6. L'Assassino e il Sultano



«Si può sapere dove ti eri cacciato, piccolo incosciente?» tuonò la stridula voce di un eunuco, non appena ritornai nella piccola stanza, ovvero il retro del palco. L'uomo mi prese per il braccio, furioso, agitandosi talmente tanto che le monetine intorno al suo turbante tintinnarono rumorosamente. «Hai la minima idea di quanto tempo sia passato?!» mi trillò nelle orecchie. Alzai le mani in segno di resa.

«Non mi sentivo pronto, tutto qui.» inarcai le sopracciglia in un'espressione profondamente intimidita, una che rasentava pura angoscia. «Ora sto meglio.»  Espirai, come per buttare via tutte le preoccupazioni di un candido giovane che stava per perdere la verginità con l'uomo più potente dell'Impero: l'affascinante Sultano. L'eunuco mi diede una pacca sulla spalla.

«Va bene.»  si rassegnò in tono esasperato. «Ma ora andiamo!» mi redarguì.

In pochi secondi mi ritrovai in un'enorme sala da bagno. Era completamente ricoperta di raffinati mosaici blu oltremare, verde acqua e celeste pastello, intervallati da piastrelle bianche e piante verdeggianti. Un corteo di vergini dalle limpide vesti bianche mi fu addosso. Mi spogliarono e strofinarono con una tale violenza che pensai avrebbero potuto staccarmi la pelle dal corpo. Immediatamente dopo, fui nell'enorme vasca d'acqua calda e subito un delicato aroma di lavanda mi avvolse la pelle. Ma non mi trattenni neanche cinque minuti che subito mi ritrovai fuori, dove almeno una ventina di mani mi passarono asciugamani e mi strapparono ogni singolo e minuscolo pelo del corpo. Non ne avevo neppure bisogno avendone pochi e biondi, ma questo non le fermò dal protrarre a lungo la tortura.

Una volta finito mi cosparsero di oli profumati e mi lasciarono riposare i capelli umidi in una maschera ai fiori d'arancio. Quando fui completo, mi diedero il tocco finale passando una linea di kohl dorato sulla palpebra - ovvero una pasta colorante fatta con limone e grafite scaldati su un braciere - e infine uno spruzzo di un qualche succo rosso sulle guance. Per un attimo l'odore di quel composto mi parve molto familiare, troppo familiare, ma non appena iniziarono a vestirmi, me ne dimenticai all'istante. Mi costrinsero ad indossare soltanto un paio di pantaloncini a sbuffo di chiffon celeste, per altro trasparenti, un lampante invito.

Spogliami. Quella frasetta mi si era appiccicata addosso insieme all'olio profumato.

Arrossii. «Ma non sono un po' troppo... svestito?» balbettai, questa volta senza recitare la parte del verginello imbarazzato: la mia dignità, già perduta durante l'asta nel ballo dell'Orchidea, ora strepitava per farsi rispettare. Una serva mi adocchiò, sorridendo.

«Cosa pensi debba fare con te, il Sultano?» lo cantilenò col tono di chi voleva far capire che certamente non avremmo giocato a dama. Mi corrucciai con una leggera smorfia: aveva ragione.

«Sei pronto.» conclusero, soppesandomi con un'ultima occhiata attenta. Non mi avevano eccessivamente ingioiellato com'era solito fra i membri della corte, immaginai pensassero potessero dare fastidio durante... Avvampai di nuovo. Non ero pronto affatto, dentro di me, ma volente o nolente permisi loro di sistemarmi un velo azzurro sulla testa per poi condurmi fino alle stanze del Sultano. Il corridoio sembrava infinito, attraverso quella patina di stoffa davanti alla faccia. Il rumore del piccolo corteo di servi intorno a me era scandito solo dal battito feroce del mio cuore.

La camera da letto era gigantesca e c'erano specchi ovunque. I mobili erano di mogano scuro raffinatamente intarsiato in motivi a stelle, i pavimenti erano coperti da tappeti variopinti e c'erano lanternine di bronzo sparse un po' ovunque. Altre schiere di serve si affaccendarono per accenderle, spargendo poi petali di fiori in terra.

Ciò che più spiccava nella stanza era l'enorme letto a baldacchino. Non aveva nulla a che vedere con quello che pensavo fosse il mio sfarzoso talamo nella Fortezza dell'Assassino. Era gigantesco, tanto che pensai potesse contenerci almeno cinque persone; legno scuro rifinito da dettagli d'oro si allungava in una forma tondeggiante, a cerchio, come la luna; il tutto nascosto da veli completamente intessuti di fili di perle. Emisero un suono soave quando li scostai e mi adagiai proprio al centro del letto, accarezzando la seta delle lenzuola. Poi la servitù si congedò augurandomi buona fortuna per lasciarmi, a mio malincuore, completamente solo. Cercai di mandare giù un nodo stretto nella gola. Guardai le finestre, chiuse da persiane di legno traforato in motivi a stelle. Potevo sempre fuggire, ma... non era nei miei piani.

Attesi qualche minuto ma del Sultano, neanche l' ombra. Attesi ancora. Cinque minuti. Dieci minuti. Il tempo passava, ma non arrivava ancora. Iniziai a giocherellare nervosamente con uno dei fili di perle che scendevano dal baldacchino. Lo arrotolai seguendo la forma dell'indice, giocherellandoci distrattamente finché non si spezzò spargendo coralli bianchi su lenzuola candide. Mi salì un'imprecazione sulle labbra. Una risata calda e suadente mi colse alle spalle. Sussultai.

«Non preoccuparti, succedeva anche a me.» esclamò il Sultano. Era stato silenzioso come un felino, non lo avevo sentito neppure arrivare e sapevo che era anche per colpa dei tappeti. Mi voltai verso di lui, fissando i bei lineamenti stranieri attraverso il velo che mi copriva il viso. Arrossii per la terza volta, sperando che non avesse sentito l'improperio che avevo sibilato fra i denti qualche secondo prima.

«Voi sapete parlare la lingua comune?» Fra tutte le cose che potevo domandargli, fu quella la prima che mi venne in mente. Si sedette sul letto, accanto a me.

«Certo, altrimenti come potrei parlare con i funzionari degli altri regni?» rispose, prendendo i lembi del velo azzurro davanti al mio volto. «Mi scuso per il ritardo, ma una terribile faccenda mi ha trattenuto più del dovuto.» continuò, mentre il suo accento esotico, morbido e arrotolato come le fusa di una tigre, mi accarezzava le orecchie. Mi trattenni dal ghignare: immaginai che la terribile faccenda fosse proprio l'omicidio del Gran Visir. Una terribile perdita.

Mi scoprì il viso con una lentezza estenuante, quasi volesse godersi il momento, gustarsi l'attesa ancora per un po'. Poi, quando i suoi occhi color smeraldo incontrarono i miei, un rossore rivelatore mi ruggì sulle guance. Venni colto dal ricordo di un paio di profondi occhi blu, come se si accostassero perfettamente alla situazione che stavo vivendo ora, ma scacciai velocemente il pensiero. «Sei ancora più bello visto da vicino.» osservò, sfiorandomi dolcemente una guancia con la punta delle dita. «Come hai imparato a ballare così bene?» Abbandonai la mia guancia sul palmo della sua mano, come un gatto in cerca di coccole.

«Immagino sia tutto merito degli eunuchi, Vostra Altezza.» risposi, senza poter raccontare dei miei duri allenamenti da assassino. Le labbra carnose del Sultano si piegarono in un sorriso calmo.

«Non ne sono così sicuro.» rispose, scostandomi una ciocca dorata dal viso. «Qual è il tuo nome?» chiese con voce melliflua, senza smettere di accarezzarmi un attimo. Rimasi per qualche secondo in silenzio. Non l'avevo detto ancora a nessuno perché non c'era motivo di chiedere ad uno schiavo la propria identità, che in automatico era come se la perdesse. Non potevo usare Valentine, il mio nome da nobile, sapendo che rischiavo di essere rintracciato in tal modo. Pensai al primo nome a portata di memoria e mi venne in mente quello del protagonista del libro drammatico che avevo letto e riletto durante il viaggio.

«Mi chiamo Joy, signore.» replicai. Joy, nella lingua comune gioia. Lui rise, richiamando un po' il rilassante suono dello scroscio delle fontane, nei giardini.

«Gradirei che non mi chiamassi con tutti questi titoli onorifici.» Fece scorrere le dita affusolate sul mio petto nudo. «Solo Selim.» mi sfiorò lo zigomo con le labbra, in un bacio appena accennato.

«Sapete che non posso.» ribattei, socchiudendo gli occhi e rabbrividendo. «Sono solo uno schiavo.» Notai una scintilla di dolore lampeggiargli negli occhi.

«Io odio la schiavitù.» mi rivolse un sorriso addolorato. «Desidero così tanto abolirla...» Strabuzzai gli occhi, completamente basito, poi allargai le labbra in un sorriso che per una volta non aveva ragione di esser finto. Quell'uomo era davvero il figlio di una donna gelida come la Valide?

«Potreste sempre farlo.» dissi, in uno scatto d'audacia inaspettata. Uno schiavo non doveva neanche sognare di poter osare fino a dove avevo fatto io. Mi accarezzò la testa, con una faccia inspiegabilmente abbattuta.

«Non è così facile. La schiavitù è radicata nel sistema gerarchico e nelle fondamenta di questo regno. Non avrei l'approvazione dei miei funzionari e rischierei di dar vita ad una guerra civile con i piani alti.»  iniziò, come se fosse anche lui schiavo di qualcosa di più imponente del titolo di "Sultano". Allontanò rapido la tristezza dal volto. «Ma non voglio trattare questi argomenti delicati. Non stasera, Joy.»  Sorrise. «In fondo, oggi è il mio compleanno.» Mi sfiorò le labbra con il pollice, facendomi rabbrividire. «E voglio festeggiarlo al meglio.»

Si allungò verso di me, facendo scorrere le mani sulle mie braccia nude. Solo in quel momento mi ricordai di indossare un misero paio di pantaloncini. Mi strinse le mani intorno ai fianchi spingendomi ad avvicinarmi a lui e, con un rapido sguardo, si fiondò su di me.

Usando le labbra, la lingua e i denti conquistò la mia bocca. Un sapore di spezie e qualcosa di incredibilmente piccante mi colse alla sprovvista, facendomi affondare ancora di più nelle labbra vellutate del Sultano. Liberai i suoi riccioli corvini dal turbante lasciandolo cadere da qualche parte, intrecciando le dita fra i morbidi capelli e stringendo le braccia intorno al suo collo. Mani ambrate mi accarezzarono il petto provocandomi dei piacevoli sussurri, finché non arrivò all'elastico dei pantaloncini. Mi staccai dalle sue labbra, piegando la bocca in un lieve sorriso.

«Siete ancora tutto vestito, Vostra Altezza.»

Mi rispose leccandosi le labbra. Mi invitò a spogliarlo e se dapprima gli tolsi delicatamente i vestiti, dopo venni colto dalla foga, facendo sparire pantaloni, giacca, camicia, finché anche lui non rimase in intimo. Passai le mani sul petto asciutto e leggermente scuro del Sultano. Quando i nostri toraci si toccarono, sospirai per il desiderio.

«Siete così caldo.» mormorai, incollandomi ancora di più a lui.

«E' il sole del deserto.» rispose marcando sulla s col suo piacevole accento, rendendo la frase in qualche modo seducente. La sua bocca scivolò lungo il mio corpo, leccando la pelle per poi seminare piccoli morsi. Sentii un desiderio irrefrenabile pulsarmi fra le gambe e con movimenti rapidi ed efficienti, il Sultano tolse l'unico indumento capace di coprire la prova della mia eccitazione. Gemetti. Avvicinò le labbra al mio orecchio, mentre prendeva fra le mani la mia intimità.

«E' la tua prima volta, non è vero?» Mi chiesi da cosa potesse averlo capito e non servii nemmeno annuire, il rossore sulla faccia mi tradì. C'erano stati tanti baci, nella mia vita, sguardi languidi e carezze lascive, ma il traguardo più erotico verso cui mi ero spinto era quello scambio di piacevolezze in carrozza con Yul. Maledizione, non volevo pensare a lui in un momento come questo. «Mettiti carponi, sarà più facile così.» mi ordinò, con un bisbiglio dolce come il miele.

Obbedii girandomi dall'altra parte, mettendo ginocchia e mani sul letto e aprendo poi le gambe, col cuore che palpitava di vergogna e timore, sentimenti ben ovattati dal desiderio crescente che quell'uomo splendido accendeva in me. Il Sultano afferrò una piccola ciotola d'olio alla lavanda lasciata sul comodino dalle serve, intingendo le dita. Rimase un attimo a guardare il mio corpo, deliziato.

«Fatelo.» lo pregai, nascondendo abbastanza bene la paura mentre aprivo ancora di più le gambe, senza sopportare di non essere toccato.

«Selim.» Mi corresse. «Fallo, Selim.» ripeté, con un sorriso suadente, leccandosi le dita oliate.

«Fallo Selim...» mi arresi, stringendo gli occhi e deglutendo. Le sue mani si posarono sulle mie natiche, massaggiandole prima con dolcezza, poi con più ferocia. La mia testa scattò in alto quando mi penetrò con un dito, strappandomi un gemito improvviso. Era sensazione strana, fastidiosa quasi, eppure al tempo stesso piacevole.

«E' stato davvero difficile nascondere il desiderio mentre ballavi su quel palco.» svelò, infilando un altro dito, muovendo ritmicamente la mano. Gemetti ancora, spingendomi contro le sue dita, tremante. «E quando ti ho scelto... Avrei voluto prenderti lì, davanti a tutti.» Aggiunse un terzo dito, incrementando i movimenti di polso, che diventarono più rapidi e veloci man mano che andava avanti. Mi morsi le labbra, ansimando forte, col fastidio che ormai era sparito, sostituito da un formicolio piacevolissimo.

Poi tolse le dita con un gesto secco, provocando un mio lamento. «Mi dispiace, Joy, ma non posso più aspettare.» sentii qualcosa di caldo e umido premere contro il mio cerchietto di muscoli e scivolare lentamente dentro di me. Strinsi le lenzuola nei pugni, sentendo gli occhi pungersi di lacrime.

«Fa... Male.» ansimai, mentre quella sensazione strana si intensificava. Era come sentirsi riempiti e in qualche modo stretti.

«Scusami, Joy.» E prima ancora che potessi capire cosa stesse succedendo, due braccia scure e calde mi avvolsero la schiena, dolcemente. La punta del naso scivolò come una carezza lungo la mia colonna vertebrale. Rimase dentro di me senza muoversi. «Non volevo essere così brusco.» Per un attimo rimasi in silenzio, sbigottito dalla sua dolcezza, poi mi lasciai andare ad un sorrisetto, anche se una smorfia di dolore mi tradì.

«A volte... E' meglio andarci pesante che troppo piano.» Ma io ero abituato a sopportare il dolore e così mi spinsi contro di lui, gemendo. Sorrise.

«Mi stai dando il tuo permesso?» Spinse, con un movimento fluido.

«Può... aah!» ansimai rumorosamente. «.. darsi.»

E allora il Sultano si abbandonò alla passione allontanando ogni scrupolo. La stanza fu pervasa da gemiti, grugniti e dal rumore dell'incontro delle nostre carni. Assecondai i suoi movimenti: dentro e fuori, fuori e dentro. Il dolore si sostituiva col piacere e la frizione dei nostri corpi era aiutata dall'olio alla lavanda che mi aveva spalmato su tutta la zona.

«Selim... mmh..» mugugnai il suo nome, con la mente offuscata dal desiderio. Più a fondo. Più veloce. Ne volevo di più. Il Sultano si aggrappò ai miei fianchi, assecondando i miei pensieri e spingendo con più vigore, senza fermarsi.

«Sì!-» si lasciò andare ad un gemito lussurioso. Fui attraversato per tutto il corpo da brividi intensi e dopo pochi attimi cedetti, sconquassato da un piacere così intenso che credetti di toccare le stelle con un dito. Udii il Sultano grugnire, mentre anche lui veniva scivolando fuori dal mio corpo.

Ci accasciammo sul letto, piacevolmente soddisfatti. Mi tenne stretto fra le braccia, teneramente; le mie spalle sentivano la dolce pressione del suo petto.

«Per essere la tua prima volta, sei stato molto bravo.» disse e non in modo malizioso, ma con la vera intenzione di farmi un complimento. Sorrisi e arrossii insieme. Quella era davvero la mia prima volta ed il fatto che l'avessi buttata al vento per un lavoro che il Re degli Assassini mi aveva assegnato, quasi mi fece digrignare i denti. Eppure, sentendo quel corpo bollente come il clima torrido e soleggiato del deserto, scolpito contro di me, ne fui sinceramente felice.

«Avete fatto tutto voi, Altezza.» risposi, con un filo di voce. Si strinse ancora di più a me. Avrei apprezzato quel contatto fisico, se solo non avesse fatto così caldo.

«Dimmi, c'è qualcosa che ti piace?» mi chiese, con un tono mieloso. Risposi di getto, dimenticandomi completamente di recitare, come se con quell'uomo fosse difficile e naturale invece essere se stessi.

«Le armi.» esclamai, sentendo subito il bisogno di darmi uno schiaffo. Era come se la dolcezza dell'Imperatore mi invitasse a non giocare sporco. Come se lui rendesse tutto il mio comportamento, il mio obiettivo, la mia stessa ragione di vita, sbagliato. Aggrottò le sopracciglia.

«Come mai?» domandò, incuriosito. Risposi con la prima cosa che mi era venuta in mente, costringendomi a mentire.

«Mio padre era solito collezionare armi.» spiegai. Falso. «Io non sono assolutamente bravo a maneggiarle» Ancora più falso. «ma ho sempre pensato fossero belle da vedere.» Questo, almeno, era vero. Lo sentii sorridere.

«Ma chi sei veramente, Joy?» chiese, accarezzandomi i capelli. Un assassino, avrei voluto rispondere. Anzi, avrei voluto urlare. Ero fra le sue braccia solo perché uno di cui nemmeno sapevo il nome mi aveva chiesto di ammazzargli la madre in cambio di tanti soldi, che sarebbero automaticamente entrati nelle tasche di Alaister.

«Sono solo il figlio di un nobile caduto in disgrazia e venduto per saldare i suoi debiti.» Alzai le spalle. «Non è una storia interessante.» replicai. Questa ovviamente non era la mia storia. Quella vera era piena di morti e intrisa di sangue. E lui non l'avrebbe mai saputa.

Girò il mio volto verso il suo, baciandomi la fronte. «Mi dispiace.» sussurrò fra le labbra, con gli occhi colmi di dolore. Mi si strinse il cuore. Dovevo davvero uccidere la Valide? Dovevo davvero uccidere sua madre? «E adesso dormi, sarai stanco.» dichiarò, baciandomi la nuca. Poi mi addormentai fra le sue braccia, con un sorriso malecelato sulle labbra.

Quell'uomo mi piaceva.


***



Quando mi svegliai, i raggi dorati del sole bollente di Costantinopoli mi scaldarono il corpo. Non appena mi mossi, il mio povero didietro ululò di dolore. Immaginai fosse per tutto il movimento che avevamo fatto quella notte e al solo ricordo arrossii dalla punta dei piedi a quella dei capelli.

La seconda cosa che ricordai fu la tradizione che veniva messa in atto subito dopo la notte passata col Sultano: corsi ancora tutto nudo verso il mio cambio di vestiti.  Era la semplice tenuta da concubino dell'harem, comprensiva di gilet e pantaloncini di velo a sbuffo. Cercai freneticamente nelle tasche e sorrisi quando le mie mani si avvolsero su un oggetto freddo e contundente.

Secondo la tradizione, il Sultano, appena prima di dirigersi ai suoi bagni personali, nascondeva fra le tasche dello schiavo con cui aveva passato la notte un dono, che in quel caso gli sarebbe appartenuto di diritto. Mi rigirai fra le mani il fodero d'avorio e d'oro, ammirando con occhi scintillanti lo splendido pugnale a mezzaluna che l'imperatore sfoggiava giusto la sera prima, nella sala del trono. Non potevo credere che mi avesse regalato proprio il suo pugnale. Mi aspettavo un gioiello, un gingillo inutile o uno di quei regali fatti tanto per fare, senza alcun significato. Ma questo... Risi, stringendomi l'arma al petto.

Quando feci il mio ingresso nella sala maschile dell'harem, una trentina di schiavi svestiti e stravaccati su cuscini di seta mi perforò con gli occhi. Deglutii, ostentando un sorriso falso. Un gruppo molto ristretto di loro e di alcuni eunuchi mi piombò addosso, coprendomi di domande.

«Com'è stato?» o «Cosa hai sentito?» o ancora «Com'era lui?» Tutti gli altri finsero di esaminare i cuscini con grande interesse, mentre sapevo che ascoltavano con attenzione ogni mia singola parola. Sorrisi, maligno.

«E' stato tutto fantastico.»  esclamai, con voce estasiata. Qualcuno strinse i pugni, altri mi rivolsero occhiate furenti. Ondate di invidia si innalzavano da ognuno di loro. La mia parte vanitosa gridò vittoriosa.

Mi recai verso il mio lettino, impettito e trionfante, cercando di non camminare per colpa del dolore con le gambe divaricate. Poi mi adagiai sui cuscini, liberando dalle tasche il pugnale, giusto per il gusto di rimirarlo ancora. Ad un certo punto il moro a cui avevo parlato il giorno prima fece un verso di scherno, schioccando la lingua.

Sapevo che stava per fare un'osservazione sprezzante e fastidiosa, così come sapevo che avrei rischiato di saltargli addosso, desideroso di collaudare quel bel pugnale. Ma improvvisamente le grosse porte dell'harem si aprirono e il silenzio piombò prepotentemente fra i presenti.

Alcuni si misero in pose succinte e provocanti, altri rimasero a fissare l'uomo a bocca spalancata come se non l'avessero mai visto così da vicino, ed effettivamente era proprio così. Ma il Sultano non guardava nessuno di loro. Percorse a passo felpato quei pochi metri che lo separavano da me e mi raccolse il volto fra le mani, quasi fosse stato un fiore tropicale del suo giardino. Nessuno fiatò, neppure io.

«Vieni con me.» mormorò, chinandosi sul mio viso mentre qualche ciocca di capelli color mezzanotte gli ricadeva sulla fronte, ribellandosi al turbante. Mi trascinò fuori dalla sala per giungere alle sue stanze, chiudendosi la porta alle spalle e lasciando la scorta lì fuori.

Non riuscii a proferire parola, pieno di aspettative mentre i suoi occhi verde smeraldo mi fissavano. «Mi sei mancato.» disse, con dolcezza e una punta di desiderio, le mani intente a prendermi le gambe e a sollevarmi vicino al suo petto.

Gli circondai i fianchi con le cosce e, improvvisamente risvegliato da quello stato di torpore, ricambiai il bacio che mi premette sulla bocca. Quando le nostre labbra si toccarono mi lasciai andare ad un sospiro bramoso: feci scorrere le mani sulla sua schiena e poi fra la sua riccioluta chioma, che liberai dal solito turbante; la sua lingua mi accarezzò il palato, perlustrando centimetri della bocca senza lasciarmi fiato. Ansimai, riprendendo aria e tornando poi a concentrarmi su quel bel viso e sul sapore speziato dei suoi baci. Quel suo profumo di incenso e sandalo mi invitò a baciarlo e toccarlo di più. Si staccò da me giusto respirare a fondo, senza smettere di esaminarmi coi suoi occhi brillanti.

«Non mi piacciono questi vestiti.» disse, baciandomi il collo e toccandomi il petto nudo sotto il gilet aperto. «Troppa pelle scoperta.» dichiarò, succhiandola all'altezza delle clavicole, cosa che mi portò a rabbrividire e ad inarcare la schiena come un gatto. Incominciò a stuzzicarmi i lobi delle orecchie, leziosamente, dando il via a tante piccole scosse elettriche che si concentravano in basso, fra le cosce, nel punto nevralgico del mio piacere.

«Fermati.» ansimai. «Prima che il mio corpo faccia qualcosa di cui non sono responsabile.» bisbigliai al suo orecchio. Il Sultano rise, con gli occhi colmi di desiderio, e si staccò da me, provocandomi un lamento tutto dovuto alla mancanza di quelle mani roventi come la pietra porosa del suo palazzo sotto al sole del mattino.

«Mi piacerebbe molto continuare.» mi diede un delicato bacio sulla guancia, che nulla aveva a che vedere con quelli che mi aveva rubato poco prima. «Ma è mio dovere prendere parte ai riti funebri per il Gran Visir.» dichiarò, con la solennità degna di un capo. Mi misi le mani sulla bocca, falsamente sorpreso.

«Il Gran Visir è morto?!» Strabuzzai gli occhi. «Ma è terribile!» esclamai incredulo. «Com'è possibile?!» Sul viso di Selim trasparì una smorfia turbata.

«E' successo ieri, proprio dopo la festa.» Raccolse il turbante dal tappeto intrecciato, rimettendoselo sulla testa con un gesto elegante ma di routine, per nulla calcolato. «A dir la verità, non sono molto dispiaciuto per la perdita. Non è mai stato un uomo degno del mio dolore.» rivelò. «Ma spero che questo non mi dipinga ai tuoi occhi come una persona crudele.» Scossi la testa, sollevato. Quindi non ne era dispiaciuto, non gli avevo fatto un torto. Mi sentii all'improvviso meno agitato.

Gli presi una mano. «No,affatto.» Gli sorrisi, sincero. Mi accarezzò la testa, con le sue grandi mani, sottili e scure. Poi si recò verso la porta, pronto ad uscire.

«Farò registrare i nostri due incontri.» disse, voltandosi verso di me. «Adesso sei ufficialmente il mio Kadin, e potrai venire nelle mie stanze tutte le volte che vorrai.» concluse, con una punta di malizia. Poi sparì, chiudendosi la porta alle spalle.

Secondo gli usi del palazzo, uno schiavo maschio aveva il diritto di diventare Kadin dopo aver avuto più di un incontro col Sultano, cosa che mi era appena successa. Dopo esserlo diventato, si otteneva una scorta e delle stanze personali con tanto di servitori e eunuchi al seguito. Acquisivo anche una certa importanza. Mi appoggiai alla porta, sorpreso. Kadin. Lo sposo semi-ufficiale dell'Imperatore. Era stato tutto incredibilmente veloce, ma il piano andava a gonfie vele.

Quando qualche ora dopo mi presentarono un gruppo di guardie che mi avrebbe fatto da scorta e uno stuolo di serve personali, non mi parve neppure vero. Mi condussero nelle mie nuove stanze, ricoprendomi di elogi e congratulazioni. Le camere erano davvero bellissime. Non immense come quelle del Sultano, ma comunque imponenti. Le pareti di un caldo color arancione mi ricordavano i tramonti sul deserto e le volte alte e coperte di finestre mi permettevano di guardare il cielo, mentre i pavimenti rivestiti di tappeti mi concedevano di sedere a terra senza avvertire la durezza della pietra.

Non ci pensai due volte a gettarmi sul letto circolare a veli con un bel tonfo. MI girai a pancia in su, scrutando il cielo limpido dalle finestre sul soffitto. Sospirai. E se fossi rimasto lì per sempre?

Sarei stato servito e riverito, riconosciuto come il marito del personaggio più importante del Regno e soprattutto, non mi sarei mai più dovuto sporcare le mani di sangue. Non avrei mai più dovuto temere le guardie reali, né vivere nel terrore di essere catturato. Non avrei mai più dovuto preoccuparmi del giudizio di Alaister, così come non avrei mai più bisticciato con quello scemo di Yul... Storsi le labbra.

Certo, sarei comunque stato uno schiavo rinchiuso nel palazzo imperiale e il Sultano avrebbe avuto qualche altro marito e qualche altra moglie, ma quelli erano dettagli secondari. Scossi furiosamente la testa e mi alzai dal letto, sporgendomi oltre la finestra accanto. Costantinopoli si ergeva colorata tutt'intorno al palazzo e ancora più infondo si intravedevano le dune del Deserto Rosso. Aguzzai la vista, guardando oltre, oltre quella città color tramonto, oltre le sabbie bollenti, semplicemente oltre, verso l'orizzonte.

Ero uno spirito libero, non potevo rimanere per sempre in una gabbia dorata. Inoltre, dovevo ancora pagare tutti i miei debiti col Re degli Assassini che, prima o poi, avrebbe mandato qualcuno a riscuotere.

E, cosa ancora più importante, avevo ancora un conto in sospeso col passato.


***


«Posso aprire?» esclamai, con un sorrisetto dispettoso, sentendo le mani calde del Sultano sugli occhi chiusi.

«No, non ancora.» mi riprese lui, che camminava alle mie spalle, con un tono teneramente scherzoso. «Attento, c'è un gradino.» avvisò, indirizzandomi nella giusta direzione, ma senza scoprirmi gli occhi.

Erano passati cinque giorni da quando ero stato nominato Kadin e non ero ancora riuscito ad incontrare né il Sultano, né la Valide. Non avevo visto neppure i membri dell'harem e, come constatò la mia parte vanitosa, fu un vero peccato non poter sfoggiare il mio nuovo titolo davanti a loro.

Giorni dopo, ero finalmente riuscito a rivedere l'Imperatore e, per qualche motivo, mi ero ritrovato a camminare con gli occhi coperti per il giardino del palazzo.

«Allora, posso sapere dove mi state portando?» mi impuntai, ridacchiando.

«Te l'ho detto, è una sorpresa!» ribadì.

«Ma quanto manca?» domandai ancora, con un tono volutamente impudente. Sospirò, piacevolmente esasperato dal mio comportamento.

«Siamo quasi arrivati, abbi solo un po' di pazienza.» Facemmo ancora una decina di passi, poi sentii sulla pelle il cambiamento d'aria, come se fossimo passati in una stanza chiusa. Improvvisamente udii un tanfo. Arricciai il naso e alle orecchie mi arrivò un verso, un nitrito, per la precisione. «Ecco, mi ha rovinato la sorpresa!» esclamò il Sultano, e non verso di me. Mi liberò le mani dagli occhi. «Puoi aprire.» Sorrise.

Mi guardai intorno, capendo al volo di trovarmi in una stalla. Non era esattamente un posto romantico, ma pazienza. Lo guardai, interrogativo. Il Sultano inclinò la testa e io seguii quel movimento fino ad un box aperto. Mi sporsi per guardare, curioso ed aprii la bocca affascinato.

Dentro, un cavallo alto e più grande di tutti gli altri mi scrutava con gli occhi blu agitando la criniera dorata. Era una creatura affascinante: aveva un manto bianco come la neve, la coda e la criniera color oro acceso, e due occhi color notte che mi fecero ricordare un certo assassino antipatico di mia conoscenza. Ultimamente mi ritrovavo a pensare un po' troppo a lui. Mi voltai verso il Sultano, incantato. Quello non era un semplice cavallo.

«E' un Harpax!» Avevo sentito parlare degli Harpax, ovviamente. La più antica razza di cavalli mai esistita. Secondo la leggenda, erano stati plasmati dagli dei con quattro venti: la velocità del Nord, la forza del Sud, la bellezza dell'Est e la saggezza dell'Ovest. Il tutto mescolato nella meravigliosa creatura dal muso affusolato e dalla fluttuante coda di fronte a me. «Non ho mai visto nulla di così bello.»

«E' una femmina, si chiama Driahzel,  che significa vento dorato.» spiegò Selim, passando lo sguardo da me al cavallo. Lei sbuffò e batté a terra gli zoccoli, fissandomi con occhi che sembravano più antichi della Terra stessa. Capii immediatamente perché gli Harpax valessero tante monete d'oro quante pesavano. Mi avvicinai a Driahzel sussurrandole parole dolci e accarezzandole il muso.

«L'ho comprata perché mi ha ricordato molto te.» disse, con dolcezza, accarezzandomi il viso. «E' un dono per te, ovviamente.» spiegò. Strabuzzai gli occhi. Non potevo, era... Troppo. Rimasi per qualche minuto in silenzio, accarezzando la cavalla e lasciandomi accarezzare al contempo dal Sultano.

«Perché mi regalate un cavallo, Vostra Altezza?» lo fissai intensamente, incapace di capirlo. «Sapete che non posso uscire dal palazzo, quindi... Perché? » Ero davvero incuriosito. Lui si zittì per qualche attimo, guardando nel silenzio la giumenta, che fremeva dal desiderio di correre.

«E' per quello che mi hai detto un po' di giorni fa.» rispose con un' espressione triste. «Non voglio che tu sia uno schiavo.» Strinse un pugno. «Non voglio che tu sia costretto a rimanere con me.» continuò, lasciandomi a bocca totalmente spalancata. Non mi preoccupai di nascondere lo sbigottimento. «Volevo solo che tu sapessi che un giorno, magari, potresti sempre prendere il cavallo più veloce del mondo e fuggire.» Tornò ad accarezzarmi una guancia. «Voglio che tu goda della mia presenza con consapevolezza, senza costrizioni.» Sorrise. «E vorrei che tu rimanessi con me solo perché lo vuoi.» Ero senza parole. Forse la parte di me, nascosta nel profondo, quella ancora genuina, quella che non aveva avuto contatti con il sangue e il dolore, si svegliò, ma solo per un secondo.

Improvvisamente arrivò un servo, trafelato. «Vostra Altezza.» Si inchinò. «Il consigliere del regno delle Terre Piane è già arrivato e vi sta aspettando.» Il Sultano tornò ad essere diligente e responsabile.

«Riferitegli che arrivo subito.» esclamò. Si voltò a guardarmi e il suo viso si addolcì. «Pensa a quello che ti ho detto.» Poi sparì, seguendo il servitore, senza che io proferissi parola, troppo scioccato per dire qualunque cosa.

Sentii una sensazione amara nella gola. Avevo davvero il coraggio di uccidere sua madre? Avevo davvero il coraggio di sedurlo e poi abbandonarlo? Per la prima volta in tutti i miei anni da Assassino, la mia determinazione vacillò, davanti ad una scelta così meschina.

Quando giunsi nel corridoio, pronto a ritornare nelle mie stanze, presi un profondo respiro cercando di combattere quella sensazione di sbagliato che mi stava appiccicando la pelle, strofinandomi ripetutamente le braccia. Mentre camminavo sulla via dei miei appartamenti, a testa china per i troppi pensieri che mi affollavano la mente, capace solo di fissarmi le scarpe di seta celeste dalla punta arricciata, il mio istinto d'assassino si risvegliò.

Alzai di scatto le pupille, incrociando un paio di gelidi occhi smeraldo. La donna continuò a puntare lo sguardo arcigno su di me finché non mi ebbe di fronte, qualche passo di formalità e sicurezza ad allontanarci, senza mai togliersi quell'espressione di temibile freddezza che le rovinava la bellezza. Mi inchinai, mettendo a frutto gli insegnamenti degli eunuchi.

«Onorato, ammirevole Sultan Valide.» esclamai, nella migliore delle intonazioni da suddito sottomesso. Rimase per qualche momento in silenzio, con un'espressione che interpretai come disgusto.

«Alzati.» esordì, la voce fredda tanto quanto quella del Re degli Assassini, ma meno elegante della sua. «Qui non ci si fa la riverenza in quel modo.» sibilò. «Non siamo al nord.» E mi lanciò una delle occhiate gelide che avevo ormai imparato ad incassare, ricevendola da Alaister Noir. Erano le prime parole che mi rivolgeva quella donna e già mi faceva venire voglia di farla fuori. Si voltò verso la sua scorta, infastidita. «Potete congedarvi.» ordinò perentoria.

Si inchinarono e sparirono senza dire una parola, come se avessero imparato a non contraddirla. Quasi mi facevano pena: obbligati a passare tutta la giornata con quella strega. «Anche voi.» ordinò al mio seguito. Strinsi i denti. Era la mia scorta e io decidevo cosa farne. Loro mi guardarono, titubanti.

«Andate.» replicai io. Apprezzai che non si piegassero agli ordini della donna. Una volta soli, gli occhi mi scintillarono, pronto a sentire qualsiasi cosa lei avesse intenzione di dirmi. Di certo non si trattava di quanto ero carino con la mia giacca nuova, ma non avevo nulla da temere. Lei piuttosto doveva pensarci due volte prima di cacciare le sue guardie, con me con un coltellino infilato nella scarpa.

Ci lasciarono soli in pochi minuti. Rimasi immobile, aspettandomi qualsiasi cosa. Mi rivolse un sorriso di ghiaccio. «Te lo dirò francamente.» Rizzai le orecchie. «Limitati a fare la bambolina.» Il suo sguardo era cupo come quello di un mio simile. Di un assassino. Sbattei le ciglia, aggrottando la fronte.

«Non capisco, che intendete dire?» chiesi, come se fossi uno di quei tipici sciocchi dal bell'aspetto e senza un briciolo di cervello. Avevo capito benissimo cosa intendeva: affianca il Sultano come una bella decorazione, ostenta la nostra ricchezza ma stai zitto e non intrometterti. E soprattutto non osare coinvolgere sentimentalmente mio figlio. Non badò alle mie parole ed iniziò a girarmi intorno, come quei serpenti che circondavano il topo prima di ingoiarlo in un sol boccone. Ma c'era una piccola differenza: io ero il serpente e lei il topo. Solo che ancora non lo sapeva.

«Sai, in questi giorni ho presentato a mio figlio delle ragazze perfette, pronte a fare qualunque cosa pur di diventare imperatrici.»  spiegò, con uno sguardo calcolatore. «E lui sai che ha fatto?»  Rimase in silenzio, senza aspettarsi una risposta, ma continuando da sola, come a recitare il suo studiato e perfetto monologo. «Le ha rifiutate, una ad una.»  I suoi occhi mutarono in qualcosa di spietato, ma solo per un attimo, poi il suo viso tornò ad una maschera implacabile. «Dicendo che uno schiavo come te gli bastava.»

Emise un verso di disprezzo. Gli occhi smeraldo del Sultano che tanto mi facevano battere il cuore, su di lei erano diventate delle semplici biglie di vetro. Fredde ed inespressive. Mi ero talmente concentrato sull'esaminarla, che non avevo neppure colto ciò che mi aveva detto. Quando lo capii, sentii un senso d'orgoglio misto a tenerezza gonfiarmi il petto, ma restai zitto, ancora irritato da quel "come te", sibilato come il peggiore degli insulti.

«Le ragazze possono essere piegate e manipolate con facilità.» Agitò una mano in aria. «Servono solo a generare figli.» mi illustrò il suo punto di vista senza vacillare. «Dopo, diventano soltanto inutili pezzi di carne.» Incredibile sentire parole del genere venire proprio dalla bocca di una donna, proprio da quella che era stata una schiava. Arrestò il passo incalzante che mi circondava e mi scoccò un'occhiata lunga e severa, che voleva farmi pesare sulle spalle come un macigno. Non ci riuscì.

«In sostanza, tu mi sei d'intralcio.»

E se ne andò in silenzio, con le spalle alzate senza voler sentire alcuna risposta, lasciandomi completamente solo. Non lo sapeva, ma anche lei mi era d'intralcio, un ostacolo davanti al mio ritorno a Skys Hollow. Inalai ed espirai profondamente, sentendo l'assassino dentro di me sveglio e bramoso di sangue: lui doveva ucciderla.

Lui voleva ucciderla.

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