29. L'Assassino e la loro fine [Finale libro 1]
Guizzai come un fulmine nei vicoli, i passi che mi rimbombavano dentro come i rintocchi di una pendola, mentre una forza pulsante mi pervadeva ogni singola cellula del corpo, ogni fibra nel cervello, nel sangue. Attraversai le strade e scavalcai muri, veloce come una scheggia, nient'altro che un'ombra scura in quella mattina dorata.
Scostavo con spallate i nobili che passeggiavano, che si affrettavano verso la piazza principale, prima dell'inizio di quel terribile spettacolo. Non appena si giravano per capire chi li avesse spintonati, io ero già sparito lungo altre vie, altri palazzi, altri sentieri illuminati dal sole.
Sempre più svelto, correvo verso il nucleo oscuro che si ergeva fra il temibile Palazzo del Re e il Teatro Reale. Volevo solo arrivare al patibolo e salvare Yul: ogni altro obiettivo era secondario. Alaister aveva detto che il luogo era ben sorvegliato, ciò significava che dovevo superare tutte le guardie che circondavano la piazza, che si tenevano strette intorno al palco della condanna, che sorvegliavano i prigionieri.
Non mi importava, eliminarli sarebbe stato un gioco da ragazzi.
Continuai a respirare affannosamente, precipitandomi più veloce di quanto potessi fare, spingendomi al limite delle forze. Saltai su una carrozza, mi aggrappai al balcone di una casa e salii, fino a raggiungere uno degli eleganti tetti verde smeraldo. Calpestai le tegole, rimasi in piedi per qualche minuto, immobile, mentre la brezza salmastra che veniva dal fiume Tibor mi faceva dondolare il cappuccio scuro, calato sulla testa.
Tornai a correre, ancora più rapido e silenzioso, uno scalpiccio sulle tegole in ceramica. Saltai da un tetto all'altro, solo per arrivare ancora più in alto, per riuscire a vedere quella piazza cittadina e analizzare la situazione. Mi issai su di un comignolo, saltai sui davanzali e mi aggrappai ad altri tetti, fin quando non raggiunsi il punto giusto da dove poter scrutare il patibolo.
La folla era fitta: un'enorme macchia scura che si espandeva per le candide strade di pietra bianca di Skys Hollow. E lì, al centro di tutto quanto, il patibolo. Edificato come un altare di pietra ospitava il boia con l'ascia in mano, insieme ad una fila di ribelli e criminali che aspettavano soltanto di essere decapitati.
Fecero salire un uomo incappucciato, gli scoprirono il volto. Lui iniziò a dimenarsi, ma la testa gli venne sbattuta sulla pietra, il collo venne scoperto e, inevitabilmente, l'ascia piombò.
Ritornai alla mia corsa, mi calai sul tubo di una grondaia, trascinai i piedi sulla pietra, cadendo così velocemente che le suole delle scarpe fumavano contro i muri. Atterrai silenziosamente in una stradina adiacente alla grande piazza. In quell'istante, una figura scura iniziò a salire sul patibolo, fieramente.
Mi fiondai fra la folla: ero poco più di un'ombra incappucciata fra la gente nobile e umile, tutti insieme per assistere allo spettacolo. La differenza di classe si cancellava davanti al gusto sadico di incitare le brutalità. O davanti alla paura per quel tiranno che aveva ordinato le esecuzioni pubbliche.
Mi feci spazio a forza di spallate, con passi sempre più repentini, mentre il parlottare delle persone intorno a me non era che un sibilo confuso e la vista del patibolo mi veniva coperta dalle teste e dai corpi dei cittadini. Poi la calca si aprì a ventaglio e le guardie iniziarono a corrermi incontro, scorgendo una figura sospetta che continuava ad avanzare imperterrita verso di loro. Mi sbarrarono la strada, le mani ferme sulle spade non ancora sguainate, come a percepire la minaccia.
Feci scattare i pugnali dai polsi, li infilai nei colli delle prime guardie che avevo davanti e quelle caddero a terra. Scagliai le due lame nascoste negli stivali e il gemito delle guardie agonizzanti mi fece comparire un ghigno malvagio sulle labbra. Smisi di correre, limitandomi a camminare col mento alzato, sotto lo sguardo dei cittadini sbigottiti. Con gli occhi fissi sul boia, sguainai le spade, facendone roteare una sulla testa. L'arma sibilò, mentre la guardia più vicina mi si lanciava contro.
Morì all'istante, una spada infilzata tra le costole e l'altra nel cuore. Ogni oggetto e ogni persona fra me e Yul era un ostacolo o un'arma, uno scudo o una trappola.
Mi girai di scatto verso la prossima guardia, piantando la spada nel suo petto e prendendo un terzo pugnale, che finì nella gola di un'altra. La mia lama lampeggiava. Spruzzi di sangue e bagliori sporadici di sole catturati dal ferro.
Una breve distanza mi separava dal boia, che guardava la scena basito. Caddero altre cinque guardie. Qualcuno mi scagliò contro un pugnale ma lo deviai con una lama, facendolo finire dritto nella gamba di un'altra guardia. Un gesto istintivo, ma fortunato. Poi uccisi altri due uomini.
Finalmente la scaletta di legno del patibolo fu libera. Infilai la spada nel fodero sulla schiena per avere le mani libere di darmi lo slancio, prendere la rincorsa. Non ero più una persona, ero un leone, una pantera, un'aquila. Raggiunsi l'ultimo scalino e feci un balzo. Ancora nell'aria, roteai il polso e il pugnale celato, ancora brillante di sangue, fu sguainato di nuovo. Il boia non ebbe il tempo di alzare l'ascia imbrattata che io gli piombai addosso, ginocchia sul petto, lama nella gola.
Nessuno osò fiatare.
A cavalcioni sul cadavere, rialzandomi, mi girai verso la figura incappucciata a cui avevo dato le spalle sino ad allora. Il cappuccio gettava ombre scure sul bellissimo volto dell'assassino dai capelli scarlatti. Mi fissava, un sorriso abbozzato sulle labbra, un accenno di fossette sulle guance. Con un gesto veloce del pugnale, le corde che gli stringevano i polsi caddero a terra. Il cappuccio gli scivolò sulle spalle e la chioma cremisi scintillò sotto al sole, mentre la bocca carnosa si increspò in un ghigno beffardo.
«Ce ne hai messo di tempo.» esclamò, senza staccare gli occhi blu notte dai miei. Mi avvicinai a lui, la voglia di abbracciarlo e riempirlo di schiaffi allo stesso tempo. Mi aveva fatto morire di paura! Sorrisi, con gli occhi forse un po' lucidi.
«Scusa il ritardo.» mormorai, sempre più vicino, finché non fu tra le mie braccia, finché non lo strinsi così forte da fargli mancare l'aria. Sentirlo sotto alle mie mani, udire il suo profumo fresco e dolce, la sua voce bassa e profonda, fu un sollievo così enorme per me, che quasi mi dimenticai di tutto ciò che ci stava intorno. Cancellai la folla, il patibolo, quelle poche guardie che rimanevano.
E fu uno sbaglio.
«Merda » sbottò Yul, staccandosi dalle mie braccia.
Dalla folla emersero frotte di soldati armati. Ne contai approssimativamente trenta, quaranta... No, cinquanta, da tutte le parti. Non dovevano essere passati più di due minuti da quando avevo eliminato il boia.
Mi stavano forse aspettando?
Erano tanti, troppi, e si erano ingegnosamente stretti intorno al patibolo, con le spade sguainate, creando un cerchio di ferro da cui era impossibile scappare. Estrassi una spada e la passai a Yul, mentre io mi munivo dei due pugnali nascosti negli stivali.
«Era una cazzo di trappola!» imprecò il mio compagno, stringendo con rabbia l'elsa dell'arma. Non mi interessava. L'importante era averlo ritrovato, l'importante era riuscire ad uscirne. Non ci restava che combattere con le unghie e con i denti: poi saremmo fuggiti nel Continente Meridionale.
«Guardami le spalle.» dissi, schiena contro schiena, armi sguainate, mentre roteavamo sul posto in cerca di vie di fuga, che non si vedevano. «Dobbiamo affrontarli.»
Mentre il cerchio si stringeva, notai subito Ciril Crow in rilievo rispetto al resto delle guardie. Trattenni a stento un ringhio. Rimase immobile, un ghigno sul viso, mentre un numero troppo grande di guardie lo aggiravano come il mare con uno scoglio, correndo verso di noi.
I miei pugnali sferzarono il vento con un sibilo, mentre la prima guardia mi si lanciava contro. Morì in brevi istanti. Subito sentii Yul infilzarne una seconda, tutti i suoi movimenti che trasmettevano una perfetta grazia omicida.
Tre guardie mi si scagliarono addosso, ma continuai a muovere le lame, a ricordarmi del Continente Meridionale che ci aspettava, a figurarmi il nostro futuro. Nulla poteva ostacolarmi. Altre quattro guardie, cinque, sei.
Erano troppe.
Ma non importava, io e Yul eravamo i migliori assassini addestrati, degli strumenti di morte e nulla poteva fermarci. Neanche dieci guardie. Che diventarono venti e poi trenta. Una schiacciata addosso all'altra, per cercare di sovrastarci, eliminarci, ucciderci. La schiena di Yul era calda, la sua spada continuava ad affettare l'aria, i suoi capelli vermiglio a risplendere al sole, le sue mani ad uccidere e uccidere e uccidere. Ma sembrava tutto inutile.
Erano troppe.
Troppe guardie, troppe spade, troppo ferro a cozzare l'uno contro l'altro, troppe voci e urla e grida. Era troppo.
Improvvisamente, le guardie intorno a me divennero decine e decine, troppe da poter respingere, troppe per riuscire a muoversi. Non riuscivo più a gestirle, non riuscivo a contrattaccare. L'unica cosa che potevo fare era difendermi.
E successe tutto troppo velocemente.
Ciril Crow che fissava il combattimento con un sorriso sadico, le guardie, la spada, le grida e poi... Lampi di luce negli occhi.
«HELIAS!»
Ci fu un istante che cambiò la mia vita.
Riuscii solo a vedere un guizzo scarlatto, così rimasi immobile. Un uomo si era posto fra me e la spada che stava per trafiggermi. Fissai le spalle larghe tese davanti a me, i capelli scarlatti scossi dal movimento. Notai la lama insanguinata spuntare dal suo petto alla sua schiena, trapassandolo da parte a parte.
Quell'istante si era fermato, ghiacciato. Impossibile ed impensabile. Reale.
E' ulcerante e doloroso il modo in cui tutta la tua anima può trasformarsi in un grido, in bilico sul filo di una spada affondata così velocemente. La mia anima lo fece. Dopodiché si abbatté il silenzio.
Yul cadde a terra.
Senza che me ne rendessi conto, tutta l'energia che avevo dentro, tutta la forza che mi aveva mosso fino a quel momento, si sgonfiò. Mi sentii tremare la terra sotto i piedi e precipitai a terra anche io, come un burattino a cui erano stati appena tagliati i fili.
Non si udirono più urla, perfino le guardie si bloccarono. Il mondo stava trattenendo il respiro.
«Yul.» ansimai, strisciando sul legno, verso di lui. Le mani, quelle mani bianche e affusolate che mi avevano accarezzato tante volte, si tenevano strette sulla ferita, immerse nel sangue.
Era vivo. Era ancora vivo.
«Hel...» mormorò. Tossì, il rosso gli schiumò sulle labbra. Gli premetti le mani sul petto, forte. Non gli avevano preso il cuore, ma era vicino. Era vicino.
E lui stava per... No. No.
C'era un'errore. Non poteva essere Yul quell'assassino a terra, con il petto intriso di sangue. Non quell'assassino che ghignava sorridente, con i brillanti occhi blu notte, che ora iniziavano a spegnersi sempre più velocemente.
«Me lo daresti un ultimo bacio?» sussurrò, qualche centimetro dal mio volto, mentre un rivolo di sangue gli scivolava sul mento.
«Ultimo?! Quando andremo nel Continente te ne darò cento! Mille!» Le mie mani premevano sulla ferita, più forte. Non mi accorsi che le mie guance erano bagnate, non mi curai delle lacrime che mi offuscavano la vista.
«Helias, Io... Ho paura.» I suoi occhi iniziarono a chiudersi, il suo respiro a farsi lento, sempre più lento.
«Yul, andrà tutto bene. Stai con me.» Gli strinsi una mano, il sangue contro il sangue. «Non mi lasciare. Resta con me.» supplicai. «Ti prego.»
Sorrise leggero come una piuma, mentre la mano che stringevo diventava sempre più fredda.
«Mi chiamo Yul Pevensie e non avrò paura.» I suoi occhi blu erano nei miei, mi guardavano, mi sorridevano. «Mi chiamo Yul Pevensie e non...»
Non concluse la frase.
«Yul...?» I suoi occhi erano ancora aperti, ma non brillavano più. «Yul?» La sua mano era gelida. «Yul, non farmi questo.» I suoi capelli rosso sangue, di quel rosso che mi imbrattava le mani, splendevano ancora. «Forza, non farlo...» Doveva essere una specie di sogno, oppure ero finito all'inferno, perché non potevo sopravvivere in un mondo che aveva permesso di fare quello al mio assassino.
«No. No...» Lo tenni fra le braccia, stringendo quel corpo che mi aveva abbracciato tante volte. Aveva ancora il suo profumo buonissimo e forse, se avessi baciato le sue labbra ancora una volta, avrebbero avuto lo stesso sapore alla menta e caramello che adoravo. Lo strinsi più forte.
«Oh no, no, no... Ti prego...» Le sue guance erano così fredde, i suoi occhi così vuoti. «Oddio. Ti prego, ti prego... Ti prego, non mi lasciare.» Non mi accorgevo che le guardie erano ancora lì, così come la folla. Non m'importava niente. «Ti prego, non farlo...»
Le lacrime mi sfuggivano dagli occhi, le spalle erano scosse da fremiti. Affondai il viso nella sua spalla fredda e rigida. «Svegliati...» Ma Yul non si svegliò più, perché i suoi occhi blu rimasero vitrei. «Devi svegliarti...» E la sua ferita rimase insanguinata, sulla sua bocca non ci fu più nessun ghigno beffardo, le sue mani rimasero accasciate sul pavimento. Il suo petto, immobile. Il suo cuore, fermo.
Improvvisamente capii quello che non volevo capire. Era morto. Yul era morto. Chiusi gli occhi.
Il mio amato, il mio Yul... Sentii un rumore di passi sulle scalette in legno del patibolo. Improvvisamente, mi pervase una rabbia oscura e cieca, una furia fredda che si propagò nelle vene.
Mi alzai.
Tutto quello che ero stato, tutto quello che ero diventato, non c'era più. Si era infranto in mille pezzi. Non esisteva più Sfavillo, non esisteva più Helias Bloomwood. Ero fuoco, ero oscurità, ero polvere e sangue e ombra.
Coprii il corpo di Yul con il mio mantello scuro e afferrai l'ascia del boia, che era ancora a terra, sul patibolo, mentre quel fuoco malvagio mi consumava la ragione e i sentimenti, finché non rimase altro che la mia rabbia, altro che la mia preda. Le guardie strinsero le armi, avvertendo immediatamente la minaccia.
Li avrei massacrati tutti.
Ciril Crow era sulle scalette del patibolo, un ghigno di puro piacere scolpito sul volto. Roteai l'ascia ed emettei un ringhio che più che di un essere umano, pareva appartenere ad un mostro. Mi lanciai contro l'uomo, ma frotte di guardie si frapposero tra me e lui. Non aveva importanza. Sarebbero morti. Tutti.
Scagliai i due pugnali che mi rimanevano senza neanche guardare la loro direzione, e il verso strozzato di un paio di guardie mi fece salire un risolino sulle labbra. Poi mi limitai a stringere l'ascia e ad immergermi in quel bagno di sangue.
Con una sola mossa, mozzai la testa di una guardia e quella volò oltre il patibolo, con un rumore lieve. Con i corpi mutilati, gole squarciate e ferite profonde, ne morirono altre quattro, poi cinque, sei, sette. I soldati sembravano infiniti, ma non bastavano a placare la mia rabbia, a colmare il silenzio. Non c'era fine a quel silenzio. Non ci sarebbe mai stata una fine, solo quell'inizio.
Mi girai di scatto verso un'altra guardia e il mio sguardo diventò fatale quando vidi di sfuggita Crow, ancora sul patibolo. Mi stava sorridendo, gli occhi scuri e luminosi, a godersi lo spettacolo in prima fila.
Piantai l'ascia nel petto dell'ennesima guardia. Dalla folla ne arrivarono altre e altre ancora. Ormai il sangue mi imbrattava i vestiti, facendomi apparire come un macabro macellaio, mentre un numero indefinito di guardie mi stringeva in un cerchio stretto ed io agitavo l'arma come un ossesso. Non mi separava da Crow che una breve distanza, ancora fermo a guardarmi con un'aria di piacere assoluto.
Dalla folla continuavano ad accorrere altri nemici, che diventavano sempre più numerosi, sempre di più, sempre di più. Qualcuno alle mie spalle mi sbatté l'elsa di una spada sulla testa. Il mondo sussultò.
No.
Un'altra guardia aveva alzato la spada, ma io schivai prontamente per piantargli l'ascia nelle budella. Arrivarono altri colpi. Nessuno usava le lame però, e l'ombra del sospetto tentò di penetrare nella coltre di rabbia. Ma venne spazzata via dalla mia lama, che si abbatté ancora.
Mi raggiunse un altro colpo alla testa, così violento che mi sdoppiò la vista. Sbandai, cadendo con lentezza a terra, con Crow che mi sorrideva ancora. Il pugno di una guardia mi colpì con violenza il plesso solare, facendomi ansimare dal dolore. Mentre barcollavo, qualcuno mi calciò le gambe e caddi ginocchia a terra. Una tempesta di colpi si scagliò su di me. Schiena, gambe, testa, costole. Mi coprii il volto fra le braccia, in posizione fetale, mentre cercavo di stare a passo con tutti quei pugni e quei calci. E il dolore esplodeva insieme alla consapevolezza...
C'erano state così tante guardie, troppe per un'esecuzione cittadina. Perché attendevano il mio arrivo. Era una trappola, ed io avevo abboccato all'amo.
A terra, con il corpo scosso dal dolore e la testa investita dal silenzio, udii passi felpati che si avvicinavano. «Basta così.» sospirò una voce maschile, il tono seccato. «Non vorremmo mica ammazzarlo di botte?» Il sussurro di una risata.
Con la vista offuscata, allungai il braccio per tentare di raggiungere l'ascia, ma ero troppo debole. E qualcuno ci mise un piede sopra, per poco calpestando le mie dita, mentre si chinava su di me.
«Buongiorno, caro Sfavillo.» disse Crow, un sorriso maligno sul viso, spostando la scarpa dall'ascia al mio petto, spingendo. Strinsi i denti, tentando di mettere a fuoco il campo visivo.
Con amarezza, capii che qualcuno ci aveva traditi. Sapevo che era impossibile fosse stata opera di Alaister: odiava le guardie, odiava Crow, odiava il Re. Ma poteva essere stato chiunque altro nella Gilda, qualcuno che ci aveva sempre invidiati e non voleva che fossimo felici.
«Con tutta la fama che hai, non stavo nella pelle per questo incontro!» esclamò, su di giri, un tono grottesco vista la quantità di cadaveri maciullati intorno a noi.
Dovevo andare da Yul, dovevo raggiungerlo. Non meritava di stare lì, fra quel sangue sporco. Dovevo andare da lui. «Anche se...» continuò, spingendo il piede sul petto ancora più forte. «mi aspettavo di meglio da te. Che disdetta. Cadere in una trappola tanto banale è da dilettanti!» Crow si mise a ridere. «Che cosa non si fa per amore...»
Amore. Improvvisamente mi venne in mente il suono che faceva Yul quando rideva. Qualcosa che avevo perso. Artigliai il piede che mi schiacciava, cercando di liberarmi in un guizzo disperato per saltare addosso a quel verme, ma spinse la gamba e mi schiacciò nuovamente sul pavimento.
Pensai al piano di Alaister e dei suoi uomini: sarebbero arrivati a momenti. A quel punto, avrebbero catturato Crow e sarebbe finita molto, molto male per lui.
«Lo sai» mormorò lui. «che sei davvero uno schianto? Mi piacerebbe averti tutto per me, ma i piani non sono questi.» sospirò, premendo lo stivale contro alle mie costole, togliendomi il fiato. Gli lanciai uno sguardo furente. Quale piano? Con chi?
«Ah-ha, so cosa stai pensando. Piccolo curioso! Dunque» si mise una mano sul mento. «il piano era circa questo: noi catturiamo Yul Pevensie, tu corri a salvare il tuo amorino. Lui muore, noi ti prendiamo.» Tolse finalmente il piede dal mio corpo, solo per chinarsi sopra di me, afferrandomi il mento fra le dita per sollevarmi la testa dal pavimento. «E' un vero spreco consegnarti al Re...»
Boccheggiai. Crow non voleva uccidermi e giustiziarmi lì, insieme agli altri, insieme a Yul. Voleva spedirmi dal Re. Il mostro, il tiranno terribile.
Non riuscivo a comprendere perché mi avessero fatto questo. Ma soprattutto, chi.
Chi era il colpevole di quel tradimento così abietto? Avevo molti nemici, ma il modo malvagio in cui ci avevano raggirati tradiva un odio ben più profondo. E anche se io ero detestato, Yul godeva della simpatia di tutti. Perfino di Trill... Ricordai ciò che aveva provato a dirmi: "E' solo una..." Una trappola.
Ancora ricordavo la cupezza della sua espressione. Ferale. Luttuosa. Lui sapeva tutto, qualcuno doveva averlo messo al corrente... Era venuto da me cercando di avvisarmi? Forse era stato proprio Alaister a mandarlo per fermarmi, comprendendo che qualcuno dei suoi stava facendo il doppio gioco? Doveva essere così. Perché altrimenti... No, non volevo pensarci.
«Mi piacerebbe restare a giocare in tua compagnia ancora per un po', ma sono un uomo piuttosto richiesto.» ridacchiò Crow.
Quanto tempo era passato? Alaister doveva essere arrivato da un pezzo, ma di lui non c'era neanche l'ombra. Forse era opera della talpa: stava cercando di farli tardare. E più tardavano, più le possibilità di fuga si assottigliavano fino a sparire del tutto. Chissà se fosse possibile scappare dalle prigioni reali...
Mentre ci ragionavo, all'improvviso Ciril Crow spostò la mano dal mento e mi colpì dritto sulla guancia. Fu un ceffone talmente forte che il sapore del sangue mi riempì la bocca. La guardia si ricompose con calma.
«Una piccola punizione per aver ucciso la metà dei miei uomini.» esclamò, sorridendo. «Ci rivedremo presto, Sfavillo.»
Fece un cenno ad uno degli uomini sopravvissuti: «Procedi.» Sussultai appena, ma non abbastanza in tempo per ritrovare le forze perdute. Vidi l'impugnatura di ferro di una spada, prima che mi venisse scagliata con forza sulla nuca. Non feci in tempo a lanciare un ultimo addio al corpo di Yul.
Era già diventato tutto buio.
***
La puzza di muffa, umidità e urina mi colpirono ancora prima del dolore alla testa e alle costole. Sfarfallai le palpebre pesanti, scosso dal freddo e dall'oscurità che mi circondava. Poi arrivò la consapevolezza.
C'era qualcosa che mancava, nel mondo, qualcosa di necessario. Mi risvegliai da quel sonno profondo e tenebroso che avvinghiava le sue spire intorno a me e feci ricorso ad un lunghissimo minuto per capire cosa.
Yul non c'era più.
I ricordi mi investirono con violenza, tanto da svuotarmi i polmoni di tutta l'aria che contenevano. Mi sentii mancare il fiato e rimasi immobile, fossilizzato in un angolo di quella lurida cella.
La luce del sole era sparita e dai minuscoli anfratti in alto, sulla parete, coperte da un graticolato di strette sbarre, penetravano a malapena i bagliori della luna. Dovevano essere passate molte ore, perciò o Alaister non aveva idea di dove mi avessero portato, oppure mi avevano rinchiuso in un luogo particolarmente introvabile. Ma mi avrebbe scovato. Doveva farlo. In fondo, era colpa dei suoi uomini se non ero riuscito a salvare Yul ai cancelli di Ender.
Me lo doveva. Mi doveva tante cose, dopo quello che ci aveva fatto. Liberarmi da quella cella era il minimo.
In effetti, ero chiuso in una segreta: non avevo più nessuna delle mie armi e i ceppi ai polsi e alle caviglie erano pesanti, legati da un massiccio catenaccio contro la parete. Non feci nulla per provare a liberarmi, mi limitai a spostare lentamente con la punta dello stivale un anello della catena, per sentirlo tintinnare. Un singolo tintinnio in quel silenzio impregnato di morte e di dolore.
Realizzare il modo terribile in cui Yul era morto, sapere che qualcuno aveva usato il nostro amore per ordire un inganno così meschino... Mi venne voglia di gridare, di gridare a squarciagola, eppure non riuscivo ad emettere neanche un fiato, al pari di un guscio vuoto, di un animale che era stato sventrato e spellato. Qualcuno proprio adesso stava sfoggiando la mia pelle, costruendo il proprio trionfo sulla dipartita del mio amore.
Yul era morto. Ed io ero in prigione.
Non mi spostai dal pagliericcio sporco che mascherava a malapena il pavimento freddo. C'era una fossa dove espletare i miei bisogni all'angolo opposto, esattamente come un cane. Quel singolo dettaglio mi rivoltare lo stomaco, ricordandomi quanto poco contasse la mia esistenza, in queste prigioni. In questo mondo.
Non mi restava più nessuno.
E per nessuno avrei più combattuto, disprezzando un mondo che continuava ad andare avanti, indifferente alla morte di un giovane, ignorando che fosse mai esistito, che avesse respirato, che mi avesse amato. Odiavo il mondo perché andava avanti.
Il ricordo del viso di Yul si stava già sfocando. Di che colore aveva gli occhi blu notte: più luminosi o più scuri? Non riuscivo a ricordarlo. E non avrei avuto l'opportunità di scoprirlo.
L'opportunità di vedere quel mezzo sorriso, quelle fossette. Di ascoltare la sua risata, di sentirgli pronunciare il mio nome come se avesse un significato speciale, non come se fosse semplicemente il nome dell'assassino più famoso di tutta Darlan. Non volevo vivere in un mondo in cui lui non c'era.
Così socchiusi gli occhi e lasciai che andasse avanti senza di me. Perché io di certo mi sarei risparmiato la fatica di proseguire. Ero così stanco.
Dopo aver sonnecchiato ancora un po', con la testa appoggiata contro al muro, entrò un omone massiccio in un'elegante divisa blu notte con lo stemma dorato dell'Impero. Una guardia reale.
Perciò mi trovavo nelle segrete reali ed ero definitivamente caduto nelle mani del Re.
Gli lanciai un'occhiata disinteressata, notando che le chiavi della mia cella non erano a vista e che non indossava armi, per non correre il rischio che le usassi contro di lui. Vedendo la mia assoluta mancanza di azioni e la mia totale apatia, non disse una parola: si limitò a sbattere a terra un vassoio di quello che era il cibo. Sbobba grigia e pane raffermo. La cena, con tutta probabilità.
Quella fu la definitiva conferma che mi servì per comprendere, dopo tutte le ore passate, che Alaister non sarebbe venuto a salvarmi. A volte, quando i sicari della Gilda finivano in mani nemiche, veniva mandato qualcuno sotto copertura per dare del veleno all'assassino, così che potesse farsi fuori e non lasciar trapelare nessuna informazione sensibile.
Ma non era il mio caso. Era impossibile che qualcuno dei miei colleghi arrivasse sino a lì. Altrimenti, sarebbe arrivato Alaister prima di tutti gli altri: ero stato il suo protetto. Ne andava della sua reputazione, salvarmi. Di certo era stato raggirato dalla stessa persona che aveva ingannato Yul con quella finta missione.
Poco importava. Non mi serviva essere salvato. Yul ormai non c'era più e, con lui, mancava ogni ragione di combattere. Di Sfavillo non restavano altro che macerie. Il ragazzo che si era infiltrato nell'harem del Sultano, il ragazzo che aveva sfidato il Re dei Pirati e aveva rubato il suo tesoro, il ragazzo che aveva eliminato un vampiro, il ragazzo che guardava l'orizzonte oltre Skys Hollow e iniziava a credere nell'amore... Quel ragazzo era scomparso.
Annientato. Annichilito. Distrutto dal dolore profondo di quel fallimento.
Yul era morto per proteggermi. Non ero riuscito a salvarlo, neanche ad ammazzare il bastardo che aveva pilotato le cose in modo che il mio amato perisse sotto alla lama del nemico.
La guardia mi gettò un'ultima occhiata e richiuse la porta. In bocca mi si era sedimentato il sapore metallico del sangue e, anche sforzandomi di addentare un po' di pane, lo trovai disgustoso. Anche quello sapeva di sangue. Il mio mondo era fatto di sangue.
Abbandonai qualsiasi tentativo di farmi venire fame e qualsiasi pretesto il vassoio del cibo potesse fornirmi anche solo per provare a fuggire. Non c'era modo di andarsene dalle segrete reali: non era come fuggire dalle celle di un veliero pirata. E poi, perché sforzarsi tanto?
Non sarei andato da nessuna parte. Non più.
Perché Yul era morto.
Chissà che fine avrebbe fatto il suo corpo. Sarebbe finito in una sporca fossa comune, insieme a tutti gli altri criminali giustiziati. O lo avrebbero bruciato su una pira? Anche quello era stato un fallimento. Mi abbracciai le ginocchia, nascondendo il volto fra le gambe in cerca di una pace che non sarebbe mai più arrivata, perché il dolore era una creatura viva e aguzza che mi strisciava sotto l'epidermide e non mi avrebbe mai lasciato in pace.
Mi crogiolai nell'insulso vuoto del tempo che passava, perdendone la cognizione, ascoltando senza farlo per davvero le chiacchiere futili delle guardie: alcuni stralci mi raggiungevano, pezzi di parole e frasi a cui restavo aggrappato. Solo per qualche istante.
«Il Capitano torna a Skys Hollow? Ma il processo è domani! Non arriverà in tempo per l'esecuzione.»
Esecuzione... Certo. Ovviamente.
«Secondo te è veramente Sfavillo?»
«E' solo un ragazzino...» borbottò l'altro.
«Be', tieni cucita la bocca. Il Re non vuole che se ne parli.»
«Chiaro. Che il famigerato assassino sia quel pivellino lì... Potrebbe far arrabbiare troppa gente non essere mai riusciti a catturare un ragazzino. Sai che palle, i nobili.» Schiocchi di lingua, sbuffi.
«Per me non è lui. Hanno solo bisogno di un povero idiota che faccia da capro espiatorio per quello che è successo al patibolo, stamattina.» Altri suoni: il tintinnio del metallo, mazzi di chiavi forse. «Anche perché, quello sembra avere qualche problema mentale.»
Silenzio prolungato. «Ti guarda con certi occhi vuoti...»
«Solleverà un sacco di polemiche. Per questo il Re vuole che sia un processo a porte chiuse.»
Prima che abbandonassi l'ascolto, sentii solo: «Non si sa ancora se lo appenderanno alla forca o gli taglieranno la testa.»
***
E questo era il mio nuovo Inferno: che tutto fosse ancora cambiato, senza alcun cambiamento. Ero ancora bloccato a Skys Hollow. Ero ancora Sfavillo e sarei stato giudicato per i crimini che come tale avevo commesso.
La sete di vendetta che mi aveva alimentato per tutti questi anni era svanita e al suo posto c'era un pozzo di cenere grande quanto Darlan: dolore e disperazione, quell'infelicità divorante e, ai magini, la vaga sensazione di... Un'arresa. Una sconfitta.
Le conseguenze del mio fallimento erano ripugnanti. Ne sopportavo la vista adesso, mentre mi tenevano puntate le lance addosso e venivo trascinato come una bestia per i catenacci collegati ai ceppi intorno al collo, ai polsi e alle caviglie. Camminavo a piccoli passi ed ogni movimento era un tintinnio che risuonava forte come un pianto di bambino.
Poi fui fatto entrare nella sala del processo: di pietra levigata e legno tirato a lucido che profumava di cera e pino, un odore che mi parve così normale in quella situazione da risultare spiacevole. Era spaziosa, con una sediolina scomoda al centro per me e grandi tribune che mi circondavano ad ogni lato.
Mi sarei aspettato fossero affollate, tutti accalcati per avere una fetta di torta di Sfavillo annientato una volta per tutte, invece come avevano detto le guardie era un processo a porte chiuse. Quel pallido sollievo fu come un risucchio d'aria ghiacciata, dolorosa, e altrettanto acuta ed improvvisa fu la paura al pensiero di ciò che mi aspettava. Forca o scure, corda o ascia.
Mi obbligarono a sedermi, di fronte alla tribuna di qualche consigliere che mi scrutava da una distanza di sicurezza. Tutto mi faceva venire in mente tanti anni prima, quando ero stato condannato a Treblin. Ma quella volta era diverso. La stanza era più piccola e meno austera, e c'erano poche persone a cui interessava quasi nulla di un ragazzino malfamato.
Eppure, adesso tutti nella stanza, fra le persone sulle tribune e le decine di guardie, mi stavano osservando. Immaginando quale sarebbe stato il mio destino e come sarei morto.
Nel giro di un attimo mi investirono ondate di freddo e caldo, brividi gelidi mentre le mie mani si chiudevano a pugno, talmente strette da bruciare. Che importava? In fondo, me lo meritavo. Se avessi accettato la proposta di Yul, di fare i bagagli ed abbandonare Skys Hollow con lo stretto necessario, adesso saremmo stati vivi. Vivi e felici da qualche parte, lontano. Insieme.
Invece volevo una vita di tutto rispetto per entrambi, perché avevo osato sognare. Sperare. Ma che senso aveva, se tutto ciò che ci serviva eravamo noi stessi?
Era colpa mia. Era colpa mia perché lo amavo. Lo amavo e avrei dovuto lasciarlo andare quando mi aveva detto la sua intenzione di volersi trasferire. Invece lo avevo fatto restare. Ed era finita nel peggiore dei modi.
Gli stralci, anzi stracci di pensieri, vennero soffocati quando i consiglieri si alzarono in piedi, mentre l'ampia doppia porta del tribunale si spalancava per far entrare Lui. Il Re dell'Impero, che esercitava il suo tirannico pugno di ferro su tutto il Continente Magico.
Soffocai la paura cruda e viva che provai schiacciando gli occhi sulle sue scarpe, stivali lucidi e neri. Non potevo guardarlo. Perché se lo avessi fatto avrei sentito un terrore talmente mostruoso, un empio orrore così agghiacciante da farmi fermare il cuore. Il motivo per cui avevo combattuto, sgominando la schiavitù e uccidendo funzionari, era in quella stanza.
Restò in piedi ed evidentemente fu solo grazie ad un suo cenno se tutti gli altri, in quella stanza, potevano sedersi anche se lui restava stoicamente dritto su due gambe. Continuai a guardare il pavimento, mentre il silenzio assordante mi feriva le orecchie.
Poi, una risata. O meglio, un sogghigno basso, che risuonò come una lama che ti spezzava le ossa, come unghie contro la pelle intonsa. Come lo sgocciolio del sangue sul pavimento. Non mi serviva osservarlo per percepire la sua immensità, ingombrante, asfissiante. Riempì tutta la stanza e mi fece venire la claustrofobia.
«Soltanto un ragazzino pesto.» esordì il Re. «Che cosa penserà il popolo della temibile leggenda urbana che sei diventato, guardandoti adesso?»
Quella voce. Era come se qualcosa grattasse nei meandri della memoria, come se un tarlo rosicchiasse per arrivare a quel ricordo che avevo nascosto. Volevo gridargli di stare zitto. Di lasciarmi in pace. Volevo tapparmi le orecchie e sperare che tutto quanto passasse molto in fretta.
«Dimmi il tuo nome, bambino.»
Bambino. L'aveva detto con un tono di sadico affetto, quasi come se mi conoscesse, come se sapesse ogni mio più piccolo, recondito segreto. Ebbi voglia di strapparmi la pelle di dosso, la pelle che adesso attirava quel suo sguardo malvagio. Non avevo mai visto il Re in faccia. Non lo avrei fatto nemmeno adesso.
E poi, ricordai, Yul ormai se n'era andato. L'avevo perso. Non serviva rispondere alle sue domande, né implorare per un giudizio magnanimo. L'ultima cosa che avrei fatto sarebbe stata pregare quel mostro.
«Crow ti ha tagliato la lingua, devo immaginare.» disse, il tono ammantato da cupo divertimento.
Lui era lì. Quello schifoso criminale, quell'infame bastardo: Crow mi stava fissando anche adesso, godendo immensamente, come se avesse sognato questo momento. Il giusto prezzo dopo che avevo annientato molti dei suoi soldati.
Il processo proseguì e il Re si sedette al centro della tribuna, nel mezzo dei suoi consiglieri. Si fece consegnare una lista che scartabellò in tutta lentezza. «Si leggano i capi d'accusa.»
Un altro dei membri della corte si alzò in piedi, attirando l'attenzione degli individui presenti con un tamburellare del martelletto di legno. E quindi iniziò a leggere una lista di nomi talmente lunga da sembrare interminabile, guadagnata da tutte le volte che avevo lasciato la mia firma, tutte le volte in cui mi ero pavoneggiato... E il motivo di quell'arroganza ora mi veniva rigirato e sbattuto in faccia. Per farmela pagare fino all'ultima goccia di sangue.
«Avete qualcosa da dire a vostra discolpa?» seguitò il consigliere. Profonda vergogna e tristissima pena, per non essere riuscito a finire il lavoro fino alla fine, coronando quella lista col nome di Crow. «Se non risponderete, significa che non contestate di essere Sfavillo, colpevole di quanto è stato appena illustrato.» Una profonda pausa. «E' sufficientemente chiaro?»
Lo stato di stordimento in cui vivevo da circa due giorni continuò ostinatamente a farmi stare zitto. Non mi importava più nulla. Di niente.
«Abbiamo tutte le conferme che ci servono.» asserì il Re, in un ringhio basso, feroce ma compiaciuto. Non gli importava: che combattessi o meno, ero dentro alla sua tana e mi avrebbe spolpato, osso dopo osso. «Che il mio verdetto venga messo agli atti.»
I consiglieri, giudici e notai si prepararono a scrivere. Era divertente pensare quanto si fosse impegnato per fingere che ci fosse una legalità e una giustizia in ciò che stava succedendo, quando lui solo manovrava l'intera situazione. Il mondo intero era sapientemente manovrato dai suoi fili.
Aspettai che finalmente dicesse quale morte mi sarebbe toccata, in che modo avrei raggiunto Yul. Invece, al posto delle parole avvertii il rumore di passi. Uno dopo l'altro, aveva raggiunto lo spazio di fronte alla mia sedia. Sapevo anche, dai suoni nella stanza, che ero sotto il tiro di tutte le guardie presenti. Un solo movimento sospetto ed era finita.
«Alza gli occhi.»
Qualcosa rimbombava nella mia testa, come un'eco silenziosa. Nascondi gli occhi.
«Alza gli occhi.»
Nello spazio che divideva me e il sovrano crepitò qualcosa che non avevo mai udito prima: una vacuità e un'oscurità talmente profonda che l'atmosfera stessa sembrava rarefatta. Sembrava lacerata.
«Alzali.»
Sollevai il mento e finalmente posai lo sguardo su quell'uomo, quello che sentivo di aver già incontrato, talmente tanto tempo prima che sembrava fosse passata un'intera vita, da allora.
Il sovrano, nonostante tutto il tempo in cui aveva regnato, non mostrava segni di vecchiaia. Era bello come il peccato e, come il peccato, dava un'idea di sporco, nonostante tutto il suo candore. La chioma dorata era cinta da una fascia d'argento semplice, a malapena ricordava una corona. Il corpo alto e muscoloso era avvolto da un mantello nero bordato d'emellino e il suo sorriso avrebbe potuto far venire gli incubi.
Ma ciò che mi turbava profondamente erano i suoi occhi e il ricordo che suscitarono.
L'uomo si fermò. Vide l'armadio e ghignò. Le ante si aprirono, la luce delle candele mi illuminò. La sua ombra mi sovrastò. Trattenni a stento un urlo, con gli occhi pieni di lacrime.
E incontrai lo gelido sguardo color ghiaccio dell'uomo che aveva ucciso mia madre.
Mi sentii impallidire quando quelle iridi di ghiaccio si fermarono nelle mie, con una profondità divorante che minacciava di risucchiarmi via l'anima dalle labbra.
Dovevo fuggire. Dovevo correre fuori da quella stanza, mettere quanta più distanza fra me e quell'uomo. Allontanarmi per sempre da Skys Hollow. Tutta una vita passata a desiderare la vendetta, ed invece mi accorsi che non ero mai stato pronto.
Perché finalmente seppi chi aveva ucciso mia madre.
Era stato il Re.
«Posso concederti solo un ultimo desiderio, prima di decidere il tuo destino.» disse, con una gelidità impenetrabile e disumana. Aveva capito che ero io? Era consapevole di chi fossi? Sapeva chi aveva ucciso con le sue stesse mani?
Riuscivo ancora a sentire l'odore del sangue che tredici anni prima aveva imbrattato il tappeto di quella stanza del bordello, le ultime parole di mia madre, la sua paura. Mi limitai a fissarlo, la rabbia come una bestia silenziosa e incatenata che non aspettava altro che scatenarsi, ma che non poteva farlo.
Proprio mentre il Re si girava davanti al mio silenzio, diretto verso la tribuna, qualcosa dentro di me si risvegliò. Un'ira talmente mostruosa, una collera così gelida, da respingere la tempesta d'apatia e spezzare via quella mia disastrosa arresa. Riportando la lancetta indietro, a quello che ero prima che la morte di Yul mi distruggesse.
Un barlume del ragazzo che aveva compiuto tante imprese. Che aveva amato sua madre. Aveva amato il suo ragazzo. E che sarebbe andato nella tomba, almeno con la consapevolezza di aver guardato negli occhi quello sporco assassino senza piegarsi.
«Ce l'ho.» Finalmente, finalmente parlai. Tutti trattennero il respiro. Piegai le labbra in un sorriso da scellerato. «Datti una mossa.»
Sarei potuto diventare l'ostilità del Re fatta persona, per il modo in cui mi guardò, con astio e divertimento, che faceva sembrare il suo sorriso feroce una cosa dannatamente viva, pronta ad attaccarmi.
Congiunse le mani davanti a sé, statuario e granitico, come il minaccioso monumento a guardia di un cimitero. «Vuoi una morte rapida, bambino?» All'improvviso, quella rabbia viscerale scomparve, soffocata sotto alla paura. «Non la avrai. Non fin quando non avrai provato dolore con ogni fibra del tuo essere.»
Stavo trattenendo il respiro, oppure avevo semplicemente dimenticato come si faceva a respirare.
«Tu, Sfavillo, sei condannato a vita ai lavori forzati nel campo di Ender.»
Avvenne tutto troppo in fretta e per un attimo persi l'equilibrio e l'unica cosa che mi tenne arpionato sulla sedia furono i catenacci pesanti. L'inutile pensiero che mi girava nella testa era: non può. Non può essere. Non è vero. Mentre la risata del Re riecheggiava dentro. E rideva e rideva.
E rideva.
«E speriamo che le guardie abbiano la cortesia di mantenerti in vita il più a lungo possibile. Così potrai assaggiare la speciale agonia di Ender.»
Ender.
Il resto si fece di nuovo silenzio, inframezzato solo dallo stesso inutile ritornello: non può, non può, non può. Ma mentre venivo caricato, sotto ordine del Re, nel primo carro in partenza, mi resi conto che l'aveva già fatto.
Ender.
Anche se di solito i caravan degli schiavi erano pieni zeppi fino a scoppiare, come un carro del bestiame, quello era vuoto e sigillato, tutto per me. Così che potessi gustare la solitudine prima di arrivare nel posto dove sarei stato rinchiuso per tutta la vita. Per sempre. Fino alla morte.
Mentre i cavalli e il convoglio di guardie iniziava a muoversi, mi concessi di lanciare un ultimo sguardo a quella città, quella che stavo definitivamente lasciando, ma non su una nave in partenza verso il Continente Meridionale insieme a Yul. A Skys Hollow c'era tutta la mia storia: il bordello dove ero nato fra le braccia gentili di mia madre, i vicoli sporchi dove avevo abitato da ragazzino, la Fortezza dove ero cresciuto e mi ero fatto le ossa per sopravvivere, la casa che avevo condiviso con l'unico uomo che avevo mai osato amare.
La mia storia. Che adesso stava volgendo verso quell'inesorabile fine.
***
Che giornata, per Ciril Crow! Sorrise come una iena, scandagliando l'uomo che aveva di fronte, comodo sulla poltroncina di quel salottino all'aperto. Alaister Noir. Dalla balconata, egli osservava con gli occhi di un avvoltoio il carro prigionieri che lasciava la loro città, mentre sorseggiava un bicchiere di Pinot grigio.
«Questo colpo di scena mi ha davvero eccitato.» sogghignò la guardia, prendendo la bottiglia dal secchiello del ghiaccio per riempirsi il bicchiere più del necessario. Sentiva ci fosse da festeggiare. «Fra tutte le possibilità, proprio Ender! L'ironia della cosa mi affascina.»
Il Re degli Assassini spostò gli occhi dal carro a lui, impassibile, gelido. Accolto dal suo silenzio, Crow continuò il suo piccolo soliloquio. «Attaccare un carro prigionieri, una volta fuori dalla capitale, è un giochetto banale. Quindi mi chiedo perché non farlo, visto che il tuo piano brillantissimo aveva come obiettivo quello di avere Sfavillo tutto per te.»
Fece arieggiare il liquido rosso facendo dondolare la coppa di cristallo e proseguì, ricordando ad entrambi con fare compiaciuto: «Creare una falsa missione e tendere loro una trappola. Spingerlo a salvare il suo amante per ucciderlo sotto ai suoi occhi... Davvero subdolo e perverso. Veramente un peccato lasciarlo andare così.»
Il suo alleato, Alaister, non aveva ancora detto una parola. «E allora perché architettare tutto questo?»
Le ciocche di capelli corvini dondolavano alla brezza salmastra del fiume Tibor, i brillanti occhi topazio erano inchiodati su quel misero puntino che era il carro, dove quello che era il suo protetto ora si trovava rinchiuso.
C'erano molte ragioni, racchiuse dietro alle sue palpebre. Ma una di quelle trovò strada sulla sua lingua, prima di tutte le altre: «Perché era mio e sarebbe dovuto rimanere tale.»
***
Quanti giorni erano passati? Tre o quattro. Difficile dirlo, perché spesso precipitavo in un mondo dove il tempo non esisteva, perché era il passato a comandare. Mi smarrivo nei ricordi e lì preferivo restare.
Ogni tanto, attraverso le sbarre, le guardie porgevano una borraccia con qualche dito d'acqua e gli avanzi rosicchiati della loro cena. Era tutto quello che potevo guadagnarmi e i morsi della fame mi azzannavano lo stomaco uno alla volta. Ma era una sensazione remota e distante, come anche il freddo e il dolore. Come vivere in un sogno.
Anzi, in un incubo.
Dovrai far fronte ad enormi dolori, mi aveva detto una volta il Signore della Giungla. Aveva avuto sempre ragione, ma io non lo sapevo.
Non sapevo che il mio mondo era un misero castello fatto di cenere, spazzato via dall'urlo che avevo esalato quando Yul era caduto a terra. La cenere di un mondo arso dal sangue, dalla collera, dalla perdita. L'acre sapore di quella distruzione mi si era sedimentata fra le labbra e la lingua.
Un tempo pensavo che bastasse avere un sogno. Non importava se era un sogno stropicciato o sgualcito. Era comunque un sogno: amare qualcuno, avere una bella vita, un bel futuro. Quel sogno era la causa malefica di tutto? Quel silenzio, quella vacuità infinita, mi permetteva di non sentire il senso di colpa tamburellarmi la testa.
Un cavallo nitrì con forza all'esterno del carro, cercando senza successo di riportarmi al presente. Prendendo la strada più lunga e più sicura - diversa rispetto a quella percorsa in missione - ci voleva ancora una settimana per arrivare al campo di lavoro di Ender e ogni miglio ci portava sempre più a nord, al gelo. Le estremità del mio corpo erano ghiacciate e non avevo molto con cui coprirmi, ma anche quella sensazione era remota.
Perché se mi fossi fermato a pensare, a conteggiare quanto tempo ancora mi rimaneva fuori da quei cancelli, da quel mondo grigio e oscuro che era Ender... Se mi fossi effettivamente accorto del destino che incombeva come una spada di Damocle sopra di me...
Il mio pomo d'Adamo sussultò.
Potevo essere stato a Treblin, ma non era nulla, in confronto a ciò che mi aspettava. Quello che si mormorava, le indicibili violenze che venivano commesse... Ender era un campo di morte assicurata. Una destinazione senza via di ritorno.
No, non pensare. Non farlo. Non osare.
Eppure, mentre cercavo di isolarmi e di tenere lontano il mondo oltre quel carro, avvertii all'improvviso una serie di esclamazioni, sospiri di sbigottimento e stupore. Fu come se qualcosa mi chiamasse.
Le gambe si mossero da sola, addormentate e doloranti, infreddolite e stanche, mentre mi issavo in punta di piedi e mi aggrappavo alle sbarre per guardarci attraverso. Fino ad allora, il convoglio di soldati aveva ciarlato di qualsiasi cosa, passando attraverso il bosco che scorreva in una serie ripetitiva di conifere, fra abeti, pini e larici.
Adesso, sotto al mio sguardo di ghiaccio, il sole illuminava il terreno cosparso di foglie secche e bacche cadute. E lì, in pieno autunno, in una stagione dove non poteva crescere niente, c'era un campo.
Mi mancò il respiro.
Afferrai saldamente i pioli della finestrella. Era un'enorme ed immensa distesa di fiori blu, di non ti scordar di me. Crescevano rigogliosi, insinuandosi con prepotenza fra gli alberi, animati da una magia che non riuscivo a descrivere.
«Ma che accidenti...?» bisbigliò una delle guardie. La magia era ormai scomparsa in luoghi oscuri come Ender. No, la magia era ormai scomparsa a Darlan, del tutto. Il Re aveva infuso ogni suo sforzo per eliminarla.
I fiori, i petali di un blu talmente spettacolare da mozzarmi il fiato, continuavano a duplicarsi, moltiplicarsi, e il campo si estendeva continuamente a macchia d'olio, colorando quel paesaggio grigio e monotono.
Non ti scordar di me.
"Significano amore vero, indimenticabile", aveva detto una volta Yul, mentre festeggiavamo il mio compleanno e fantasticavamo già sul nostro futuro. Aveva tappezzato l'intera casa di fiori e mi aveva fatto ingozzare di torta fino a farmi scoppiare.
Non lo avrei dimenticato.
Chinai il capo, pur tenendo gli occhi sul campo. Anche se era morto, pareva che Yul vigilasse ancora su di me.
Quella vacuità silente e fredda vacillò, mentre quei fiori sembravano ricambiare lo sguardo. Come avevano fatto a sopravvivere, no, a crescere, con un freddo così rigido? Eppure erano lì, una macchia colorata nel verde-grigio compatto degli abeti.
Erano lì.
E c'ero anch'io.
Le lacrime, quelle che avevo ostinatamente trattenuto fino ad ora, fioccarono copiose sulle guance. Il carro continuava la sua avanzata, il campo di fiori blu iniziava ad allontanarsi, ma quelle perle continuavano a segnare la loro discesa.
Non ti dimenticherò, Yul.
«Non ti dimenticherò!» urlai. Un unico, liberatorio grido, che sconfisse il silenzio.
I fiori continuarono a moltiplicarsi, a seguirmi, anche se il carro aveva superato il campo. Lasciai andare le sbarre con le dita tremanti, crollando sulle ginocchia ad ascoltare il suono affannoso del mio stesso pianto.
Il vuoto nella mia mente era stato spazzato via: al suo posto il dolore al cuore, ben peggiore di quello fisico, mi sovrastò tutto insieme, con un'ondata di singhiozzi. Ogni singhiozzo era come una tempesta che tormentava la mia figura esile, tormentandola e scuotendola.
L'assenza ulcerante di Yul mi strappava la voglia di respirare, almeno quanto il terrore, quando ricordai cosa mi aspettava fra pochi giorni. Stavo andando ad Ender. E ci sarei rimasto.
***
POV ???
Aprii gli occhi.
La luce era accecante e bianca. Non riuscivo a sopportarla. Chiusi le palpebre di riflesso e mi schermai la vista con una mano. Dov'ero finito?
Udii un rumore di passi, lento e leggero.
Sfarfallai le ciglia, ricomponendomi. Non sapevo come fosse possibile tanta luce senza il sole nel cielo. Già, dov'era finito il sole?
Il corpo doleva, ogni muscolo appesantito, schiacciato. Il suono di quella camminata cessò. Ancora steso a terra, tolsi la mano dagli occhi. La luce aveva smesso di brillare e adesso riuscivo a vedere qualcosa.
Una donna era ferma davanti a me, o almeno, le gambe di una donna. Perché quando alzai il viso, sobbalzai. Sembrava la faccia di un demonio, rossa, con delle corna e una criniera di capelli neri. Solo qualche minuto dopo mi accorsi che si trattava soltanto di una maschera in ceramica.
La ragazza se la sfilò e mi tese la mano, invitandomi ad alzarmi.
«Questo è il tuo nuovo inizio.» sussurrò. «Benvenuto nel regno di Red Mask.»
***
~ 𝔼ℙ𝕀𝕃𝕆𝔾𝕆 ~
Quando tutto il tuo mondo crolla, l'unica speranza che ti rimane è... Sperare. Avere la forza di sperare, ancora. Ormai era passata una settimana dalla visione del campo di fiori magici, eppure, mentre Ender si avvicinava e le mie orecchie si riempivano del suono lontano di grida dolenti, ancora speravo di riuscire a farcela. Il carro percorreva proprio quella stessa strada che ci aveva portato alla missione e aveva segnato inesorabilmente la mia fine e quella di Yul.
Era difficile fare appello alla speranza, quando ricordavo che ero rimasto completamente solo. Avevo perso tutto.
Non riuscii a smettere di tremare, mentre i rumori di certi schiocchi di frusta violenti s'intrufolavano nei miei canali uditivi. Era un tremito convulso. Avevo difficoltà a respirare, mi sentivo in preda alle vertigini. Respira, mi dissi. Spera.
Ma non arrivò alcuna speranza, solo qualche stentato respiro.
Il solo pensiero di quel mondo brutale e crudo che mi sfiorava i sensi, della morte che baluginava negli occhi vuoti degli schiavi e della totale assenza di pietà negli sguardi dei carcerieri, mi fece cadere in ginocchio per vomitare.
Ender.
Sapevo di non essere pronto. Non si era mai pronti ad un simile incubo, specialmente quando capisci di non poterti risvegliare. L'unica consolazione era che Yul non potesse vedermi in quello stato pietoso.
L'ombra degli alberi si diradò, quando il cancello si fece tanto vicino da essere privo di vegetazione a coprirlo. C'erano così tante guardie lì dentro che volevano farmela pagare, per tutto ciò che avevo fatto, per tutti i colleghi che avevo ammazzato. Oh Dio, Oh Dio.
Vomitai ancora. I conati mi torturarono, spasmo dopo spasmo, finché non furono in grado di trasformarmi in un guscio vuoto, un involucro. Mi doleva la gola e nel mio tremare, sentii la chiave dondolarmi dal collo, picchiettando gentilmente il pavimento sporco.
La strinsi fra le mani. Quella chiave non era che l'unico ricordo di mia madre, quella chiave che nessuno mi aveva tolto perché non rappresentava un'arma. Sbagliato, quella chiave sarebbe stata l'arma con cui sarei andato avanti.
Avrei pensato a mia madre, a Yul, e sarei andato avanti.
Ma non sarei mai stato pronto per quello, per Ender e per il mondo senza Lui.
Mi asciugai le labbra con un lembo della tunica, senza riuscire a trattenere le lacrime. La brezza penetrò all'interno del carro, spazzando via lo sgradevole odore della mia bile per ripulirmi, sin dentro all'anima. Era la brezza del profondo nord, di quel posto speciale di cui mi aveva raccontato tante volte mia madre.
Socchiusi gli occhi, mentre il carro rallentava. Dovevo alzarmi. Dovevo alzarmi subito: le mura stavano gettando ombra sul carro e da un momento all'altro saremmo entrati all'interno del campo.
«Mi chiamo Helias Bloomwood-» iniziai, mentre quella frase si sovrapponeva a quella pronunciata da Yul, mentre stava riverso nel suo stesso sangue, steso sul patibolo. Immaginai di averlo ancora qui con me. Immaginai che mi stesse stringendo forte la mano.
«Mi chiamo Helias Bloomwood...» ricominciai, perché prima i denti battevano così forte da impedirmi di parlare. Con una mano mi aggrappai alla parete del carro, appoggiando saldamente i piedi sul pavimento.
Stavo andando all'Inferno, ma non sarei crollato. Non dopo tutto quello che avevo sopportato: in qualche modo, ero ancora vivo. Impiccagione o decapitazione, si chiedevano. Ma io ero ancora qui.
E dentro di me, nel mio cuore e nei miei ricordi, c'era anche Yul. Anche se lo avevo perso, in un certo senso sapevo che non si poteva smarrire qualcosa che avrei sempre portato con me, fino in fondo all'anima. Era ormai una parte integrante del mio essere ed era la forza necessaria che mi avrebbe tenuto in piedi. Non sarei crollato.
In piedi vicino al portellone del carro, finsi di non sentire le grida. Qualcuno stava piangendo di dolore. Qualcuno urlava richieste d'aiuto, anche se sapeva che mai nessuno sarebbe venuto a salvarlo.
«Il mio nome è Helias Bloomwood» mormorai «e non avrò paura.»
Il carro superò i cancelli spalancati e si fermò. Raddrizzai prontamente la mia postura, stringendo i pugni e sollevando con fierezza il mento, mentre i riccioli mi incorniciavano il volto profondamente scavato dalla determinazione.
Lo sportello sigillato del carro si aprì e le braccia di molte guardie mi agguantarono e strattonarono, come mostri scuri in uno sfondo di bagliore plumbeo, monocromatico, alle loro spalle.
Mi chiamo Helias Boomwood...
Alzai il mento ed entrai nel campo di Ender.
E non avrò paura.
𝕋𝕠 𝕓𝕖 𝕔𝕠𝕟𝕥𝕚𝕟𝕦𝕖𝕕...
***
*NDA & RINGRAZIAMENTI*
Hola a tutti!
Questo spazietto è aggiornato a gennaio 2022, visto che ho appena finito di fare la revisione, un lavoro che mi è costata una fatica immensa ma anche una grande soddisfazione, perché è un po' come vedere la storia sotto un altro punto di vista. E questa storia... Figlia di tante ispirazioni e tanti altri romanzi che ho letto e che mi hanno appassionato e cresciuta. Non ho potuto non voler bene sia a Helias che a Yul. Spero che vi siate affezionati anche voi! Ringrazio tutti quelli che mi hanno seguito nel corso degli anni: fra il primo libro e il seguito c'è un dislivello pazzesco di anni, perciò è una vera tristezza sapere che molti che si erano appassionati non sapranno come andrà a finire, d'altro canto è molto bello sapere che si sono aggiunti anche nuovi lettori! Quindi grazie a tutti voi che avete seguito e che continuerete a seguire. La passione della scrittura è bella anche quando viene nutrita dalle emozioni di chi legge!
Scommetto che ne volete sapere di più sulla fine che hanno fatto i personaggi, perciò non perdetevi lo spin-off "Il Cortigiano" e il sequel "I signori dell'Oltretomba"!
Alla prossima storia <3
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