capitolo 2: minerale

"Amethyst Bancroft?"

La donna la guardò con occhi vispi, sotto gli occhiali che le pendevano sulla punta del naso. Le labbra sottili scandivano perfettamente le parole, la si poteva scambiare per un'insegnante di lettere che non aveva realizzato il suo sogno nella vita.

Amethyst la fissò con occhi confusi, cercando ancora di ricordare com'era arrivata all'accademia, ma fallendo miseramente. L'ultima cosa che ricordava era di aver ricevuto un messaggio sulla posta elettronica che le indicava di passare sotto un certo monumento in fondo alla strada su cui stava camminando. Dopodiché non ricordava più nulla, oltre il locale completamente vuoto. Si ritrovò, su un vialetto di sassolini e lo zaino insieme al trolley accanto a lei, e quando si rimise in piedi, vide davanti a sé l'enorme ingresso dell'accademia. Le sue ginocchia erano cedevoli, si fermarono sull'incertezza di essere nel posto giusto e nell'incertezza se il modo in cui aveva raggiunto quel posto fosse normale.

Tra tutte le voci che giravano intorno a quella specifica accademia per soldati, era normale iniziare ad avere qualche tipo di dubbio in circostanze simili o dopo quel genere di eventi. Appena salita, nel silenzio totale del cortile, le venne la pelle d'oca nel sentire nient'altro che la suola delle scarpe sul cemento.

In quel momento si trovava davanti a una segretaria di corporatura minuta, di età incerta ma sicuramente anziana, che la squadrava attentamente con curiosità. 
Sembrava entusiasta di avere davanti a sé qualcuno come lei, anche se era una ragazza abbastanza normale. La donna non aveva mai staccato gli occhi dal corpo di Amethyst, nemmeno mentre scriveva il suo nome; continuava a far allontanare le pupille dagli occhi della ragazza fino alla vita, poiché le gambe erano coperte dal tavolo su cui erano sparsi fogli e carte di importanza sconosciuta.

Amethyst continuava a tirare su col naso, cosa che faceva abitualmente quando si sentiva nervosa, con gli occhi fissi sul marmo del muro dietro la donna, cercando ancora di ricordare come fosse arrivata all'accademia.

"Amethyst è davvero il tuo nome?" chiese la donna svegliandola dal suo sogno ad occhi aperti.

"Eh?" il verso le era uscito spontaneamente. "Sì, sì. È proprio il mio nome." Alzò un sopracciglio, si morse il labbro.

La donna - la segretaria, come diceva l'insegna sul tavolo - appoggiò il mento sul dorso delle mani intrecciate; la fissò con un sorrisetto che le nacque all'angolo delle labbra e sbatté le palpebre due volte. Amethyst era pronta a sentirla parlare, sperando che le avesse dato qualche consiglio o che dicesse qualcosa per permetterle di chiedere come fosse arrivata sul posto: se avesse avuto necessità di uscire dall'accademia, non sapeva dove andare.

"Allora sei davvero molto, molto fortunata."  si tirò indietro la schiena per gettarsi sulla sedia.

La ragazza rimase interdetta da quel commento, al contrario di quanto sperava. Era certa che quel tipo di nome non si facesse sentire spesso, ma parole simili in quell'atmosfera confusa, che le intrecciava le viscere per l'ansia del momento - che quasi le faceva persino dimenticare la stanchezza del viaggio - riuscivano solo a far lavorare  male il suo cervello. Quasi cercando di farla confondere di proposito.

Tutto quello che era successo da quando aveva messo piede quella mattina nella grande città, l'aveva convinta che le voci delle persone erano in grado di influenzare anche l'argomento stesso. Era quello che non riusciva più a sopportare. Il pensiero di ciò che continuavano a dire era commovente in quei momenti di mistero che sarebbero svaniti non appena avesse preso confidenza con la nuova quotidianità, assorta tra nuove realtà, nuove confidenze e nuovi incontri. Non si era mai preoccupata di pensare alla natura del suo nome, non aveva nemmeno una madre a cui chiedere.

"Non ho mai fatto ricerche sul mio nome quindi non so se..."

"Non c'è bisogno di conoscere la proprietà dell'ametista per sapere che sei una ragazza fortunata, non era quello che intendevo comunque." lei ridacchiò, lasciando la ragazza perplessa.

"La mia isola si chiama così, quindi suppongo che derivi da..."

"I tuoi genitori sono molto patriottici."  ancora una volta la donna non la lasciò finire di parlare e ridacchiò. "Non lo sono?"

"Non li ho mai conosciuti." rispose lei, la mano si restrinse sulla cintura dello zaino al punto che sudava nonostante il freddo.

La donna fece sparire rapidamente il suo sorriso, sicuramente imbarazzata per la risposta che Amethyst aveva dato seguendo la sua logica e il suo ragionamento. Non poteva né confermare né smentire, ma camminava su una ferita probabilmente aperta facendola bruciare. Non aveva mai sofferto per quello, ma a volte era solita invidiare i bambini che avevano una madre e un padre da amare.

"Beh, non c'è bisogno di conoscerli per dirlo."  la donna si tirò fuori dall'imbarazzo in quel modo. "Altrimenti hanno pensato solo al tuo colore degli occhi. È molto raro avere gli occhi viola, sei fortunata e sei rara, sicuramente ti sta aspettando il futuro più luminoso mia cara. E il tuo futuro luminoso inizia oggi. Benvenuta all'accademia, Amethyst Bancroft."

Nonostante tutto, Amethyst non era convinta dello sguardo innocente della donna e sentiva uno strano odore di finzione. Era come se quella donna fosse stata programmata apposta per dire tutte quelle cose, perché sapevano che sarebbe venuta. Ma non poteva essere una donna robotica, era in grado di distinguere un umanoide da un umano. Era una ragazza intelligente e tutti lo sapevano. Ma la donna riprese a parlare prima che potesse esprimere qualsiasi preoccupazione.

"La prima informazione che posso darti su questa accademia è che l'identità di tutti è assolutamente sconosciuta. Nessuno sa chi è veramente un altro a meno che la persona non lo desideri specificamente." parlò mentre il suo tono sembrava fungere da rompicapo. "tutte le persone che incontrerai sono state dove tu sei ora. Tutte hanno ricevuto da me in persona un soprannome, che è il nome da usare. Ma tu, cara, non ne hai bisogno, il tuo nome è già il nome di un minerale esistente."

"Mi stai dicendo che lo schema dei soprannomi che vengono dati è quello dei minerali?"

"Proprio così! Che intelligenza." esclamò. "Fortunatamente per te, nessuno si è ancora guadagnato il soprannome dell'ametista, quindi ecco la tua targhetta." le porse un cartellino da appendere alla maglietta, con la scritta 'ametista' per davvero. "Non dire a nessuno che è il tuo vero nome, comportati comunque come se fosse un soprannome. Non conoscerai mai i veri nomi delle persone, a meno che non si fidino completamente di te." continuava a ridacchiare, ogni volta che finiva una frase.

L'idea di non conoscere le vere identità delle persone con cui avrebbe interagito, come in un gioco in cui non sai chi controlla il personaggio con cui sei alleato, la rendeva ansiosa. Chiunque avrebbe potuto diventare chiunque altro, in un batter d'occhio, e le fece uno strano e terrificante effetto che non aveva mai provato prima.

Inoltre, si chiedeva perché ci fosse così tanto bisogno di fidarsi completamente delle persone. L'idea di farsi tradire, se c'erano giochi di fiducia in mezzo, la faceva preoccupare. Odiava farsi tradire, era la cosa che odiava di più al mondo e non c'era nessuno che avrebbe fatto eccezione a quella legge autoimposta - almeno così pensava quel giorno in cui arrivò all'accademia - e, inavvertitamente, aveva iniziato a temere che tutte quelle voci avessero una parvenza di verità. Si fermò un attimo nel corridoio vuoto, pensandoci, mentre non prestava attenzione a dove doveva andare, e pensò che se quelle voci erano nate doveva esserci qualcosa che le scatenasse. Forse era andata in quel modo, ma quelle erano versioni davvero lontane dalla realtà, erano racconti distorti che erano realmente accaduti. Improvvisamente ragionò così.

Trovò la sua camera da letto dopo aver vagato per l'accademia senza meta, quasi ad essercisi imbattuta per caso. Si aspettava un posto caotico, pieno di ragazzi e ragazze che andavano a destra e a manca correndo, ma ovunque andasse, capitava da sola. Sapeva che avrebbe dovuto avere una coinquilina, le avevano già detto che, così pensava almeno, avrebbe potuto iniziare a interagire con qualcuno per la prima volta da quando era arrivata in quel posto.

Prima di entrare bussò educatamente, attese una trentina di secondi una risposta, inutilmente, così entrò senza più indugiare. La camera da letto era grande e le pareti azzurre, piene di poster di cantanti. C'era una finestra che dava sul giardino nel retro dell'accademia, e si vedevano i muri che la delimitavano. Dietro le mura, c'erano alberi enormi, una foresta infinita, tutt'intorno. C'era una scrivania piena di libri di scuola;  alla finestra erano appese le luci al neon, spente visto che era giorno - sicuramente la ragazza le avrebbe accese quando sarebbe calato il buio - la sua coinquilina era sdraiata sul letto con le cuffiette, calze alte e grigie le scaldavano i piedi dal freddo della stanza, in fondo al letto c'era anche un tappeto azzurro e lei aveva gli occhi incollati allo schermo del cellulare.

Sicuramente non era una persona ordinata: c'erano scarpe, vestiti e reggiseni seminati per terra; i suoi trucchi erano aperti e adagiati sul suo comò. Le lenzuola erano ammucchiate in fondo al letto e c'era un panino iniziato e mai finito sul comodino. Il pavimento era di marmo, lo scheletro dei letti era di ferro battuto: il suo letto aveva ancora il velo, poiché non era mai stato usato prima di lei. Sperava che sotto ci fossero le coperte, le lenzuola e il cuscino, altrimenti non sapeva dove sarebbe dovuta andare a prenderli. Aveva anche un comodino, la scrivania probabilmente avrebbero dovuto condividerla, poi un cassettone vuoto e spoglio che aspettava di essere personalizzato dai suoi effetti personali.

Chiuse la porta dietro di sé, trascinò il suo zaino e la sua valigia e tutto il suo corpo verso il letto. Il suo respiro era regolato dal pensiero che fosse appena arrivata e che niente potesse andar male - anche se alcune cose erano già andate male, ma non poteva peggiorare, non ancora - aveva dato tutta sé stessa per agire nel modo più agevole possibile e non essere notata dalla sua coinquilina era già qualcosa di significativo per lei. Non sarebbe stata in grado di mantenere una prima conversazione di base con la ragazza sconosciuta che la stava ignorando o non si era nemmeno accorta di lei nella stanza.

Tolse il velo dal letto, sollevando un polverone che la fece tossire pesantemente.  Solo allora la sua coinquilina capì di non essere più sola. La ragazza si voltò a guardare cosa stava succedendo dall'altra parte, solo per vedere la nuova ragazza soffrire tanto quanto lei. Si tolse gli auricolari dalle orecchie, mise da parte il cellulare e si sedette sul letto a guardare; non aiutava.  Incrociò le braccia e continuò a guardare Amethyst che cercava di piegare il velo troppo grande per lei. La situazione nella stanza era piuttosto imbarazzante ma nessuna delle due ragazze se ne era ancora resa conto. Amethyst posò il velo sotto il letto, trovando almeno piumino, lenzuola e cuscino come sperava e, voltandosi per aprire la valigia e sistemare le sue cose, trovò addosso gli occhi celesti della ragazza.

Si fermò come una statua, trovandosi fissata dalla ragazza sconosciuta che fino a pochi secondi prima era impegnata con auricolari e telefono. Nessuna delle due sapeva cosa dire, come reagire o che espressione fare.  Se la ragazza doveva aiutarla o se Amethyst doveva presentarsi per prima. Tuttavia nessuna delle due ragazze fece un piccolo gesto in più. Amethyst pensò che fosse solo meglio continuare a fare ciò che stava facendo: aprì il bagaglio facendo del suo meglio per non sembrare goffa e sorprendentemente ci riuscì. Cominciò a prendere le magliette e le posò nel primo cassetto, poi in quello successivo, continuando a farsi studiare dall'altro.

"Anch'io dovrei mettere in ordine, immagino." Amethyst si voltò a guardare l'altra, ma stava borbottando tra sé e sé.

Amethyst si sentì come legata ad una sedia: dopo aver finito di fare tutto, non sapeva più cosa fare. Vide la sua coinquilina ammucchiare a caso le sue cose nei cassetti, chiudere i suoi trucchi e cercare di ordinare goffamente le lenzuola sul materasso. Anche lei riprese a mangiare il suo panino e si sedette sul letto dopo aver provato a rimettere tutto a posto. Non era tutto perfetto come si potrebbe pensare, ma era meglio di quanto fosse inizialmente. Amethyst si accarezzava timidamente le cosce, mentre la ragazza riposava sul letto divorando il suo vecchio panino e asciugandosi le salse dagli angoli della bocca.

La ragazza aveva i capelli corti, all'altezza delle spalle, bionda, le punte un po' in dentro e un po' in fuori; i suoi occhi erano di un azzurro puro, le sue pupille come aerei neri che volavano nel cielo. Era un po' come una meraviglia. Sicuramente non era la massima esponente dell'ordine, né della socievolezza né della loquacità, ma Amethyst era sicura di poter andare d'accordo con chiunque. L'una di fronte all'altra, occhi contro occhi in silenzio, Amethyst pensò che forse non c'era bisogno di affidarsi a lei come guida. Indossava pantaloncini, quei calzini, una felpa viola che le stava perfettamente. Amethyst si chiese come facesse a non soffrire il freddo.

La ragazza la squadrava con perplessità: i capelli castani raccolti in uno chignon ordinato, la maglietta oversize a maniche corte su una maglietta bianca a maniche lunghe e i blue jeans chiari. La guardò dal basso verso l'alto un paio di volte, esattamente come aveva fatto prima la segretaria, infastidendola inoltre. Odiava essere fossata così intensamente, ma alcune persone sembravano non poter farne a meno. Si schiarì la gola, pronta a dire qualcosa che non pronunciò mai e rendendo tutto ancora più imbarazzante.

La ragazza non sembrava una ragazza davvero pronta a diventare un soldato, ma quell'accademia era stata istituita per quel motivo specifico. Sapeva quanto rigide fossero le regole in caserma e probabilmente quella ragazza dagli occhi celesti puri non sarebbe sopravvissuta in quelle condizioni alla vita dei soldati.

"Non mi hanno avvertito del tuo arrivo, avevano detto... che avrei avuto una coinquilina da domani in poi. Oggi non ero pronta." lei alzò un sopracciglio parlando. "Niente funziona mai qui dentro."

Mormorò l'ultima frase alzandosi, dando le spalle ad Amethyst e gettando via l'involucro del panino nel cestino. Amethyst non era più in grado di dire nulla: tutti i discorsi che aveva organizzato nella sua mente mentre disfaceva le valigie svanirono, non ricordava nulla di ciò che preparava ed era ormai decisa a stare in silenzio.

"Come ti chiami?" non era sicura del tono della frase, e alla fine le parole uscirono tremanti.

La ragazza girò sulle punte dei piedi, poi si lasciò cadere sulla porta.

"Sapphire."

Zaffiro.

I suoi occhi diventarono come tavole di legno sentendo quel nome che sicuramente non le apparteneva. L'altra avrebbe pensato lo stesso se si fosse presentata. Sapphire si sedette sul letto, guardando la nuova coinquilina con le sopracciglia alzate in attesa di conoscere anche il nome della nuova ragazza che si era rivelata con grande anticipo. Il silenzio tra le mura era pesante, stancante, e sebbene volessero fare entrambe il passo successivo, entrambe rifiutavano ugualmente per ragioni diverse.

"Allora? Come dovrei chiamarti?" chiese Sapphire lasciando andare il silenzio.

Amethyst sembrò svegliarsi di nuovo da un sonno, quando accolse la domanda della ragazza dagli occhi azzurri. Incialpò nelle stesse sillabe del suo nome, come se non l'avesse mai pronunciato prima - e pensò che poteva anche essere vantaggioso se avesse davvero deciso di usarlo come soprannome e mentire come tutti gli altri - mentre manteneva a malapena il contatto visivo con l'altra ragazza, cercando di creare un'atmosfera di piacevole fiducia.

Tutto ciò di cui Amethyst aveva bisogno, ora, era avere una guida. Ma non voleva chiederlo direttamente, la sua introversione era ancora forte dentro quei muri forti che, tra un po', avrebbero coperto segreti che lei conosceva ma non osava nemmeno immaginare. La tempesta che già le stava attraversando lo stomaco, perdendosi solo dentro gli occhi azzurri della ragazza sconosciuta, bastava per farle capire che il mare che si apriva davanti a lei era infinito e lei sarebbe annegata o se ne rendesse conto o no.

Il suo respiro era caldo e calmo, più di quanto avrebbe potuto pensare. Le sue mani sudavano come fosse piena estate, erano appiccicose, ed era fastidioso perché tutto il suo corpo sentiva il freddo che regnava decisamente in quella stagione invernale. Era imbarazzante scambiarsi sguardi inchiodate nel silenzio della stanzetta. Non c'era altro da fare e nessuna delle due aveva voglia di indagare più a fondo sull'identità dell'altra.

"Immagino che almeno tu sappia qualcosa di più, e non è nemmeno una cosa banale."  Sapphire commentò all'improvviso.

Amethyst alzò gli occhi dal pavimento di marmo. Le erano saltate in testa le frasi che aveva sentito su quell'accademia e si era autoimposta di non crederci; ma ogni cosa, ogni singola cosa che era accaduta da quando aveva messo piede in quella città, sembrava mirata a farle credere e a farla cadere in quelle credenze. Anche lei alzò un sopracciglio.

"Voglio diventare un soldato. Solo questo." commentò Amethyst.

L'unica risposta che ottenne, fu una risata. Una forte risata che iniziò a rimbalzare tra le pareti, lasciandola senza nulla da replicare: dover dirle di smettere di ridere suonava troppo meschino, ma allo stesso tempo avrebbe voluto rispondere così. Non c'era niente che la mettesse più a disagio di quella risata chiara e apparentemente solare.

"Evidentemente sei venuta qui esattamente come sono arrivata io un paio di mesi fa. Era anche il mio sogno, sai. Ma la fama di questa accademia è cambiata drasticamente circa trent'anni fa, quando è cambiato anche l'obiettivo." Sapphire si alzò dal letto, vagando per la stanza, indossando quel comportamento consapevole. "Forse è troppo presto per raccontarti tutta la noiosa storia di questa accademia, lo capirai da sola, ma prima che tu possa dire una sola parola su tutte quelle voci che sono state sparse sulla reputazione di questo posto, lascia che ti dica che non sono piene ma vere."

La sensazione di essere letta nella mente la spaventava, poiché era fermamente consapevole che i pensieri erano l'unica cosa che rimaneva privata. Squadrò Sapphire con la paura impressa negli occhi, già Sapphire la sola ipotesi che parole del genere potessero entrarle nelle orecchie, e così avvenne.

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