13.3 Promesse
Si alzò dal bordo del tavolo senza neppure accorgersene, annegato nelle elucubrazioni che gli infestavano le membra, ed iniziò a muoversi in una direzione ben precisa. L'ansiosa preoccupazione dovuta al pensiero di Maitreya si era dissipata ed al suo posto era sopraggiunta la rabbia, il desiderio di vendetta e l'odio marcio per Veer. Tutto ciò che stava facendo, non era più soltanto legato ad un principio materiale, quale era stato il voler azzerare l'influenza e la potenza dei Fenrir; si trattava di chiudere un conto rimasto in sospeso per così tanto tempo da dargli la nausea.
Attraversò i corridoi luminosi della fortezza di Igniphetra a testa alta e con apparente disinvoltura, sapeva infossare assai sapientemente i propri istinti. Ostentare un'aria di altezzosa superiorità scoraggiava i più superficiali ad andare oltre e per coloro che non si accontentavano dell'esterno, aveva in serbo un'ironia pungente ed una velenosa teatralità. Il mostrare esclusivamente quanto desiderasse, era ciò che meglio gli riusciva. E tanto bastava ad assicurarsi che nessuno si avvicinasse troppo e vedesse oltre, scorgendo il pozzo nero che lo divorava giorno dopo giorno.
Virò alla sua destra raggiunta l'entrata di una torre bassa e tozza, che si apriva dalle mura est del castello come il ramo di una quercia millenaria. Era una parte di Tellhana Koshra che in pochi oramai frequentavano, nessuno voleva ripercorrere gli ultimi passi che la Rakkar Mheriir aveva compiuto prima di morire. Cominciò a salire le poche scale che portavano alla cima, immaginandosi i tonfi pesanti che Veer e la sua famiglia avevano dovuto produrre nel corrervi sopra per sfuggirgli. Non erano stati abbastanza veloci, pensò compiaciuto, lui li aveva raggiunti nonostante tutti i loro sforzi.
Ad un palmo dalla porta a forma di bocciolo, che permetteva di immettersi nella stanza del Grande Sapiente, ebbe un fremito. Stava rivivendo istante per istante la disfatta dei Draghi, ed anche se gli anni erano trascorsi la gioia per il suo operato non era svanita. Non ancora del tutto, perlomeno. Spinse il legno ormai consunto che lo separava dalla stanza circolare e si affacciò al suo interno con un sorriso tirato: non era cambiato niente dall'ultima volta, se non la quantità di polvere. Non un servo, non una sguattera, non uno schiavo erano stati mandati a pulire quel luogo, Ferni aveva voluto che andasse marcendo. Quello era il segno più tangente che i Draghi erano finiti, estinti; anche la loro Dinastia ora marciva nell'ombra della morte.
Vi entrò cercando di ricordare il volto del Grande Sapiente quando aveva incontrato il suo; era stato un uomo pio e fedele fino alla morte, il terzultimo della sua razza, e Ferni aveva visto nelle iridi grigiastre il disgusto nei suoi confronti. Lo rimembrava, mentre teneva stretta a sé la salma inerme di Solana e gli gridava contro che li aveva salvati, Veer e suo figlio. Erano andati in un mondo che lui non avrebbe mai visto né potuto vedere, erano al sicuro e sarebbero vissuti a lungo ed in pace. Certamente non immaginava che cinque anni dopo sarebbero tornati, quel maledetto idiota. Aveva utilizzato inutilmente il suo potere per chiamare a sé la Shakbàra e permettere ai due fuggitivi di approfittare della sua energia per andarsene; chissà dove poi, non ne aveva idea. Dopotutto il culto dell'antica energia era stato tramandato solo tra i Grandi Sapienti ed erano loro e solo loro a conoscerne le capacità. Certo, bisbigli e chiacchiere si erano accumulate nel tempo ed anche il popolino le conosceva, ma la verità sulle reali capacità della Shàkbara non era mai trapelata, e con la morte del Culto Antico non c'erano ulteriori possibilità di saperla.
Ancora era annerita la porzione di parete in cui si era aperto il varco che li aveva salvati, constatò, passandovi sopra una mano. La pietra permaneva calda e liscia, come se sotto di essa si muovesse tutt'ora un flusso caldo, vivo, di energia. Era affascinante immaginare l'universo come una grandiosa rete di connessioni tra mondi opposti, ed era esaltante toccare la materia che aveva sperimentato la potenza di tali connessioni. Avrebbe tanto desiderato vedere con i suoi occhi la pietra aprirsi e mostrare il cuore di ogni cosa, forse sarebbe stato meno scettico riguardo i reali poteri dei Grandi Sapienti.
Ne aveva torturato uno fino alla morte e niente aveva fatto per proteggersi, quello stolto. Se avevano davvero tanto potere come Kohor diceva, allora per quale motivo lui non si era ribellato? Già, glielo aveva anche detto: aveva prosciugato tutte le sue forze per assicurarsi che Veer ed Arian giungessero in un mondo sicuro. Una scusa lodevole, che lo poteva rendere un eroe agli occhi altrui ma non ai suoi. Era sempre stato sicuro che ci fosse un ben preciso modo di aprire i canali di energia a proprio piacimento, che non si trattasse di possedere grandi poteri ma semplicemente la conoscenza adatta a farlo. Come una partita a scacchi, dove se non conoscevi le regole eri destinato a perdere. I trucchi di magia non gli erano mai piaciuti, celavano la verità; nella vita servivano i fatti, il potere e la vendetta. Il resto era superfluo.
Distolse bruscamente l'attenzione dalla parete quando comprese che stava divagando su argomenti che non lo toccavano minimamente e che, quindi, risultavano futili da affrontare. Non gli stava certo dando piacere dimenarsi in questioni religiose alla ricerca di una risposta a qualcosa di ostico almeno quanto la vita stessa.
Alzò gli occhi verso la parte opposta della stanza, oltre il letto tarlato e le coperte sgualcite, nell'esatta posizione in cui sostava la tomba di Solana. L'aveva fatta seppellire lì, nessuna grande cerimonia né rito sacro; l'aveva semplicemente murata tra la grigia pietra, riservandole un sepolcro certo non degno di una regina. Era stata una donna semplice, comunque. Non avrebbe voluto tanti gingilli nemmeno da morta, si discolpò Ferni, avvicinandosi.
La lastra di marmo che svolgeva il ruolo di coperchio era liscia, macchiata delle venature rosee tipiche della roccia dalle sfumature pesca ed attraversata dalla fragile ed effimera scritta che ne riportava il nome. Non una data,, un titolo, una dedica che lasciasse trasparire quanto ella fosse stata amata in vita o quanto la sua mancanza sarebbe stata struggente. Era così che tra secoli l'avrebbero ricordata: la Regina Dimenticata, colei senza un vero nome, un fantasma che si sarebbe trasformato in leggenda. Lui aveva dato a Solana un grande futuro; a nessuno interessava leggere nomi, titoli e grandi gesta su tombe un tempo sfarzose ed ora in decadenza. Invece, quelle sconosciute, avevano il fascino dell'ignoto, davano spazio all'immaginazione con la loro mutezza. Non si esprimevano, lasciavano che fossero gli altri a farlo, costruendo su di esse favole per i cantori che avrebbero attraversato anche il più infido dei mari per giungere in terre inviolate. Sì, Solana sarebbe stata più famosa del marito stesso grazie a lui.
Fece scorrere i polpastrelli sulla superficie fredda, insensibile, chiedendosi come la bellezza della sorellastra fosse resistita alle intemperie della morte. L'aveva lasciata con gli occhi chiusi ed un fiore tra le mani incrociate sul ventre: era in dolce attesa, quando il suo cuore si era fermato. Veer certamente non lo sapeva, non lo sapeva nessuno. Magari nemmeno lei. Yed aveva appreso l'infausta fine di quel bambino quando aveva fatto spostare la carcassa del Drago di Solana dal piazzale in cui era caduto, morto, e con esso aveva trovato un suo simile, non ancora nato, rigettato dalla pancia di Brea prima che scomparisse agli occhi del mondo. Sarebbero dovuti essere la speranza dei Draghi, quell'animale ed il suo padrone, ma Ferni aveva spezzato il loro destino ancora prima che fosse tracciato.
« Non ti ho mai veramente odiata » sussurrò alla tomba, accostandosi con le labbra al nome fino a sfiorarlo con un delicato e colpevole bacio « eri sempre stata buona, con tutti. Persino con me. Ho dovuto farlo, non doveva rimanere nessuno. Ti avrei lasciato tra le braccia del tuo amato, se soltanto non fosse stato così un codardo. Vi avrei uccisi insieme, se lui non fosse fuggito prima che potessi compiere il volere divino. Ma non temere, rimedierò al mio errore. » carezzò una timida decorazione floreale che si faceva strada su un lato del sepolcro squadrato, una delle poche presenti che riusciva, nonostante la frugalità, a conferire un'aria di malinconica dolcezza. Dopodiché tornò eretto e pronto a riacquistare i panni dell'insensibile uccisore dell'intera sua famiglia. Si sistemò il fondo arricciato del gilet in velluto e le maniche della camicia in cotone bianco, poi si voltò per uscire e nuovamente abbandonare quel luogo al suo deperimento. Non fece però in tempo a rivolgere il volto alla porta che l'ombra di un uomo prese forma dall'oscurità ammucchiata ai lati della stanza. Il primo istinto di Ferni fu quello di sguainare la spada, una lama di mezza taglia affilata da ambo i lati, e puntarla alla gola dell'individuo sconosciuto. Non aveva mai saputo dare il meglio di sé con le armi bianche, preferiva quelle da lancio, ma non aveva né arco, né frecce in quel frangente. Avrebbe dovuto sbrigarsela con la schiavona che si portava appresso più per tranquillità personale che non per vera e propria difesa, constatò, spostando il peso da un piede all'altro con fare nervoso.
L'ombra mosse un altro passo avanti, svelando i propri lineamenti nella luce soffusa che penetrava dalle piccole fenditure sui muri. Era un uomo, non giovane né vecchio, con una folta barba ispida ed una cicatrice a dividergli il sopracciglio sinistro. I capelli unti, lisci e piuttosto corti erano appiccicati alla fronte pallida ed un dente d'oro risplendeva tra quelli giallastri, mostratisi in un sorriso ferino. Abbassò la lama che gli premeva sul collo con due dita ed attese fosse Ferni a spezzare il silenzio.
« Chi sei? » non tardò dunque a domandare il sovrano, abbassando solo materialmente la guardia. Nella sua testa permaneva una condizione di incerta paura nei confronti di quell'individuo che sembrava apparso come dal nulla, uno spirito dannato dagli occhi verde menta che l'aveva seguito fin lì a sua insaputa.
« Non sono nessuno, altezza » rispose l'uomo, avanzando ancora e mostrandosi per intero « ma, se lo desiderate, potrei diventare qualcuno. » sibilò, con una voce che pareva raschiare la muffa dalle rocce, grattare i tendini fino all'osso. Era avvolto da un logoro mantello fino i fianchi ed il farsetto, cucito alla bell'e meglio con cuoio di poca qualità, presentava strappi in più punti da cui s'intravedeva una sottoveste di lana grezza, tendente al marrone fango.
Ferni, d'istinto, arretrò ed alzò di nuovo la spada nella direzione dell'uomo che si ostinava a guardarlo come un'aquila con una colomba. Avrebbe voluto affondargli il metallo nella gola, trapassandola da parte a parte, eppure temeva di non essere abbastanza veloce per farlo. Una voce dentro di lui aveva iniziato a ripetergli di stare attento, di non commettere mosse azzardate perché qualcosa, qualcosa in quello sguardo, gli suggeriva che sarebbe finita male. E non per il vagabondo.
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