CAPITOLO 3 - FRED CAMPANILE, PARTE 2
Mi svegliai dolcemente ancora cullato dal movimento ondulatorio degli pneumatici sull'asfalto.
Questo mi rese subito nervoso: preferisco svegliarmi di soprassalto, buttato giù dal letto da un'impellente sensazione di ritardo o ancora meglio dall'odioso e squillante suono di una sveglia da battaglia. Il primo sviluppo della mattina decide solitamente l'andamento della giornata: se tempro pazienza e ragione nelle prime ore di luce, il resto delle ventiquattrore non potrà che essere in discesa, affievolendo il mio disagio verso ciò che mi irrita come s'affievolisce il sole nel cielo.
Ma tempo per elucubrazioni varie sulla mia persona non ce n'era e fu proprio il sole a farmene rendere conto, e in particolare la sua assenza nel cielo. Buio. Era calata la notte.
Quanto diavolo ero rimasto in quel taxi? Possibile che non eravamo ancora arrivati?
E soprattutto quanto diavolo mi sarebbe costata la corsa?!
Volto di scatto la testa in cerca dell'orologio ma il braccio non risponde. È come se avesse vita propria. «Devo averci dormito sopra» penso.
O almeno credo di pensarlo, quando uno squittio gutturale dai sedili davanti mi suggerisce che forse i miei pensieri hanno superato l'ultimo baluardo della mia bocca. «Como?!» dice a voce esageratamente alta il tassista. I suoi occhi, blu ed incavati, si piantano sui miei col solo filtro dello specchietto. Sono profondi e sembrano guardarmi attraverso. Mi mettono a disagio; eppure, hanno un colore stupendo, direi unico, simile alla sfumatura blu lapillo che acquisisce l'acqua ad un certo punto presso le cascate sotterranee al largo delle Mauritius. I miei sono ancora impastati dal sonno e faticano a mettere a fuoco, complice anche l'età. Il berretto Adidas rimane però inconfondibile e mi accorgo solo ora che tra le altre cose richiama il colore degli occhi dell'uomo. Mugugno qualcosa ancora incapace di formulare frasi di senso compiuto e torno ad occuparmi del mio orologio.
«Ha dormido come un tronco, señor!» sghignazza tra sé e sé.
Cos'è questa improvvisa voglia di conversazione? E da dov'è uscita tutta questa confidenza?!
La lancetta dei secondi del mio orologio non mi è d'aiuto: si tuffa a destra e poi a sinistra e poi ancora a destra, a seconda di dove giro il polso. Espiro sconsolato. Dovrò farlo riparare: ho lo stesso orologio da trent'anni e non ho intenzione di cambiarlo ora. Mi sporgo in avanti e cerco una fonte temporale che possa dirmi da quanto sono rinchiuso in questo taxi. I led verdastri sulla radio segnano le due e quarantasei.
«Le due e quarantasei?!» esclamo.
Com'era possibile? Insomma, sapevo che la capitale era grande e che le strade erano famose per il traffico e gli ingorghi ma ero in quel taxi da... da quanto? Non riuscivo a ricordare né a mettere a fuoco le ultime ore prima del lungo sonno.
Mi sorpresi a lasciar vagar lo sguardo fuori dal finestrino. Migliaia di finestrelle cubiche adornavano le facciate dormienti dei palazzi; la luce fredda dei lampioni al neon disegnavano ellissi bianche sulle strade e sui marciapiedi qualche metro più sotto. Poi il mio stupore fu violentemente tarpato dal vetro opaco delle barriere antirumore della superstrada.
«Entre quinientos metros gire a la derecha». Una voce robotica mi riporta nella vettura.
Un Meizu azzurro traballa sul cruscotto col navigatore avviato. Il ticchettio della freccia direzionale destra e un brusco cambio di direzione; sovrappensiero, vengo catapultato contro la portiera opposta dell'auto e resisto appena dall'urlare per il dolore. Mi mordo un labbro: di che diavolo sono fatte le Hyundai? Il braccio sinistro pulsa più di quanto dovrebbe e mentre lo tasto con cautela il bicipite mi sembra più grande e tonico del solito. Che sia solo gonfio?
Il taxi si ferma. Un grosso cartello verde è riempito dalla scritta 'East Haven' con una piccola freccia verso destra. La luce rossa intermittente del semaforo segnala un ingorgo nella suddetta uscita e gli schermi digitali avvisano gli automobilisti del tempo di percorrenza fino alla destinazione: trentacinque minuti circa.
Che ci fanno tutte queste auto in giro a quest'ora di notte?!
Abbandono di nuovo la schiena sulla pelle nera dei sedili e per un momento rinuncio all'idea di pormi tutte quelle domande inutili. Ma il mio cervello, fresco di una dormita di non so quante ore, viaggia rapido, a differenza del mio taxi, ed inizia ad analizzare voracemente le informazioni che gli occhi, increduli, incanalano.
Il taxi è pervaso dal chiasso: oltre al telefono sul cruscotto ne noto un secondo, un Huawei, in bilico sui suoi jeans, con l'app dei taxi aperta e collegato alla radio da un lungo cavo intrecciato. Agganciato ai bocchettoni dell'aria condizionata c'era invece un vecchio iPod dal quale provenivano a tutto volume una serie di pubblicità da vari siti di agenzie immobiliari. La mia conoscenza dello spagnolo era limitata ma riuscivo a distinguere qualche parola, e a giudicare da quel poco che capivo si trattava di sempre le stesse pubblicità in loop.
«Che diavolo...» pensai. O forse pensai di averlo pensato.
«Como?!» squilla ancora il tassista torcendo il collo verso di me. Espiro.
«Quanto manca?» tanto vale estorcergli qualche informazione utile finché avrà ancora voglia di conversare.
«Un poquito» si aiuta col pollice e l'indice per farmi capire la distanza.
Ho il corpo ancora tutto intorpidito. Devo aver dormito in una posizione piuttosto innaturale perché qualsiasi movimento mi costa una notevole dose di fatica e dolore. Soprattutto al braccio sinistro.
«Quanto...» - «Amo esta canciòn!» - mi interrompe senza troppe scuse.
Gira la manopola del volume e l'auto viene investita da sonorità glissate tipiche della musica indiana.
«D'accordo...» mormoro tra me e me.
Desideroso d'eclissarmi dal frastuono regnante in quell'auto coi finestrini sigillati, provai a tracciare un identikit del tassista. Ancor prima che per lavoro lo facevo per hobby.
L'iter col quale disegnavo il pattern comportamentale dei sospetti era più o meno sempre lo stesso: prendevo spunto dai brillanti monologhi degli investigatori nelle serie tv e col tempo ero diventato piuttosto bravo.
Iniziavo dal presente, dalla persona che era Mario (così chiamavo sempre i soggetti delle indagini nella mia mente) nel momento in cui la guardavo e procedevo per immanenza: quali erano i fattori che l'avevano reso tale persona? A partire dai più impersonali come la società civile; l'economia del paese; la politica estera fino ai più particolari; dalla famiglia, alle relazioni interpersonali al suo subconscio. Il paese gravava in una forte crisi oramai da un po'. Come aveva potuto questo influire sulla vita di Mario? L'inflazione e la conseguente svalutazione del denaro rendevano il lavoro del tassista poco redditizio, costringendolo a rifarsi sui clienti ogniqualvolta la situazione glielo permetteva. Non che a lui piacesse, dopotutto era una persona onesta: immigrato irregolare, a giudicare dalla scarsa conoscenza della lingua, erano oltre dieci anni che guidava il taxi, ma poco più di due da quando aveva comprato quella Hyundai usata da un amico che aveva un concessionario fuori città. Le cose sembravano andar bene, così Mario assieme alla sua famigliola, una bellissima moglie dalla pelle scarlatta e gli occhi di diamante e un ometto di undici anni dalle trecce spettinate alla Tarzan, il motivo che aveva spinto i due a lasciare il proprio paese, per dare una vita migliore al piccolo ancora nella pancia della mamma, decise di iniziare a costruirsi una vita in quel nuovo paese. O almeno ci prova. Mario contrae ingenuamente debiti su debiti, sicuro che riuscirà a pagarli in un futuro prossimo: compra un accogliente appartamento in periferia che affaccia sulla Superstrada 622, la licenza da tassista e un piccolo negozietto con un paio di fornelli e una manciata di sgabelli direttamente sulla strada: «Il posto non è importante, è il cibo quello che conta» - gli dice la moglie quando lui prova a scusarsi con lei per le condizioni della cucina. E il cibo è dannatamente buono, ma non basta a ripagare i debiti. Il respiro delle banche e dei creditori continua a farsi sempre più asfissiante, sempre più vicino: impauriti dalle tensioni oltreoceano rivogliono i loro soldi al più presto, prima che quei soldi diventino carta straccia. In un modo o nell'altro se li riprendono e così la piccola attività di famiglia viene ipotecata e gli avvisi di sfratto si impilano l'uno sull'altro, straripano dalla cassetta della posta; finché i tre si vedono costretti ad impacchettare la poca roba che hanno e cercare un appartamento ancora più piccolo agli angoli più remoti della città, ma l'unica garanzia è la licenza di Mario che così cerca, giorno e notte, la speranza di qualcosa più alla portata delle sue finanze su un vecchio iPod preistorico agganciato ai bocchettoni dell'aria condizionata del suo prezioso taxi.
«Hola!» - sobbalzo sul sedile e picchio la testa sul tettuccio.
Quello inizia a sciorinare una serie di frasi ad una velocità inaudita. Provo ad inserirmi tra una di queste per chiedergli di rallentare cosicché possa capire anch'io ma noto che neanche mi sta guardando. Osservo meglio e vedo un auricolare grigio ben nascosto nella cuffia dell'orecchio e un cercapersone incastrato sotto la cintola. Mi chiesi quante radiazioni ci stavano colpendo in quel preciso istante e come facesse a star dietro a così tanti dispositivi elettronici nello stesso momento.
Il termometro sul display della radio indicava trentatré gradi. Alle tre di notte. Pazzesco.
La pelle iniziava ad incollarmisi a quella nera dei sedili e temevo che se avessi passato un altro minuto in quel forno sarei diventato un tutt'uno con gli interni di quella Hyundai. Iniziai a slacciarmi la collottola della camicia e a pregare che il viaggio finisse al più presto, e qualcuno chissà dove deve avermi sentito perché il taxi si ferma e l'uomo si volta verso di me con fare ammiccante «Su destino señor». Poi estrae un terzo telefono dalla tasca dei pantaloni ed inizia a messaggiare fitto con la moglie o con un'amante, a giudicare dalla spropositata quantità di cuori.
Salto fuori dal taxi indeciso se baciare la terra o se spogliarmi nudo in cerca di un po' di frescura.
Quello ripartì a razzo schizzandomi della ghiaia sulle scarpe.
Il mio appartamento: il 4B.
Un cubicolo, scommetto tutt'altro che accogliente; un'unità abitativa al terzo piano di un palazzo di sette. Niente ascensore, ovviamente; solo una grossa ed ingombrante scalinata di cemento e calcestruzzo. Un pugno in un occhio, ma non mi lamentavo: era pur sempre esercizio fisico e ne avevo dannatamente bisogno.
Infilo la chiave nella toppa ma la mia testa si ritrova a guardare a sinistra: un cielo senza stelle, un mostruoso parcheggio verticale, qualche grattacielo che faceva capolino sullo sfondo e un paio di pini a colorare.
In un angolino, un'insegna rossa al neon brillava a scatti.
Il ronzio di una lampadina ad un passo dall'esaurimento.
La mia mano si ritrovò chissà come e chissà perché ad aprire la porta a vetri di quel bar notturno.
L'atmosfera non era delle migliori, ma me l'ero immaginato: i più restii al sonno ciondolavano la testa ad un pelo dal legno ammuffito del bancone. Altri sonnecchiavano in equilibrio sugli sgabelli con le braccia incrociate. Il barista, un giovanotto dagli occhi a mandorla, mi chiese cosa bevessi ed ordinai un gin e qualche oliva nera, se le aveva.
«A che ora chiudete?»
«Non si preoccupi» - rispose dopo avermi squadrato per bene. Poi mi lasciò un bicchiere ed una ciotolina sotto il mento e riprese a strofinare con un panno lurido i bicchieri usati.
Mi chiesi se non avessi fatto un errore ad entrare.
Mi alzai le maniche della camicia e le arrotolai poco sotto le spalle. Roteai un paio di volte il braccio sinistro; il bicipite mi dava ancora il tormento.
Uno starnuto mi fece scattare di lato.
Un uomo evidentemente fuori posto in una bettola del genere raschiò su col naso e tornò a leggere il giornale. Un articolo sull'indipendenza di Hong Kong trionfava in prima pagina.
Indossa un polverino stropicciato di cotone egiziano, abbinato ad un fedora dello stesso color kaki; mocassini neri lucidi e un paio di occhiali da sole appesi al bavero di una camicia striata.
Non si può certo dire che non abbia stile: sembra un investigatore privato in uno di quei polizieschi in seconda serata. Troppo bravo per giocare secondo le regole.
Se ne stava raggomitolato dietro una vecchia edizione del quotidiano cittadino.
Ma che senso aveva leggere notizie passate?
Le pupille cineree si muovevano fulminee da sinistra a destra.
«Bel tatuaggio» grugna alle mie spalle un uomo con una lunga barba sudata.
«Grazie» rispondo sovrappensiero.
I vetri del bar tremolarono per il passaggio del treno. Qualcuno tossì. Qualcun altro si destò dal sonno stupito, subito demandando altro alcol.
«Aspetta... - dico con un filo di voce – Quale tatuaggio?!».
La mia testa scatta per l'ennesima volta verso sinistra e quello che i miei occhi videro sul mio bicipite mi colpì non poco: tra rigonfiamenti violacei e filamenti di sangue incrostato si intravedeva il piccolo tatuaggio di una panchina.
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