5. L'Assassino e l'harem
*PRE NDA*
No, non è un nuovo capitolo, ho solo diviso il precedente in due parti vista la considerevole lunghezza. Buona lettura!
***
Il palazzo era meraviglioso, costruito da un vasto complesso di padiglioni, cupole e chiostri, con giardini e cortili pergolati. Quella tipica pietra gialla e porosa, base di tutte le costruzioni del regno, riluceva di una meravigliosa sfumatura dorata alla luce del sole e le varietà di fiori colorati e palme verdi rendevano l'atmosfera elegante ed esotica allo stesso tempo. Un odore di incenso mi accarezzò il naso e il lieve suono dello scroscio delle fontanelle mischiato alla lontana melodia di un'arpa mi invitarono a socchiudere gli occhi, cullato da una calmante sensazione soporifera.
La guardia mi fece strada verso una piccola porticina di legno che dava l'accesso ad una parte piuttosto nascosta del palazzo. Non ero solo. Nella stanza erano presenti almeno una dozzina di schiavi di tutti i tipi: bellissime fanciulle dai ricci rossi e fluenti o delicati ragazzi dai tratti eccentrici. Eravamo tutti piuttosto giovani, alcune ragazzine dovevano avere almeno quattordici anni, mentre la soglia massima d'età rasentava appena i venti, e tutti spuntavamo per qualche nostra caratteristica. Potevo dire di avere diversi rivali in bellezza.
Sarebbe stato davvero così facile sedurre il sultano? Scossi la testa. Nessuno poteva mettersi sulla mia strada.
Intanto, mentre aspettavamo l'arrivo di qualcosa o qualcuno nessuno s'azzardava a parlare; i più belli accennavano a lanciarsi sguardi torvi o sorrisetti d'avvertimento. Qualcuno mi fissò con evidente fastidio, convinto che potesse mettermi a disagio, invano. Diverse ore dopo finalmente, un uomo allampanato dalla pelle scura, tutto coperto da gioielli, turbanti e strati di seta, giunse per scortarci in una più ampia, con arazzi e pelli di tigre appesi sulle pareti. Ci spiegò che era un eunuco nero, uno di quelli che si incaricavano di sorvegliare, istruire e imbellettare gli schiavi dell'harem.
Una volta raggiunta la meta, rimasi impressionato dalle fauci spalancate delle belve usate come decorazione, sembrava che con i loro occhietti vuoti mi giudicassero. Qualche pianta e fontanella facevano da sfondo. L'uomo aprì una pergamena ed iniziò a leggere in diverse lingue qualcosa di simile ad un giuramento. «... siete ufficialmente diventate concubine e concubini.» concluse, ma io non gli avevo prestato grande attenzione. Sentii qualche ragazza singhiozzare. «E adesso giurate obbedienza alla grande Sultan Valide.» annunciò e tutti si fecero più curiosi.
Non sapevo cosa stesse per accadere, eppure mi drizzai sull'attenti più degli altri, sentendo così a bruciapelo il titolo del mio secondo obiettivo. Entrò nella stanza una splendida donna dalle fattezze seducenti. Doveva avere trentacinque, massimo quarant'anni, appena accennati sulle linee ai lati delle labbra: lunghi boccoli d'ebano le scivolavano sulle spalle, due intensi occhi smeraldo raggelavano la stanza e la pelle color crema s'abbinava in maniera incantevole all'insieme. Lei era la Valide, la madre dell'attuale Sultano.
Mi bastò guardarla negli occhi per scorgere una scintilla imperiosa e gelida. Portava un velo di seta rossa sul capo e diversi giri di fili d'oro intorno alla testa, alla gola, alla vita e agli arti. Non disse una parola ma ci squadrò stizzita, come se fossimo stati soltanto pezzi di carne. Scambiai un'occhiata con altri schiavi, incerto sul da farsi, poi uno ad uno si inchinarono ed io li seguii a ruota, riluttante. C'era qualcosa che proprio non mi piaceva in quella donna. Non mi sarebbe dispiaciuto ucciderla.
Lasciandoci solo quello sguardo d'inquietudine e velata minaccia, si dileguò in silenzio, così come era arrivata. Successivamente, dopo un'attenta divisione fra uomini e donne, ci portarono fino al cuore dell'harem: la sezione del palazzo in cui avremmo dovuto passare tutta la vita nella logorante attesa delle attenzioni del Sultano, finché non saremmo sfioriti, diventati inutili.
Ovviamente questo non valeva per me.
Poi, il mondo dell'harem si splancò davanti a me con l'apertura di portoni intarsiati in motivi a stelle. Ad una prima occhiata il luogo aveva un'atmosfera romantica ed intrigante, con bei giovani a torso nudo stesi su cuscini di seta, truccati e coperti di gioielli, intendi ad imboccarsi frutta e ad intrecciarsi fiori tropicali nei capelli. Ma sapevo che la realtà era ben diversa.
Anche ammettendo che per ragazzini o ragazzine di sedici o diciotto anni strappati alle loro famiglie l'accoppiarsi con un uomo spesso più vecchio di loro potesse diventare la massima aspirazione, ben pochi riuscivano a giacere con il Sultano e a divenire kadin - mi ero chiaramente informato, prima di giungere a Costantinopoli - ovvero sposi ufficiali.
Nel caso delle donne, ciò poteva avvenire se riuscivano a dar alla luce bambini, nel caso degli uomini invece, dovevano riuscire a passare più di una notte col Sultano, diventare abituali, ed era una scelta personale del loro padrone. La vita che si trascorreva nella gabbia dorata dell'harem, per quanto sontuosa, doveva essere estremamente monotona. Scommettevo che la mancanza di compagnia, la noia che aumentava a causa delle giornate tutte uguali alle altre, con pochissimi diversivi, favorissero sicuramente lo scaturirsi di relazioni tra concubine o tra concubini. Lo costatai subito quando al mio arrivo due tizi si staccarono velocemente, mascherando il loro desiderio davanti all'eunuco nero al fianco dei nuovi schiavi.
Spiegarono brevemente che l'harem maschile era situato tra le stanze del Sultano e l'alloggio del capo degli eunuchi neri; mentre per quello femminile valeva la stessa regola, ma erano più vicine all'alloggio del capo degli eunuchi bianchi. Vi si accedeva attraverso due porte che venivano chiuse al calar del sole e riaperte all'alba e il tutto era situato intorno alla residenza della Valide, che vagliava silente la situazione.
Questo poteva giocare a mio favore.
***
Il giorno dopo, quando mi svegliai sul soffice letto in cuscini di seta, per un attimo pensai di trovarmi ancora nella Fortezza dell'Assassino. All'odore speziato d'incenso e alla vista un'altra decina di ragazzi vestiti in modo succinto e coperti di gioielli nelle mie vicinanze, ricordai dove mi trovavo e quale fosse la mia missione. Sospirai.
Far parte di un harem non era proprio la mia massima aspirazione, ma era la copertura migliore che avessi. Ricordai improvvisamente l' ultimo avviso degli eunuchi neri: il compleanno del Sultano sarebbe stato fra soli tre giorni. Logico, il Re degli Assassini era riuscito a cogliere la palla al balzo, mandandomi nel periodo più favorevole per un omicidio. Chissà quanti anni compiva l'imperatore. Fissai il ragazzo sul lettino accanto al mio, un tipetto minuto dal nasino all'insù e i capelli castani. Assomigliava tanto ad un tipo di mia conoscenza, che difficilmente sopportavo. Lysandro. Come lui, non era nulla di speciale.
Brevemente, gli posi la mia domanda e lui mi risposte stizzito dicendo che avrebbe compiuto ventisette anni. Dopo, mi avvertì che tutti eravamo nemici e che per tale motivo non dovevo permettermi di fare l'amico con lui, né di rivolgergli ancora la parola. Tutta quella gente doveva essere ossessionata dal proprio compito. In fondo, anche io lo ero, ma per la mia natura d'assassino. Trattenni a stento una risata amara.
Era il duro compito della sopravvivenza.
Furono tre giorni estenuanti per gli ultimi schiavi arrivati. Gli eunuchi neri ci istruirono sui fondamenti della lingua di Costantinopoli, i saluti, gli inchini. Ci insegnarono che davanti ai funzionari o ai membri della corte dovevamo tenere lo sguardo basso e piegarci in un inchino con la testa, mentre davanti ai membri più importanti come il Sultano o la Valide, dovevamo essere un esempio di servile obbedienza, elogiandoli con svariati titoli onorifici. Mai sbadigliare se qualcuno dei due parlava, mai provare ad intraprendere con loro una conversazione, se non interpellati direttamente.
Ci insegnarono anche l'etichetta durante un banchetto, semmai un giorno ci avessero degnato dell'onore di venir invitati. Dovevamo essere correttamente seduti con le gambe incrociate sul cuscino, aspettare le preghiere del Sultano agli Dei del sole e poi prendere con delicatezza il cibo. Esistevano pietanze che venivano mangiate con le mani e altre con cucchiaini o forchette, al punto che ci costrinsero ad imparare la lista di essi a memoria.
L'ultimo giorno invece, si dedicarono alla danza e al modo di sfilare in vista del giorno seguente, l'importantissimo compleanno dell'Imperatore. Quella fatidica sera, gli ultimi schiavi arrivati venivano presentati come odalische donate dalla Valide. Dovevamo essere tutti preparatissimi per la festa: c'era la possibilità di essere scelti e di passare una notte col Sultano. Lui avrebbe dovuto indicare l'odalisca di suo gradimento, mentre noi sfilavamo e ballavamo senza fermarci.
Il modo giusto di ballare, dissero, era alzare le braccia e muoverle in modo simile a quello della testa di un serpente a sonagli, mentre il corpo doveva lasciarsi guidare da movimenti sinuosi e sensuali. Io, come mi aspettavo, ero il più bravo. Ci voleva agilità e coordinazione, allo stesso tempo eleganza e grazia, qualità che molto raramente in una persona comune si potevano trovare. Ma io non ero una persona comune. Ero ero stato duramente addestrato da Alaister Noir, i miei movimenti dovevano essere precisi e veloci per uccidere.
Quanto allo sfilare, ci costrinsero a camminare con pile di libri in testa facendoci ricominciare tutte le volte quando qualcuno li faceva cadere. Ci consigliarono di tenere sempre spalle dritte e bacino sospinto in avanti, proseguendo con la punta dell'alluce per poi poggiare il resto del piede e finire col tallone, così che il nostro movimento sembrasse delicato come una ninfa che scivolava sul pelo dell'acqua: bisognava sempre mettere un piede davanti all'altro, per avere una camminata morbida. Ebbero pietà dei meno portati, rassicurando che con la musica sarebbe stato molto più facile. Io però ne fui felice. Più gli altri erano sgraziati, più io sarei spiccato, come un serpente in mezzo ai topi.
Doveva essere così, perché, in un modo o nell'altro, quello che doveva essere scelto ero io.
***
Quando arrivò il giorno decisivo, tutti si davano alla pazza gioia. La città era percorsa da sfilate e da allegre parate: c'erano giocolieri colorati, audaci mangiafuoco, ballerine col ventre scoperto nascoste da ventagli di piume ed intere bande di percussionisti e flautisti. Dal cielo cadevano ininterrotte piogge di petali per mezzo di una qualche magia, e bellissime lanterne di carta candida volteggiavano nel cielo di quella torrida mattinata estiva. Ogni tanto scoppiava qualche fuoco d'artificio e la musica si faceva più alta. Le bancarelle trovavano spazio in ogni anfratto libero, i cittadini si buttavano addosso polveri colorate, secondo quanto diceva la tradizione e tutti parevano un arcobaleno vivente.
A palazzo invece, non importava in che zona ti trovassi: la musica era dappertutto. Gli schiavi si truccavano e imbellettavano più del solito nella loro zona dell'harem, gli eunuchi, presi dal panico, continuavano a sbraitare ordini a destra e a manca. Chi quella sera doveva sfilare per il Sultano, come me, veniva preso da parte per essere preparato appositamente.
Mi vestirono con un lungo pantalone di velo, largo come uno sbuffo di zucchero filato e azzurro ghiaccio come i miei occhi, che si restringeva intorno alle caviglie. Gli esili avambracci furono ornati da cerchi d'oro e le gambe da cavigliere piene di monetine tintinnanti. Lasciandomi a torso nudo, mi decorarono il petto con tatuaggi scritti con l'henné dorato. Perfino il volto fu coperto da un velo dello stesso punto di colore, da cui spuntava da una fenditura orizzontale nel tessuto il mio sguardo tagliente, ammaliante. Un assassino travestito da angelo orientale. Intorno ai polsi era stato allacciato uno scialle di velo che sussultava e si gonfiava ad ogni alito di vento.
Cercando di non farmi beccare, mi infilai in vita una lama abbastanza sottile da riuscire a celarla e all'evenienza lanciarla davanti all'occasione propizia, nascondendola fra le pieghe della fascia del pantalone. Quella sarebbe stata la serata perfetta per uccidere.
Al contrario dei fanciulli, le donne portavano corpetti succinti e ampie gonne con spacchi. Erano state truccate molto di più e i capelli erano stati coperti da lunghi veli di seta. Le guardai male: con quel davanzale baravano! Sperai con tutto me stesso che il Sultano non preferisse una compagnia femminile e formosa.
Ci fu un breve banchetto fra i componenti dell'harem al completo, prima di prendere parte alla cerimonia per il compleanno. Quando giunse finalmente il tramonto, tutti i cittadini si accalcarono sotto il palazzo imperiale ballando e alzando in alto le bandiere con lo stemma variopinto di Costantinopoli, mentre i giocolieri si esibivano in giochi di fuoco, di acqua e di prestigio. Nel cielo notturno incominciarono ad esplodere in un tripudio d'oro e di colori vivaci molteplici fuochi d'artificio delle forme più strane.
Gli eunuchi, apprensivi e sull'orlo dell'isteria, ci condussero dietro al palchetto dell'enorme sala del trono, a sipario calato, nei pressi delle due entrate laterali. Alla sinistra i ragazzi, alla destra le ragazze. Sbirciai fra i lembi di drappeggi che si affacciavano sul palcoscenico, godendomi la visuale dell'intera sala.
Era gigantesca: muri con fantasie a rombi e ghirigori rosso-oro, pavimenti coperti da ampi ed elaborati tappeti, che parevano cambiare colore a seconda del punto in cui li guardavi. I lati della stanza erano circoscritti da colonne di quella tradizionale pietra gialla e porosa mentre, acciambellati sui loro cuscini, file e file di membri della corte attendevano trepidanti l'arrivo dell'Imperatore.
In fondo alla sala, su un soppalco rialzato accessibile da tre gradini, si ergeva il trono del sultano: una sorta di mastodontica seduta di legno e vimini intarsiato, tempestato di smeraldi e rifinito da fasci di palme che spuntavano come raggi di sole verdi dallo schienale; ai suoi lati, un po' più in basso, due troni più modesti decorati con qualche dettaglio d'oro. Il palco si allungava con passerelle che si chiudevano ad U abbracciando i troni, spezzate al centro per permettere al Sultano di accedere al posto più in vista della serata.
C'erano musicisti ad ogni angolo della maestosa sala e fontanelle in ogni anfratto libero, quasi ci fosse bisogno di ricordare che lì non si conosceva la siccità del deserto. Su un angolo del palco trovava posto perfino una vistosa arpa dorata, le cui corde venivano strimpellate da una donna dalla pelle scura che produceva una dolcissima sinfonia.
Ma prima di tutta la meraviglia, cercai ciò che mi interessava di più: le guardie. Erano ovunque. E non lo dicevo perché fossero tante: erano davvero ovunque, non ebbi il tempo di contarle per farmi un'idea della carneficina che avrei scatenato se le avessi combattute.
Improvvisamente, tutti i membri della corte si alzarono in piedi. Diversi schiavi si accalcarono vicino a me per guardare, spintonandomi. Tre individui, il cuore pulsante dell'Impero, entrarono dall'enorme arco di pietra incassato all'inizio della stanza. A destra camminava la bellissima Valide, con un vestito di seta verde, i lucenti boccoli corvini appena nascosti sotto un bel velo di chiffon ed elaborati gioielli a tempestarle il corpo sinuoso. Alla sua sinistra si trovava un uomo smunto dai lineamenti affilati e dalla lunga barba nera, appuntita come una lama. Doveva essere il Gran Visir, consigliere politico e primo ministro del Sultano, in cima alla lista dei miei morti.
E alla testa di quel corteo, in un inevitabile dulcis in fundo, c'era il Sultano.
Alto abbastanza da costringermi ad inclinare il viso se ce l'avessi avuto vicino, con le spalle ampie come il deserto, la pelle scura come una macchia di caffè sgocciolata nel latte e i lineamenti muscolosi che, perfino da lontano, trasmettevano la sua possanza. Non riuscii a distinguere chiaramente i tratti del suo volto, troppo distante da me, ma vedevo cosa indossava: pantaloni a sbuffo di seta verde foresta e una giacca avorio intessuta di fili dorati sopra la camicia bianca.
Il turbante bianco e oro sul suo capo conteneva a stento ribelli riccioli corvini. Legato alla fascia dei pantaloni teneva un pugnale a mezza luna conservato in un fodero d'oro e avorio, su cui mi sarebbe piaciuto mettere le mani. Tutti gli schiavi si tirarono indietro inciampando l'uno sull'altro quando i tre passarono in mezzo alle passerelle e salirono i gradini per sedere ai troni. Sentii alcuni mormorare.
«Mi avevano detto che era bello, ma non immaginavo così tanto!» bisbigliò un rosso ad un altro dalla pelle scura. Quello mosse la testa in un convinto cenno d'assenso.
La Valide e il Gran Visir presero posto e il Sultano si inchinò poi verso la donna, rendendole un lungo omaggio. Quando si raddrizzò, finalmente si sedette a gambe incrociate sul cuscino di seta scintillante sopra al suo trono, un segnale che servì al resto della corte per capire di accomodarsi a loro volta. La musica si innalzò: qualcuno iniziò a tamburellare, i flauti intonarono una nota bassa, l'arpa suonò una melodia più intensa. Gli eunuchi diedero di matto, parlandosi l'uno sull'altro.
«Tocca a voi!» disse uno. «Fate del vostro meglio!» oppure «Vedrete che qualcuno sarà scelto!» o ancora «Ricordatevi di ancheggiare!» Poi fu davvero il nostro turno e per mia fortuna, o forse sfortuna, fui proprio io ad entrare per primo dal lato degli schiavi maschi.
Non fu difficile: mi feci guidare dalla musica. Alzai le braccia ricordando il movimento ritmico della coda di un serpente a sonagli, immaginando il momento fulmineo della vipera prima di mordere, avvelenare, uccidere. Poggiai i piedi a partire dalle dita, ballando come sospeso su un filo invisibile: come se, non mettendo sempre un piede davanti all'altro, corressi il pericolo di precipitare in un profondo baratro. Ondeggiai i fianchi, seguendo il movimento di un'onda, con più convinzione di prima. Piano piano, tutti gli altri schiavi mi seguirono a ruota, mentre dall'altro lato anche le schiave si davano ad una danza seducente per attrarre gli sguardi della corte.
A quella vicinanza, era facile esaminare il viso del Sultano. Assomigliava a quello di sua madre, la Valide: aveva le labbra piene sapientemente disegnate dalla natura, il naso ben definito e sulla pelle scura spiccavano due splendenti occhi smeraldo orlati da lunghe ciglia nere. Immaginai che baciare quelle labbra fosse un vero piacere.
Guardami.
Ecco cosa pensai mentre tentavo di agganciare il suo sguardo col mio, color ghiaccio, che spuntava da sopra al velo azzurro legato in viso. Aprii le braccia, facendo ondeggiare dietro di me lo scialle morbido ed evanescente legato ai polsi, lo sguardo sempre fisso sul Sultano. Ogni tanto la Valide e il Gran Visir si sporgevano verso il suo orecchio per mormorare un'impressione, un'idea, qualcosa... Ma lui era distratto. Stava guardando qualcuno. Non qualcuno, me.
Mi persi nella profondità di quegli occhi verdi talmente brillanti da sembrare pietre preziose di un tesoro dimenticato dagli Dei. Adesso, doveva fare solo un piccolo gesto e tutto sarebbe andato alla perfezione. Bastava un cenno del dito.
Feci una giravolta su me stesso, cercando di non sembrare infastidito quando il tizio rosso di poco prima cercò di farmi lo sgambetto. Non farti distrarre, mi imposi. Poi, quando mi girai di nuovo verso il Sultano, lo trovai ad indicare qualcuno. Avrei dovuto esserne stupito, avrei dovuto sgranare gli occhi, avrei dovuto sussultare. Invece sorrisi trionfante da sotto al velo.
Quello che indicava ero proprio io.
***
Il sorriso compiaciuto che mi albergava sulla faccia potè solo diradarsi, arricciarmi le labbra a forma di cuore per espandersi a macchia d'olio negli occhi chiari, gli unici che il Sultano poteva distinguere oltre il velo che celava i lineamenti del mio volto. Sentivo il cuore battere d'aspettativa ed eccitazione, di trionfo e soddisfazione.
Mi profusi in ampio inchino facendo dondolare i drappi ai polsi, leggiadro. Tutto andava secondo i piani. La musica si fece più lenta e una ad una le frotte di odalische invidiose sparirono infilandosi nelle uscite che fiancheggiavano il sipario. Le seguii senza dire una parola a nessuno e, al riparo dalla corte, gli eunuchi si congratularono e qualcuno mi diede una pacca sulla spalla, ma il mio istinto d'assassino si risvegliò immediato. Almeno una decina di persone volevano vedermi morto e la cosa non poteva che farmi sogghignare. Ancora una volta, Sfavillo aveva vinto.
Dopo lo stordimento iniziale per l'essere stato scelto, ricordai il pugnale nascosto fra le pieghe del pantalone, mi premeva prepotentemente contro un fianco. Adesso veniva il meglio della serata.
Sapevo che nell'arco di cinque minuti gli eunuchi mi avrebbero costretto a sottostare a molteplici cure di bellezza per prepararmi alla speciale notte col Sultano, ma io avevo tutt'altri progetti. Diversi schiavi mi accerchiarono per chiedermi se mi sentissi eccitato o onorato, se fremessi dalla voglia di giacere nel letto dell'Imperatore di Costantinopoli o se ne avessi un po' di timore. Non risposi a nulla.
«Scusate ma... Ho bisogno di prendere un po' d'aria!» li liquidai, prendendo ad ansimare e a sventolarmi il viso con movimenti impacciati delle mani, come a simulare un lieve attacco di panico. Dovevo uscire e pensare velocemente ad un piano, non ci sarei riuscito se uno stormo di invidiosi mi gracidava nelle orecchie.
«Ehi tu! Non puoi andartene così!» mi riprese un eunuco, prima che mi richiudessi la porta alle spalle. Troppo tardi.
Ero quasi sicuro che agli schiavi fosse impossibile, se non del tutto proibito, scorrazzare liberamente per il palazzo, specialmente per i preziosi membri dell'harem, ma pensai che il panico del prescelto dal Sultano potesse passare inosservato almeno per qualche minuto. Ci sperai, almeno.
I festeggiamenti non si sarebbero protratti a lungo, avevo una ventina di minuti al massimo per agire. Camminai velocemente nel corridoio affollato, sbirciando la sala del trono da dietro l'arco in pietra. In quel momento, si stava svolgendo un breve banchetto fra tutti i componenti della corte. Ci avrebbero ancora impiegato un buon quarto d'ora, dopodiché ognuno di loro si sarebbe impegnato nel rivolgere i propri omaggi al Sultano. Cercai di non farmi notare dalla guardia appostata dentro la stanza a pochi centimetri dalla porta da cui io sbirciavo. Mi allontanai in fretta.
Con l'attenzione nuovamente volta al corridoio, alzai la testa per esaminare con occhio attento le assi di legno intagliato ben incastrate fra le volte di pietra del soffitto. Lo sguardo proseguì da quel punto alle colonne che facevano da perno alla struttura circostante . Mi si dipinse un sorriso in volto: posto scomodo uguale posto perfetto per gli appostamenti.
Presi la rincorsa e mi aggrappai con mani ferme alla colonna. Uno dei fondamentali allenamenti del Re degli Assassini erano le arrampicate. Mi aveva insegnato bene a cercare ogni appiglio possibile, ogni angolino libero, ogni spigolo. Ma la cosa più importante, la cosa fondamentale da chiedersi era: che fare quando ogni superficie era liscia, impossibile da scalare?
Usa la velocità, mi aveva risposto Alaister.
In quel momento, la velocità era tutto ciò di cui avevo bisogno. Mi aggrappai alla colonna di pietra stringendo le gambe attorno ad essa. Feci scivolare rapidamente le mani verso l' altro, poi verso il basso, prendendo velocità. In un baleno ero in cima, che pendevo dalla trave come un pipistrello. Forzai le braccia, issandomi sull'asse di legno per poi ricaderci sopra a cavalcioni. Bastava poco a perdere l'equilibrio e precipitare verso terra. Nella migliore delle ipotesi mi slogavo solo una spalla, nella peggiore mi spezzavo l'osso del collo. Ridacchiai nervosamente, in attesa. Se i miei calcoli erano giusti, mancavano solo cinque minuti e poi tutti i membri della corte si sarebbero precipitati fuori dalla Sala del trono in un tripudio di turbanti e stoffe colorate. Deglutii.
Quando avvertii il chiacchiericcio concitato degli invitati in una strana ed intricata lingua compresi che il banchetto fosse concluso: si stavano avvicinando a me. Mi acquattai in un'alcova nel muro tinteggiato d'arancio e m'inginocchiai sulle trave, sperando con tutto il cuore che non notassero quella macchiolina celeste ghiaccio sul soffitto. Presi in mano la lama gustando la sensazione fredda del ferro fra le dita. Stavo per fare qualcosa di completamente folle.
Frotte di funzionari uscirono dall'arcata principale, parlottando fra di loro e trascinandosi il loro seguito di guardie, servitori e concubine. Nessuno pensò di alzare lo sguardo verso un assassino in agguato, ma non lo reputai un motivo valido per rilassarsi. Poi lo individuai.
Fu facile. Era quello più accerchiato da guardie, più ingioiellato e più annoiato fra tutti. Aveva la faccia stroppiciata in un'espressione arcigna e l'aria di chi avrebbe giurato di possedere tutto ciò su cui posava gli occhi: quel genere di uomo avido che avresti ripudiato ad una sola occhiata. Inutile dire che l'idea d'ucciderlo mi stuzzicasse. Guardai l'arma fra le mie mani: era una lama sottile ma non esattamente un coltello da lancio. Ma, in quel momento, che importava? Il Gran Visir camminò sotto di me, facendo un'animosa conversazione con un altro funzionario sul giusto aumento delle tasse per aumentare i loro introiti personali, da quello che riuscii a cogliere.
Aspetta, mi calmai, ancora qualche metro.
Ancora qualche metro.
Impugnai con più decisione la lama. Sapevo che una comune lama non avrebbe fatto lo stesso effetto di una freccia, ma dovevo accontentarmi. In fondo, uno dei principali motti della Fortezza dell'Assassino era: non è l'arma a fare l'Assassino, è l'Assassino a fare l'arma. Già, non importava che arma un sicario usasse, se era nelle mani giuste, quella avrebbe mietuto vite lo stesso. Afferrai il pugnale dal lato più leggero, per bilanciarne meglio il peso. Presi la mira.
Il mio bersaglio era il collo, ma puntai l'arma molto più in alto, diversi centimetri più su della testa. Dovevo calcolare quanti passi avrebbe fatto l'uomo durante il lancio e anche la traiettoria dell'arma.
Socchiusi gli occhi, inspirando profondamente per raccogliere tutta la mia concentrazione. Avevo un solo coltello e una sola occasione a disposizione. Poi, lanciai.
Fu un gesto rapido, secco e preciso. Prima di riaprire completamente gli occhi le mie orecchie vennero investite da una marea di esclamazioni, rumore di passi, urla. Ebbi solo il tempo di vedere il corpo del Gran Visir cadere a terra come una bambola di pezza, ma fu un'occhiata veloce, perché già stavo scivolando giù dalla colonna, già stavo fuggendo verso la mia notte col Sultano.
Meno uno. Ridacchiai. Un punto per l'Assassino di Skys Hollow.
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