4. L'Assassino e il Deserto Rosso
Mossi un passo in avanti ed uno indietro. Mi tenni in posizione di base: ginocchio piegato, braccio libero inclinato verso il basso e mano armata rivolta verso l'avversario. Azzardai un allungo, spostando la mano con la spada rapidamente in avanti, facendo perno sulla gamba arretrata e avanzando con l'altro piede. Puntai l'arma verso il nemico e colpii, in pieno stomaco. Arretrai velocemente, simulando un colpo immaginario che parai alzando la spada all'altezza del viso. Contrattaccai affondando la spada al centro del cuore dell'avversario.
Inspirai. Per maneggiare una spada erano necessarie velocità, flessibilità, coordinazione, riflessi e tattica. Quando espirai, il nemico cadde a terra con un tonfo sordo sul pavimento in parquet della sala allenamenti della Fortezza. Ammirai compiaciuto il nuovo solco all'altezza del cuore nel manichino di legno, ormai a terra. Poi, mi chiesi cosa stessi facendo alle cinque del mattino nella sala d'allenamento, prendendomela con un povero manichino. Mi lasciai ricadere a terra, cercando di riprendere fiato.
Erano passati tre giorni dal ballo dell'Orchidea e non avevo ancora fatto rapporto al Re degli Assassini, né avevo avuto il coraggio di rivedere Yul. In tutto quel tempo mi ero rinchiuso nelle mie stanze a leggere o ero stato nella bottega del mio sarto personale a farmi cucire abiti su abiti, come se fosse stata l'unica cosa di cui m'importava davvero.
Sospirai: forse mi serviva una vacanza.
***
Quando alle nove di quella stessa mattina mi recai davanti alla porta dell'ufficio del Re degli Assassini, deglutii preparandomi al peggio. Trill, la mastodontica guardia appostata lì davanti mi diede una sonora pacca sulla spalla, come a volermi ricordare che forse non era ancora arrivato il momento di incidere la lapide. Gli rivolsi un debole sorriso e girai la maniglia.
Ritrovai Alaister Noir alle prese con fogli, fogliettini, lettere e documenti d'ogni tipo. Non alzò neppure lo sguardo verso di me, ma mi fece segno d' entrare e sedermi. Quando cercai d'aprire bocca, mi bloccò con un gesto spazientito della mano, intimandomi d'aspettare. Strinsi i denti: mentre io morivo d'angoscia, lui se ne stava tutto intento a leggere qualcosa di molto noioso, ignorandomi completamente.
Dopo dieci minuti buoni, posò i fogli sulla scrivania e mi rivolse uno sguardo raggelante che pesava come un macigno sulle mie povere spalle sottili. Mi drizzai sulla poltrona. «Finalmente ti sei degnato a farmi rapporto.» Non ebbi il fegato di rispondere. «Sono molto deluso dal tuo increscioso fallimento.» I suoi occhi gialli scintillarono di rabbia. «Non solo non hai ucciso l'obiettivo, ma ti sei anche fatto drogare, ingannare e quasi vendere all'asta.» continuò mentre la sua voce restava freddamente piatta. Come se non si prendesse la briga di adirarsi per qualcosa che non considerava neppure importante.
Passò qualche minuto di silenzio carico di tensione e mi accorsi tardivamente che dovevo dire qualcosa. Qualunque cosa. «Io...» deglutii. «...sono profondamente dispiaciuto.» rantolai, chinando la testa. Quando la rialzai, il suo sguardo si indurì ancor più di prima. In fondo, quello che mi era capitato al ballo era stato uno sbaglio ammissibile, non era nulla di grave; non potevo certo immaginare di essere stordito da gas velenoso. Ma per il Re degli Assassini gli errori non erano ammessi.
«Ho una nuova missione per te.» sibilò e, dal tono in cui lo disse, quasi pensai si trattasse di buttarmi in un fosso e sparire per sempre. Alaister era quel genere di persona che te l'avrebbe chiesto senza aspettarsi una negazione, come se uccidersi su suo ordine diretto fosse un onore. Annuii, facendogli cenno di continuare. «Un alto funzionario del Regno di Costantinopoli ci ha ingaggiato per uccidere la Valide e il Gran Visir.» spiegò, aggiungendo altri dettagli sui poteri e la gerarchia di quel regno, il che implicava l'importanza degli obiettivi e la pericolosità dell'incarico.
Mi trattenni dallo storcere la bocca. Costantinopoli era distante di ben tre regni da quello di Darlan, che invece era una specie di impero, fatto di sconfinate terre conquistate con la violenza e il sangue, il che lo rendeva immenso com'era immensa la crudeltà del Re. Inoltre, i bersagli da assassinare erano perfino due: le più importanti dopo il Sultano. Non era una semplice missione uccidi e scappa. Bisognava pianificare, eludere schiere di guardie addestrate alla protezione e prepararsi a tutti gli imprevisti del caso. Cacciai il nervosismo opprimente in gola e mi feci serio.
«Quali sono le accuse?» chiesi, ricordandomi improvvisamente della prima volta che entrai a far parte della Gilda degli Assassini e delle due regole che stabilii: niente bambini e innocenti. Le memorie di quel primo giorno erano ancora impresse a fuoco nella mente, tanto che avrei potuto facilmente riviverle socchiudendo le palpebre.
Quel giorno il vento non era abbastanza quieto da lasciarmi in pace, scompigliandomi i capelli biondi per farli ondeggiare dolcemente. Sembrava la prima cosa dolce dopo i sei mesi passati all'inferno. Alzai la testa, guardando la tenuta che sarebbe diventata presto l'àncora di tutta la mia vita. La Fortezza dell'Assassino.
Mi voltai verso l' uomo dai grandi occhi gialli. Dovevo fare una scelta. Mi guardai le mani ancora nere di carbone, sporche di sangue. Come era successo tutto quello? Come poteva la mia vita essersi tramutata in un incubo tanto in fretta? Più il tempo era passato, più io, piano piano, ero diventato l'ombra di me stesso. Perfino il mio aspetto, un tempo candido e angelico, ora era completamente stravolto: le ossa sporgenti, le guance incavate, la pelle di un pallore cadaverico coperta di carbone, le mani e i polsi cerchiati da segni violacei.
Perfino la mia anima ormai era stata schiacciata, spezzata in due come un fragile ramoscello. Non avevo più nulla per cui vivere, più nulla per cui combattere. Ero completamente solo. Crollai in ginocchio e mi coprii il viso fra le mani. Eppure, per quanto mi sforzassi, non riuscivo più a piangere. Avevo finito tutte le mie lacrime. Lanciai un urlo disperato.
Il Re degli Assassini si incamminò verso la Fortezza, lasciandomi indietro. Arrivato al grande portone di legno, si fermò e si voltò a guardarmi. «Non sopravviverai a lungo, specialmente se è il Re a darti la caccia.» mi squadrò. «Devi scegliere. Vivere o morire? Uccidere o essere uccisi?» Aveva ragione. Un altro anno e il corpo avrebbe ceduto. «Scegli.» E si voltò, pronto ad entrare nel suo covo del male, senza aspettare di essere seguito.
Allora, il ricordo di mia madre mi colpì. Il ricordo delle sue ultime parole mi penetrò nell'epidermide, fino ad arrivare alla testa. Mi alzai. Io non ero solo.
Avevo ancora me stesso.
«Lasciatemi dire una cosa.» Il Re degli Assassini si bloccò poco prima di chiudersi la porta alle spalle. «Io non ucciderò per il gusto di farlo.» La mia bocca si piegò in un ghigno crudele, i pugni si strinsero, il mento si alzò, gli occhi si fecero feroci, come quelli di una belva che, dopo anni all'interno di una gabbia, non vedeva l'ora di scatenare tutta la sua furia. Dopo tutto quello che mi avevano fatto, era arrivato il momento di ricambiare il favore. «Ucciderò per rendere questo schifo di posto migliore.»
Alaister si sistemò con un gesto agile e aggraziato il nastro dorato intorno al codino corvino, perfettamente legato sulla nuca. Intrecciò le mani, ponendo il mento su di esse.
«Manovrare le questioni politiche alle spalle del Sultano e minare alla quiete del regno.» spiegò, con noncuranza. Aggrottai la fronte. Non mi sembravano accuse molto convincenti. Il Re degli Assassini captò i miei pensieri. «Se non ne sei convinto puoi sempre verificare da solo.» Per una volta, le sue labbra tumide si piegarono in un sorriso. Un sorriso per nulla rassicurante. «Ma ricorda che se non dovessi completare la missione, faresti meglio a non tornare affatto.» mi lanciò uno sguardo pietrificante, tanto che mi si rizzarono i capelli sulla nuca.
No, ritornare alla Fortezza senza aver compiuto il mio lavoro era un'opzione di cui non c'era neanche da discutere. Qualcosa che non avrei mai fatto, non solo perché lo temevo, ma perché sarei andato a minare il mio onore d'assassino. E poi, non era così semplice: in verità non mi avrebbe lasciato andare tanto facilmente. Avevo un grosso debito da estinguere nei suoi confronti, sin da quando aveva deciso di farsi carico di me accogliendomi nella sua casa, allenandomi, investendo i suoi soldi e i suoi sforzi per farmi diventare quello che ero.
Ecco perché non potevo deluderlo. «Fra quanto partirò?» chiesi, non tanto per saperlo, quanto per togliergli quell'espressione inquietante dalla faccia.
«Fra un'ora.»
«Cosa?! Ma è troppo presto!» esclamai, strabuzzando gli occhi. Non avevo abbastanza tempo. Ancora una volta, indovinò ciò a cui stavo pensando e mi rivolse un nuovo sorriso velenoso.
«Oh, non preoccuparti. Il viaggio sarà molto lungo, avrai tutto il tempo che ti occorre per organizzarti.» mi disse, in un tono placidamente cortese e gentile, volutamente falso, che era ancora peggio dei suoi sguardi raggelanti. Ridacchiai nervosamente. Ero sicuro che tutto quel trafficare con documenti e fogliettini fosse un altro modo astuto per farmi perdere minuti preziosi.
«C'è altro?» replicai, senza impegnarmi a nascondere la stizza che mi troneggiava sulla faccia, alzandomi dalla poltrona.
«No, vai pure.» rispose, in tono vellutato, tornando a guardare poi i suoi documenti. In quel momento, il mio desiderio di farli a pezzettini e usarli per alimentare il fuoco nel primo camino a portata d'occhio, era inesprimibile. Giunsi alla porta. «Oh, un'ultima cosa.» Brutto segno.
Mi voltai verso la scrivania intagliata in mogano. «Non ci sarà una ricompensa per te questa volta.» Lo sapevo, pensai. Ed ecco il lato sadico del Re degli Assassini: me la stava facendo pagare per il disastro fatto al ballo. «Prendila come...» rise, mostrando denti perlacei come l'avorio. «...una prova di valutazione.»
Stronzo, pensai, uscendo dall'ufficio.
***
Arrivai al gran portone della Fortezza dell'Assassino che ero trafelato. Nel mio zaino da viaggio non c'era molto: un po' d'acqua, un po' di soldi, barattoli su barattoli di creme protettive, pochi e semplici ricambi, tre libri e un sacchetto di pepite d'oro. Viaggiavo leggero. Col braccio destro invece reggevo una valigetta, quella che sarebbe servita per il mio piano, se tutto andava bene.
Perfino il mio abbigliamento era smorto, con quel panciotto e il pantalone beige abbinati ad una camicia di lino leggera, che mi facevano assomigliare ad uno di quegli archeologi pronti all'esplorazione. Sospirai e il mio primo pensiero, quello venuto dalla parte più narcisista di me, fu ai miei vestiti ben conservati nell'ampio guardaroba dei miei graziosi appartamenti. E se non avessi mai fatto ritorno dalla missione? Che fine avrebbero fatto? Poi ricordai che la mia vita era più importante della mia collezione d'abiti. E la mia reputazione d'assassino ancora di più. Questa volta niente errori.
Tuttavia, la cosa che più mi dispiaceva era abbandonare le mie armi. Non potevo rischiare di essere scoperto e di mandare all'aria la mia copertura, ma non le avevo lasciate in camera proprio tutte.
Sentii il freddo metallo della lama celata, legata al polso, ben nascosta dalla camicia. Accarezzai il lato posteriore degli stivali, lì dove si nascondevano un paio di coltelli da lancio affilatissimi. Potevo anche non portare armi, ma nasconderne due o tre non era considerato un reato, se non venivo scoperto. Mi rialzai, calandomi sulla testa uno stupido cappellino beige. Era brutto, sì, ma era fondamentale contro le insolazioni. Sospirai e poggiai una mano al portone, pronto ad uscire.
Una voce alle spalle risuonò per tutto l'androne d'ingresso, bloccandomi sul posto.
«Dove stai andando?» mi domandò un bel ragazzo dagli occhi blu notte, incombendo dietro alla mia schiena. Serrai la mia presa sulla valigetta ed immediatamente feci sparire dalla testa l'orrendo cappello da piccolo esploratore.
«Parto.» risposi, senza neanche voltarmi. Avvertii le mie guance ribollire, in fiamme. Ecco perché mi serviva una vacanza. Non era solo per riparare ai miei errori d'assassino, ma soprattutto per sradicare quei pensieri impuri che stavano prendendo piede nella mente inquinando ogni mio buon proposito di dimenticare il ballo dell'Orchidea. Ma che diavolo mi prendeva?
«Sì, questo l'avevo notato.» colsi immediatamente l'ironia nella sua voce morbida e sensuale. «E dove, di preciso?» mi chiese, con il tono disinteressato di chi vuol fare solo conversazione. Continuai a volgere il mio sguardo al portone che avevo di fronte, le pupille a scandagliare i solchi e le scanalature nel suo materiale antico. Tutto, pur di non pensare ai passi che si avvicinavano. Non voltarti, mi dissi, non voltarti.
«Costantinopoli.» replicai, con la bocca secca. Da quando avevo perso l'abilità di formulare frasi concrete?
Adesso era a qualche centimetro dalle mie spalle, potevo vedere sul legno la sua ombra fondersi con la mia. Improvvisamente, udii il suo indice seguire una linea invisibile dalla nuca fino al mio fondoschiena, lasciandomi brividi elettrici perfino attraverso i vestiti. Arretrai, trattenendo a stento un verso di stizza e al contempo di piacere. Ero diventato più sensibile al suo tocco.
«Com'è che sei così garbato, oggi?» cantilenò Yul, chinato verso il basso, ad un soffio dal mio orecchio. Balzai indietro, allontanando la sua mano con uno schiaffo sonoro, per poi girarmi finalmente verso di lui, a guardarlo.
«E tu com'è che sei così rompipalle?» ribattei, lanciandogli un'occhiataccia. Sghignazzò, arricciando le labbra in una smorfia divertita, stringendosi nella schiena per far capire che non avrebbe risposto.
«Ma dimmi piuttosto, quanto tempo starai via?» domandò, sempre manifestando grande noncuranza, come se fossero domande di circostanza ed io fossi un amico di vecchia data di cui non gli importava davvero. Lo guardai, bieco.
«E a te che importa?!» posai una mano sulle maniglie d'argento elaborato, scocciato da quel tira e molla di frasi vuote che mi stavano solo facendo perdere tempo. E sarei uscito, ma lui sbatté una mano sulla porta tenendola chiusa, impedendomi di farlo.
«Tu dimmelo.» mormorò, con un sorrisetto impaziente sulle labbra. Roteai gli occhi al cielo.
«Due mesi, forse tre.» Quel periodo di tempo mi pesava parecchio, così strinsi la mascella, evitando di incontrare il suo sguardo, che avrebbe intuito cosa pensavo.
Strabuzzò gli occhi. «Ma è tantissimo!» Era incredulo: Alaister non mi teneva mai troppo lontano da Skys Hollow, come se avesse paura di vedermi scappare dalle sue grinfie. Ero sorpreso anch'io dalla svolta degli eventi.
«Non direi.» Cercai di far finta che mi andasse bene, mentre giravo su me stesso per appoggiare la schiena contro il portone, fronteggiandolo. «Ci sono assassini che perdono perfino anni per una missione.» dissi, mettendogli le mani sul petto per allontanarlo. O forse per colmare l'impulso di toccarlo. In quel momento indossava soltanto una camicia leggera ed era lievemente sudato, segno che doveva aver appena preso una pausa dal suo allenamento mattutino. Mi prese le mani, bloccandole fra le sue.
«Perché sono sempre missioni suicida.» disse, con un tono di voce che non riuscii ad interpretare. Preoccupazione? Sdegno? Sarcasmo? Cercai di far scivolare via le mie mani dalle sue, ma lui le bloccò prontamente. Aveva le dita callose, prove di tutte le armi che aveva impugnato anno dopo anno, rendendole sue compagne abituali.
«Ma insomma! Si può sapere qual è il tuo problema? Fatti gli affari tuoi!» replicai, mostrando tutto il fastidio che mi era possibile ed insieme tentando di divincolarmi dalla presa, invano. La forza non era esattamente la mia più grande qualità. Mi guardò dritto negli occhi, facendomi perdere completamente dentro il loro blu oscuro come una notte nuvolosa. Intrecciò le sue dita nei miei spazi e mi guardò con lo stesso sguardo rapito con cui mi aveva fissato in carrozza, prima di baciarmi, serate addietro. Sentii il cuore accelerare, improvviso, immediato.
«La verità è che mi mancherai.» rispose, lasciandomi ancora una volta spiazzato. Senza accorgermene, mi ritrovai ad arrossire fino alla punta dei capelli. Tentai di volgere lo sguardo in un qualsiasi altro punto della stanza che non fosse lui. Una finestra, un angolo del tappeto, il corrimano delle grandi scale di legno massiccio, i corridoi laterali. Ma la testa era piena di Yul e il colore dei suoi capelli faceva di tutto per richiamarmi all'attenzione.
«Ti mancherà prenderti gioco di me, vorrai dire.» lo corressi, cercando di mantenere a tutti i costi il mio tono sprezzante, girando il viso per non restare ammaliato dal suo. Non sembravo molto convinto. Il rosso inclinò la testa, alzando gli angoli della bocca in un sorrisetto beffardo.
«Quello sempre.» ammise, ridacchiando. Poi mi prese il volto fra le mani, affondando le dita nei miei morbidi boccoli dorati. Non aspettò oltre: mi baciò ancora col sorriso sulla faccia.
Non si trattenne molto, ma mi bastò per sentire il tocco delle sue labbra morbide e il sapore di menta e caramello a riempirmi la bocca. Quando si staccò, mi sentii completamente svuotato di tutta l'aria che avevo nei polmoni. Mi strofinai la manica della camicia sulla bocca, sperando di sembrare schifato, e gli rivolsi un'occhiata torva.
«Smettila di baciarmi come se fosse la cosa più normale del mondo, brutto bastardo!» ringhiai. «E non pensare che le cose fra di noi siano cambiate!» Gli rivolsi un'occhiataccia fulminante e mi riassettai lo zaino in spalla, scivolando nello spiraglio che avevo velocemente aperto per poi richiudere il portone con un tonfo fragoroso.
Quella vacanza mi serviva, e in fretta.
***
Era il venticinquesimo giorno di viaggio ed ero convinto che il caldo mi avrebbe ammazzato di lì a poco, se non in quel momento stesso. Spalmai per la quarta volta in quel singolo giorno la crema protettiva, nonostante le tende della carovana mi coprissero abbastanza bene. Non potevo permettere al pallore nobiliare della mia pelle di rovinarsi al sole prendendo quella tremenda sfumatura rossastra tipica delle ore del mezzogiorno.
Gettai uno dei miei libri, riletto per la terza volta, in un angolo della carovana: una storia struggente fra un giovane e una donna molto più grande di lui e già sposata, finito con un suicidio. Cosa si doveva fare per passare il tempo!
Esalai un sospiro scocciato. Non mancava molto all'arrivo, perciò feci mente locale, ri-progettando il mio ruolo: ero un giovane e promettente architetto che coglieva il compleanno del Sultano come occasione per poter rimodernargli il palazzo, o quanto meno offrirgli delle dritte occidentali. Non sapevo fino a che punto avrebbe funzionato dato che il disegno non era proprio il mio forte, ma, stando al piano, non avrei dovuto trattenermi tanto da farmi scoprire. Lanciai uno sguardo alla valigetta.
Ancora nella Fortezza dell'Assassino, mi ero introdotto nella camera di Tracy, un sicario con l'ossessione per il disegno - e uno dei miei pochi amici -, e avevo rubato fogli, matite e attrezzi. Non che li avessi esattamente rubati, li avevo solo presi in prestito.
Superammo un grande cartello di legno con una scritta tutta ghirigori, impossibile da capire. Sotto, in caratteri minuscoli, c'era scritto nella lingua comune parlata dalla maggior parte dei regni: Benvenuti nel Deserto Rosso. La carovana si fermò, prendendomi alla sprovvista. Attesi qualche minuto, ma continuò a stare ferma. Improvvisamente il conducente scostò le tende, facendo entrare il sole bollente all'interno.
«Tu.» mi additò, poi con le dita mimò delle gambe. «Piedi.» E indicò le immense dune desertiche che si stagliavano di fronte a noi, facendo perdere tracce del sentiero che avevamo percorso sino ad ora. Avevo incontrato questo tizio giusto un regno prima e mi aveva mimato di conoscere la via più breve per Costantinopoli. Ma non immaginavo certo che la sua via più breve fosse quella. Voleva chiaramente piantarmi in asso.
«No no!» ribattei, scuotendo la testa. «Io, qui!» feci un gesto verso il pavimento della carovana. Il conducente sorrise esasperato, agitando il dito.
«No. Tu, piedi.» continuò a guardare il deserto immenso stagliarsi verso di noi. Eh no, il tizio mi aveva promesso di portarmi fino a Costantinopoli! Continuammo in quel modo per almeno altri cinque minuti, poi, stanco di proseguire quella lite a gesti, scesi dalla carovana furioso, pagando meno della metà di quanto avevamo pattuito, ignorando i suoi insulti in una lingua sconosciuta. Ben gli stava.
L'uomo mi rivolse un'occhiata fra l'avido e l'impietosito e mi indicò ancora una volta il deserto. «Quaranta miglia.» mimò il quattro con le mani. «Costantinopoli!» disse, prima di partire per lasciarmi in mezzo al nulla. Cercai di trattenermi dall'urlare una sonora imprecazione, battendo il piede a terra. Quaranta miglia erano decisamente troppe per essere lasciato a piedi, non avevo abbastanza acqua a disposizione e nonostante il cappello il sole mi avrebbe annientato.
Dopo qualche ora di cammino, urlai di frustrazione. Lo zaino sembrava essere improvvisamente diventato pesante, la borraccia dell'acqua invece troppo leggera. Non facevo che passarmi e ripassarmi la valigetta da un braccio all'altro, troppo stanco per poter continuare a reggerla ma troppo testardo o professionale per poterla abbandonare. I piedi continuavano ad affondare nella sabbia arancio e i granellini parevano essermi entrati ovunque, perfino nelle mutande.
Temevo che da un momento all'altro spuntasse un qualche velenosissimo insetto: avevo sentito che esisteva un ragno capace di farti cadere le dita una ad una, di farti sudare sangue, con un solo morso.
Per non parlare del caldo. Non riuscivo a smettere di grondare sudore. L'aria era infuocata e perfino quei leggeri aliti di vento erano bollenti. Ogni tanto mi fermavo giusto per spalmarmi addosso altra crema protettiva o per bagnarmi le labbra, razionando l'acqua rimasta.
Quando calò la notte, crollai a terra, sfinito. Quanto potevo aver camminato? Sei miglia? Ce n'era ancora di strada da fare. Il caldo diventava sempre più opprimente mentre il sudore mi appiccicava i vestiti al corpo. Sapevo in realtà quanto sudare fosse un bene: mi ricordava di bere, altrimenti il Deserto Rosso avrebbe potuto rivelarsi fatale. Quando l'acqua sembrava già sul punto di terminare e il caldo torrido faceva evaporare il sudore ancor prima che potessi rendermene conto, in qualsiasi momento correvo il rischio di morire disidratato.
Mi accampai su una duna qualsiasi dato che erano tutte maledettamente uguali - per fortuna avevo una bussola con cui orientarmi - e cercai di prendere sonno. Improvvisamente, dopo qualche ora passata a rigirarmi e a lamentarmi per l'afa, udii qualcuno avvicinarsi. La sabbia ovattava tutti i rumori, ma io non ero una persona comune. Rimasi immobile. Credevano di poter ingannare l'Assassino di Skys Hollow? Che stupidi.
Sentii dei mormorii fin troppo chiari. «Lo uccidiamo?» sibilò uno.
«Sì, uccidiamolo e prendiamo le sue cose.» parlò un altro. L'idea non era male, ma al contrario. Li avrei uccisi in fretta e poi mi sarei rubato la loro acqua.
«Aspettate. Vediamo prima di chi si tratta.» dichiarò quello che pensai fosse il capo della simpatica combriccola. Seguii con le orecchie ben aperte lo scalpiccio dei piedi nelle dune poi, ad occhi chiusi, avvertii un respiro estraneo vicino al viso e mi trattenni dall'aprire istintivamente le palpebre. Mantenni un respiro regolare, come di qualcuno profondamente addormentato, ma percepii il peso del metallo del coltellino nascosto nello stivale. << Guarda qui che bel faccino!» continuò, ridacchiando in maniera sinistra.
«Lo violentiamo, capo?» propose uno dei due scagnozzi. Ecco, ora sentii pesarmi la lama celata legata al polso. Non svegliarti, mi convinsi. Non dovevo. Socchiusi impercettibilmente gli occhi, intravedendo i tre uomini fra le ciglia dorate. Il capo ghignò.
«Non è una cattiva idea... Ma ho in mente qualcosa di migliore.»
Tu sarai il primo a morire, decisi, scegliendo quel momento per fingere un risveglio. Sfarfallai le palpebre e mi stiracchiai, come se mi fossi appena svegliato da un sonno sereno e quelle voci mi avessero disturbato.
«Ma cosa...» iniziai, sbattacchiando gli occhi azzurri con la fronte che s'increspava di preoccupazione verso le tre figure. Poi, come se mi fossi appena accorto dei loro sguardi loschi, strabuzzai spaventato le palpebre, con un'interpretazione che mi avrebbe fatto guadagnare di diritto un posto come attore nel prossimo spettacolo del Gran Teatro Reale di Skys Hollow. «Chi siete?!» domandai, esibendo il mio miglior tono da gattino impaurito. Mi strinsi le ginocchia al petto.
Dal loro aspetto trasandato immaginai fossero briganti, o più semplicemente viaggiatori che guadagnavano grazie agli sventurati che incontravano nel loro cammino. Barbe nere e lunghe, turbanti sulla testa e sciabole che scintillavano al fianco. No, per esibire le armi con tanta sicurezza dovevano essere da tempo dei criminali. Eppure, per me non erano altro che sciocchi, rozzi e principianti. I tre sghignazzarono e, quello che doveva essere il capo, si avvicinò verso di me, afferrandomi proprio il polso armato. Un solo scatto e la lama gli avrebbe fatto saltare almeno tre dita certe. Quel pensiero mi rallegrò.
«Perquisitelo.» ordinò e il suo alito puzzolente mi pizzicò le narici. Era vero che non avevo avuto neanche io occasione di lavarmi molto durante il viaggio, ma profumavo rispetto al tizio che avevo di fronte.
«Vi-vi prego, risparmiatemi.» balbettai, impaurito. «Sono solo un povero architetto!» biascicai, facendo finta di divincolarmi. Gli altri due gettarono all'aria i libri, i vestiti, i vasetti di crema protettiva e si appropriarono degli ultimi spiccioli rimasti e delle pepite d'oro. Poi, aprirono la valigetta e si lamentarono alla vista di semplici fogli e attrezzi da disegno.
«Non mente, capo.» disse scagnozzo A, mostrando all'uomo il contenuto della valigetta, ora riversato fra la sabbia. Matite e gomme affondavano e sparivano molto in fretta, facendomi capire che non le avrei mai recuperate.
«Allora che dobbiamo fare?» domandò quindi scagnozzo B.
«E' molto bello, no? E fra poco sarà il compleanno del Sultano...» Sorrise, sinistro. «E noi stiamo giusto andando verso Costantinopoli.» esordì il capo, muovendo le sopracciglia per alludere a qualcosa. Dovevano ringraziare la noia e il disinteresse che mi avevano fermato dall'ucciderli seduta stante. Perché sprecare le mie abilità per individui simili?
Però, adesso le cose incominciavano a farsi interessanti. Cercai di mascherare la mia attenzione in un tremolio spaventato. «Quindi non lo violentiamo?» interruppe scagnozzo B, chiaramente poco interessato alle congetture del suo superiore. Il capo brigante gli diede un pugno sulla testa.
«No, cretino! Lo vendiamo come schiavo a palazzo del Sultano!» ci illuminò lui. Se prima spalancai gli occhi, stupito, dopo feci una grande fatica per nascondere il ghigno che mi era nato sulle labbra. Come si diceva? Si chiude una porta, si apre un portone.
E quale copertura migliore ci poteva essere di entrare nell'harem del Sultano?
***
Dopo altri cinque giorni di viaggio in groppa al cammello del capo brigante, seduto davanti a lui così che potesse sempre mettermi le mani addosso, assicurandosi lascivamente che non scappassi, finalmente un cartello di vecchia pietra gialla e porosa, contornato da fiori variopinti, ci annunciò l'arrivo:
"Benvenuti a Costantinopoli"
Solo dopo aver oltrepassato le mura difensive esalai un sospiro di sollievo. In qualche modo, alla fine ce l'avevo fatta ed ero arrivato tutto intero. Nel cuore della capitale, come dimenticandomi di essere arrivato lì per scopi tutt'altro che nobili, rimasi sconvolto e a bocca spalancata davanti alla bellezza del posto, completamente diverso da tutto ciò che avessi mai visto.
Non era solo la città in sé a colpirmi, ma soprattutto il fatto che, dopo tanta siccità nel Deserto Rosso, acqua e fontanelle si innalzavano e si perdevano a vista d'occhio, decorando gli edifici. Era una città completamente differente da Skys Hollow. Non c'erano carrozze a spasso, cavalli a nitrire, uomini in doppio petto col bastone da passeggio, donne in corsetto o chiese gotiche. Si trattava di un altro mondo.
Le case erano edificate in murature di pietra e terriccio giallo o arancione, simile al colore del deserto. Qua e là si stagliavano ulivi dalle foglie verde-argento, palme di un verde splendente s'innalzavano verso il cielo e sugli edifici si arrampicavano cespugli di piante rampicanti piene di fiori colorati come il caprifoglio o la bignonia; vicino ad ogni casa zampillavano fontanelle di ogni grandezza e misura; in fondo alla strada, in lontananza, si scorgevano le cupole dorate e azzurre e le torri gialle dell'enorme palazzo del Sultano, che scintillavano sotto al sole.
La città era in fermento. Alcuni erano indaffarati a decorare le case e le strade di ghirlande di fiori colorati e piogge di petali, altri badavano a bancarelle colme di essenze profumate, tessuti pregiati e strane spezie arancioni, rosse e gialle, che mi facevano pensare alle foglie in autunno. In mezzo alla piazza principale, al centro di un mosaico dettagliatissimo, si ergeva una fontana gigantesca che per opera di qualche magia continuava a cambiare colore d'acqua.
Non era solo Costantinopoli ad essere diversa rispetto alle ambientazioni che si vedevano a Darlan. Era l'atmosfera in sé a cambiare radicalmente. Sentivo ancora un pizzico di magia nelle viscere di Costantinopoli. Nel cielo continuavano a moltiplicarsi bolle di sapone e i coriandoli si agitavano, continuando a prendere forme diverse, fra fiori e animali alati.
Era incredibile quanto il compleanno del Sultano potesse incitare il popolo a fare festa. Chiusi la bocca solo quando mi ricordai di essere un architetto impaurito, prigioniero di una brutta banda di briganti che volevano vendermi come schiavo.
Giungemmo davanti alle cancellate di pietra del monumentale palazzo imperiale e due guardie ci vennero incontro, sicuramente sollecitate dall'aspetto rozzo ed intimidatorio dei tre briganti. I tre spiegarono con qualche smorfia e minaccia che avevano intenzione di vendermi come schiavo per aggiungermi alla collezione dei poveretti prigionieri nell'harem del Sultano. Dopo qualche discussione - per nulla preoccupati dal fatto che mi avessero rapito -, convinti dal mio bell'aspetto, le guardie ci condussero fino ad una piccola struttura in legno collegata al cancello. Diedero due sacchetti di monete d'oro ai briganti e mi strapparono letteralmente dalle loro braccia.
«Un momento, dovete darci di più!» si lamentò il capo, avido e per nulla soddisfatto. La guardia lo fissò con un cipiglio scocciato e schivo.
«E' la somma fissa per ogni schiavo.» sentenziò perentorio, come se si fosse trattato di una tiritera ripetuta centomila volte ma che non ammetteva repliche. Il brigante incrociò le braccia, ghignando.
«Ma lui è vergine, di solito non date di più in quei casi?» replicò. La guardia alzò le sopracciglia, quasi con strafottenza. La sicurezza di quell'affermazione quasi mi portò a fulminarlo con gli occhi. Che cosa ne poteva sapere, lui?
«Puoi provarlo?» chiese la guardia, annoiata. Il brigante fece una smorfia, poi mi diede un piccolo calcio.
«Certo, lui ve lo confermerà.» mi lanciò uno sguardo tagliente. Di sicuro scelsi quel momento per mettere in atto la mia vendetta: mi posai una mano sulla guancia, sperando di avvampare il più possibile.
«Ecco... Io-io non... » balbettai, nascondendomi il viso fra le mani. Con il volto celato fra le dita, risi. La guardia gettò un'occhiata che parlava da sé all'indirizzo del brigante. Lo percepii tremare di rabbia e mi preparai a schivare un pugno. Ma la voce della guardia ci bloccò.
«Se non avete altro da dire» fece un gesto con le mani, come a volersi liberare dei sacchi dell'immondizia. «andatevene.» E li invitò ad eclissarsi dalla sua vista. Poi, un'altra guardia mi prese per il braccio, aprendo una porta nascosta alle sue spalle che sbucava all'interno del giardino del palazzo. Prima che potessi sparire oltre, sentii i briganti bisticciare.
«L'avevo detto che dovevamo violentarlo!» si lamentò scagnozzo B. «Ahia!» gridò e immaginai che il capo dei briganti avesse iniziato a suonargliele. Mi girai verso di lui alla ricerca del suo sguardo, che fortunatamente colsi subito. Come a fargli capire che non ero mai stato lo sprovveduto che gli avevo fatto credere in quei cinque giorni, gli rivolsi un perfido sorriso di trionfo.
"Mai ingannare un Assassino, se non si vuole essere ingannati" pensai a quel detto, mentre accompagnato dalle stesse guardie che avrebbero dovuto combattermi, mi infiltravo all'interno del palazzo pronto per pianificare i miei delitti.
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