se ti avesse ammazzato, non se lo sarebbe mai perdonato. Lui è una brava persona, del tipo che io e te non saremo mai.» Gli rivolse uno sguardo inquisitore che mise Rufus a disagio. «Ciò che non capisco è perché tu hai salvato la vita a me.»
Se lo chiese anche Rufus. Perché l'aveva spinta lontano dalle spade? Perché le aveva fatto da scudo con il proprio corpo? Lei apparteneva alla specie che gli aveva sottratto Baldric, avrebbe dovuto lasciare che morisse... invece l'aveva impedito.
«Anzi, sai che c'è? Non importa, la tua risposta non cambierebbe nulla.» Gli diede le spalle e si soffermò per un attimo sull'uscio della stanza. «Non sono sicura di cosa sperassi di ottenere, se fosse uno dei tuoi sporchi giochetti mentali, se tu abbia miracolosamente sviluppato una coscienza, se fosse una messinscena o chissà che altro. Però di una cosa sono certa: se persino i Reilly non ti vogliono attorno, significa che sei anche peggio di una bestia e l'unica cosa che sarei in grado di provare per te non è di certo gratitudine, ma ribrezzo.»
Rufus avvertì un tonfo allo stomaco come se vi avesse ricevuto un pugno. «Io... Tu non...»
Kalika si inoltrò nel corridoio prima che il ragazzino riuscisse a ordinare i pensieri e ribattere.
Lui la seguì all'esterno in fretta, deciso a non lasciarle l'ultima parola. «Tu non conosci la mia famiglia!» le urlò, con il fiatone, senza nemmeno preoccuparsi che qualcuno lo sentisse. «E non sai chi sono!»
Kalika ruotò il busto quel che bastava per guardarlo con la coda dell'occhio e, con calma glaciale, affermò: «Se non sai dirmi perché mi hai salvata, allora neanche tu lo sai.»
Rufus schiuse le labbra e la osservò scomparire dietro l'angolo, e poi continuò a fissare il vuoto a lungo mentre la sua voce gli riverberava nelle orecchie.
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