24. L'Assassino e il compleanno
Il piccolo dito ossuto del bambino mi indicò una vetrina.
Sbiancai e scossi la testa. «No!» Battei un piede a terra. Non l'avrei mai fatto.
«L'ultima volta ti ha salvato quello schifoso nobile!» ribatté il bambino dal naso unto e lentigginoso. Mi strinsi le braccia al petto, rabbrividendo, un po' per il freddo, un po' per la paura.
Già, se quella volta davanti al mercatino di gioielli quel bambino nobile non mi avesse salvato, forse in questo momento potevo essere fra le mani delle guardie reali. Scrollai le spalle per scacciare quel timore. Avevo rischiato grosso, ma ero salvo.
E quel nobile spocchioso... Mi aveva fatto venire una tale rabbia!
Però era così... Così... Non immaginavo potesse esistere qualcuno con un colore di capelli così simile al sangue, con degli occhi così blu da sembrare due pezzi di cielo notturno.
«Allora, va' e prendilo!» mi intimò il capobanda, con un gesto spazientito della mano. Deglutii. «O non avrai mica paura?»
Balzai sul posto.
«Paura? Io?» Incrociai le braccia, esibendo un ghigno dispettoso, tipico di un bambinetto di dieci anni che si credeva grande. «Neanche per sogno.»
E, col mento alto, mi avvicinai alla vetrina di una delle gioiellerie più lussuose di tutta Skys Hollow.
Perché si, ero un ladro.
Non uno di quei ladri di gioielli importanti, di quelli che venivano mormorati sulla bocca di tutti. No, ero soltanto un moccioso ladruncolo, che mangiava gli avanzi dall'immondizia ai lati della strada per non morire di fame. Che a sua volta era un avanzo della società. Tutto qui.
La vetrina era sempre più vicina, la grossa pietra esposta rimaneva alla vista di tutti. Era un prezioso diamante blu venuto dall'oriente, talmente famoso che un nutrito gruppetto di lady e lord stavano a rimirarlo da più di mezz'ora. Ma non era un problema.
Sgusciai sempre più vicino, mantenendo un tale silenzio da sentire il rumore del mio respiro nelle orecchie. Aprii di un filino la porta del negozio e ci scivolai dentro. Il guardiano all'entrata non mi notò neanche. Mi avvicinai furtivamente alla vetrinetta, dove collier di ogni tipo, anelli giganteschi e bracciali opulenti erano esibiti come tesori inestimabili, ma che perdevano valore alla vista del magnifico diamante. Un sorrisetto mi affiorò sul viso. Era stato fin troppo facile.
Mi avvicinai ancora di più, le mani pronte ad afferrare la pietra preziosa. Il guardiano sembrò aguzzare la vista verso la mia direzione, ma... Dei rimproveri scoppiarono fragorosamente fuori dal negozio e nessuno fece caso a me.
«Ma cosa fai! Lurido bamboccio!» Sentii gridare fuori dalla vetrina da una dama vestita di tutto punto, rivolta ad uno degli ultimi acquisti della mia banda di ladri. Lui, che per ordine del capobanda aveva rovesciato qualcosa di sporco sul vestito della donna, ridacchiò qualche parola di scuse, fornendomi un ottimo diversivo.
Le mie mani si strinsero attorno al diamante, sollevandolo dal cuscino di seta celestina su cui era adagiato. All'improvviso, un suono simile al rumore di mille campanelli trillò per tutto il negozio. Tutti si voltarono a guardarmi. Non era possibile. Le mie gambe si paralizzarono.
Un allarme magico.
«AL LADROOOOO!»
Il mio corpo si sciolse dalla paralisi e, senza pensarci un momento, iniziai a correre, con il diamante stretto al petto. Superai con un balzo l'entrata del negozio, l'allarme che mi inondava le orecchie, il vento che mi scompigliava i capelli, il petto che si alzava e abbassava per la paura.
Ma non andai molto lontano.
Una mano mi acciuffò un lembo della giacca sporca e logora e, quando alzai la testa, sbiancai. Riconobbi la divisa, la spada, lo stemma sul petto. Una guardia reale.
«No! Lasciami!» urlai, il diamante mi venne strappato dalle mani, una sberla mi colpì il viso. Le dame e i signori davanti alla vetrina mi guardarono allibiti, i miei alleati invece erano già spariti. Non li biasimai, anche io avrei fatto lo stesso.
«Lasciami andare!» gridai di nuovo, incurante degli schiaffi che mi arrivavano sul viso. Tentai di divincolarmi, ma la presa si fece più forte.
«Adesso vedrai cosa succede ai ladruncoli come te.» sibilò la guardia con una risata maligna e io capii. Capii la gravità della situazione in cui mi ero infilato. Capii che non avevo scampo.
«Lasciami andare! SUUUBITO!»
Ma non mi lasciò.
E io non capii che questo evento mi avrebbe cambiato per sempre la vita.
Spalancai gli occhi e il primo sole autunnale fu lieto di baciarmi il viso. Li richiusi, scacciando quella sensazione di panico misto ad adrenalina che cercava di aggrovigliarmi lo stomaco così presto. Allungai un braccio alla mia sinistra, ma il letto era vuoto e non era caldo. Yul doveva essersi alzato molto prima.
Poi, con la coda dell'occhio, captai una traccia di colore. Qualcosa di blu sulle pareti. Spalancai le labbra, stupefatto. Ero talmente preso dai miei pensieri, dai miei ricordi, che non me ne ero neppure accorto.
Su tutte le pareti bianche erano intrecciati miriadi di fiori blu-viola, che riconobbi come non ti scordar di me. Balzai in piedi, facendo un giro su me stesso. Era uno spettacolo per gli occhi, qualcosa di incredibile.
Fasci e fili di fiori crescevano, sbocciavano e si incamminavano per le pareti, sotto l'effetto di qualche strabiliante magia. Non riuscivo ad individuare un solo punto della parete candida che non fosse coperta dai fiori. Intrecci floreali che continuavano a moltiplicarsi, ad abbarbicarsi ed incontrarsi.
Era una meraviglia indescrivibile.
Strabuzzai gli occhi, incapace di reprimere quel senso di felicità ed eccitazione che mi cresceva nel petto. Da quant'era che non mi sentivo così? Da quant'era che non provavo tali emozioni?
Il cuore sembrava perfino troppo piccolo per contenerle.
Svoltai nel corridoio dove trovai sul pavimento, fra uno strascico di petali blu, un bigliettino di carta, con la curata calligrafia di Yul.
"Segui i petali"
Strinsi il biglietto fra le mani e corsi fino alla fine del corridoio, incapace di trattenere le mie gambe, incapace di limitarmi a camminare.
Quando giunsi nella stanza più grande della casa, il soggiorno con sala da pranzo annessa, scorsi Yul seduto sul bracciolo del divano di velluto, le braccia incrociate sul petto muscoloso, un sorrisetto divertito sul viso. Mi precipitai verso di lui. Solo dopo notai lo splendore della stanza completamente rivestita di fiori, del tavolo apparecchiato, delle torte al cioccolato, alla frutta, alla crema, dello champagne, dei calici di cristallo, delle candeline.
«Felici diciannove anni, Hel!»
Mi cinse fra le braccia forti e io mi lasciai avvolgere, con un sorriso a trentadue denti. Di rimando, mi scompigliò i capelli dorati, con un ghigno beffardo fra le guance. «In fondo, sei ancora un moccioso.» E ridacchiò compiaciuto.
«Guarda che abbiamo solo quattro anni di differenza!» lo rimbeccai, scuotendo la testa esasperato. Ma poi tornai a guardarmi intorno, incapace di reprimere la meraviglia. «Questo... Tu... E' bellissimo...» balbettai, incapace di trovare le parole. Doveva essersi svegliato molto presto per preparare tutto ciò. E doveva anche aver speso una bella cifra. Ecco perché se ne andava sempre al Covo, quell'imbecille.
Sorrise, questa volta ricambiando la mia felicità. Le sue labbra trovarono le mie e io fui lieto di schiuderle ed abbandonarmi al suo sapore ormai familiare, al suo calore, alla sua morbida bocca, al suo profumo. Premetti il mio corpo contro il suo e lui fece scivolare le mani affusolate sulla mia schiena, poi sempre più in basso.
Si staccò, ansimante, e mi guidò verso il tavolo di quercia. Stappò la bottiglia dello champagne con un rumore impercettibile e ne versò qualche dito nei calici di cristallo. Poi ne lasciò uno fra le mie mani e sorrise, facendo tintinnare il suo bicchiere contro il mio.
«Buon compleanno, Helias Bloomwood.» E buttò giù un sorso, senza smettere di guardarmi.
«Champagne all'alba.» ridacchiai. «Sembra il titolo di un libro.» E assaporai anche io un po' di quella bevanda frizzante e alcolica.
Ad un certo punto, Yul posò il bicchiere sulla tovaglia blu e mi accarezzò il viso, con leggera apprensione.
«C'è qualcosa che non va, Helias?» chiese, scostandomi una ciocca di capelli dal volto. Mi accigliai. Dovevo avere un aspetto terribile, come ogni mattina, dopo una nottata piena di momenti e ricordi che avevo sepolto nei meandri della mente, ma che piano piano tornavano a galla. Deglutii.
«Solo un incubo.» mi limitai a rispondere, accennando ad un sorriso rassicurante e stringendo la presa sul calice. Yul inclinò il capo, rivolgendomi uno sguardo sospettoso.
«Ogni notte fai incubi. Pensavi davvero che non me ne fossi accorto?» esclamò ed io rimasi in silenzio, incapace di trovare una risposta. «Sai che puoi parlarmene.» Si fece più vicino, prendendomi le mani, che stringevano ancora il bicchiere colmo di champagne. «Quando sei entrato per la prima volta dalla porta della Fortezza...» fece una pausa, come per cercare le parole giuste. «Eri talmente pallido e magro che sembravi appena uscito da Ender. Chi sei veramente, Helias?»
Ender.
Il campo di lavoro più famoso e più temuto di tutta Darlan, un posto peggiore del più tremendo degli Inferni. Gli schiavi e i ribelli tremavano al suono di quel nome. Treblin in confronto era un'isola felice.
Mi sciolsi dalla sua presa e gli girai intorno, dandogli le spalle e poggiando il bicchiere di cristallo sul tavolo, con una smorfia contrariata. Rimasi in silenzio.
«Oddio...» mormorò. Non fiatai. «Non sarai mica... Tu sei stato ad Ender?» chiese, con voce spezzata. Strinsi la mascella, incapace di articolare una risposta con prontezza. Mi servì qualche minuto per parlare.
«Non Ender.» mi ritrovai a rispondere con una voce fredda come il ghiaccio. «No, non Ender.» Mi voltai, senza incrociare lo sguardo di Yul, ma tenendolo appiccicato a terra. Avevo l'impressione di camminare su un filo sottile.
«Treblin. Sono stato a Treblin.» biascicai, la voce ridotta ad un sibilo strozzato, pieno di cordoglio. Solo allora lo guardai. Nel suo viso non c'era traccia di compassione, solo dolore e comprensione, come se anche lui avesse assaggiato la stessa amarezza. Restò in silenzio per qualche minuto, che i fiori colmarono, emettendo un leggero fruscio con le foglie mentre si agitavano sulle pareti.
«Com'è successo? Come... Come ci sei finito?» chiese, avvicinandosi per toccarmi, per avere un qualsiasi contatto con il mio corpo, come se con la mente fossi troppo lontano. Volevo dirglielo, volevo raccontargli, volevo parlargli di qualcosa che non avevo mai detto nessuno. Ma era troppo.
Le parole non riuscivano ad uscire. «Va bene.» Prese fiato. «Significa che inizierò io.» concluse, mentre i suoi occhi blu notte luccicavano di mestizia.
«No, non devi!» mi affrettai a rispondere. Non volevo che mi raccontasse di lui solo per convincermi a parlare. A dir la verità, non sapevo molto su Yul. L'unica cosa di cui ero a conoscenza erano le sue origini da nobile. Quella volta di tanti anni prima, davanti alla bancarella di gioielli, lui mi era spuntato come un'apparizione. Forse mi era piaciuto sin da allora, ma mi ero ostinato ad odiarlo.
«Infatti, non devo. Voglio.»
Strinse la presa sulle mie mani, i suoi occhi di un blu profondo si piantarono nei miei, trovando conferma, forse gratitudine. E allora iniziò il suo racconto, decidendo di confidarmi tutto quello che si annidava dentro di lui, dentro il suo passato, dentro la sua oscurità. Non potevi essere un assassino se non ti portavi dietro quel bagaglio sulle spalle.
«Devi aver capito che ero un nobile. Si, lo ero. Ma la mia famiglia era decaduta ed eravamo prossimi a perdere il titolo insieme a tutti i nostri averi. Probabilmente sembrerà una stupidaggine, ma i miei genitori ne furono distrutti.» Intrecciò le dita alle mie, come a cercare conforto.
«Vedere la fortuna, la ricchezza, l'importanza che la nostra casata aveva acquisito secolo dopo secolo, anno dopo anno, sfumare davanti agli occhi... E diventò sempre peggio.» Il pomo d'Adamo ballò su e giù mentre deglutiva. «La povertà. La nostra tenuta costretta alla vendita all'asta. Gli stessi vestiti indossati da anni. La fame che aumentava di giorno in giorno. Il denaro che diminuiva sempre di più. L'umiliazione di fronte agli altri aristocratici... Fu troppo per noi. Iniziai a rubare. Ma non bastava, non bastava mai.»
Fece una lunga pausa, come se si preparasse alla parte più difficile. Ero sul punto di dirgli che non doveva per forza parlarmi di ogni cosa, se non voleva, ma poi ricominciò. «Decidemmo di farla finita. Non fu difficile: mio padre distribuì nei bicchieri del veleno per topi, un po' per uno. Al tre, dovevamo bere insieme.» Dovevano morire insieme. Sentii il cuore piombarmi sotto alle scarpe. Un bambino che sceglieva di ammazzarsi era un orrore indicibile.
«Bevvi. Vidi i miei genitori morire davanti ai miei occhi. Aspettai. Ma io non morii.» Notai i suoi occhi adombrarsi, venarsi di un dolore così profondo da farmi male. «Non morii.» ripeté, inghiottendo a vuoto. «Mio padre non avvelenò il mio bicchiere, lui volle che continuassi a vivere.» Scosse la testa ed io riuscii a scorgere un velo di pianto appena accenato nel suo sguardo.
«Io... Non sapevo cosa fare. Ero lì, solo, nella mia tenuta vuota che era pronta ad essere venduta, con i cadaveri dei miei genitori davanti. Non c'era più nulla per me. Non avevo più niente.» Gli strinsi le mani, più forte. «E fu allora che Alaister venne a cercarmi. Mi disse che mio padre aveva un debito con lui e che per ripagarlo dovevo seguirlo, stare al suo servizio. Diventare un assassino. E io non avevo più nulla da perdere...» concluse e tornò a guardarmi, come se la sua mente fosse ritornata nel presente e adesso avesse bisogno di un appiglio solido per restarci. Un'ancora.
Non sapevo cosa dire. Era come se tutti i "mi dispiace" inaridissero le labbra.
La luce del sole mattutino entrava dalla finestra, facendogli brillare i capelli scarlatti e illuminandogli il viso dai lineamenti aggraziati. Rimase in silenzio, in attesa. Anche lui non sapeva più cosa dire e aspettava che io incominciassi il mio racconto.
Difficile capire da dove cominciare quella storia insanguinata.
«Io sono-» mi bloccai. «Ero il figlio di Edna Bloomwood, una delle cortigiane più in vista di tutta Skys Hollow.» Il volto mi si aprì in un sorriso mesto. «Stare con lei era bellissimo. Passare i miei giorni con lei, ridere insieme... Pensavo potesse durare per sempre, invece... Invece qualcuno l'ha uccisa,Yul.» Strinsi i denti. «Non so chi sia stato, ma sembrava avesse un motivo per farlo, non era la gelosia di un cliente ossessivo. Prima di morire, mia madre mi disse di nascondermi dal suo assassino, ma io desidero ancora trovarlo e fargliela pagare in modi così atroci...»
Mi fermai, accorgendomi di star cambiando discorso. Se cedevo al mostro nero della rabbia, finivo per perdere l'intero filo conduttore. «Sono fuggito. Anche io non sapevo più che fare, o dove andare. Per un po' ho vagato per la città da solo, in cerca di riparo. Insomma, avevo solo sette anni! Eppure nessuno mi ha aiutato.» Strinsi un pugno, poi scossi la testa. La collera non portava a nulla, non serviva a niente.
«Poi un gruppo di ladruncoli di strada mi ha accolto con sé. In quel periodo della mia vita, ti ho incontrato...» Ripensai a quel giorno davanti alla bancarella di gioielli, al mio furto fallito, al bel ragazzino nobile che mi aveva guardato e aveva rubato uno zaffiro, ridacchiando. Come potevo dimenticare?
«Ma un giorno sono stato catturato e sono diventato uno schiavo.» Vidi negli occhi di Yul farsi strada una scintilla di comprensione. Probabilmente capì perché avevo tanto a cuore le tratte degli schiavi e perché la faccenda di Joseph Martin mi avesse fatto così male. «Un vecchio nobile mi ha comprato all'asta per pochi soldi. Ho passato tre anni come servo nella sua tenuta, ma quel ruolo non faceva proprio per me.» Risi amaramente e poi lasciai la presa sulle sue mani. Mi voltai invece verso la finestra, rivolgendo lo sguardo al fiume Tibor, che scorreva silenziosamente, incapace di sostenere lo sguardo del rosso.
«Ha tentato di violentarmi.» Appoggiai una mano sul vetro freddo della finestra, chiudendola poi in un pugno. Yul rimase in assoluto silenzio. «E' così che sono diventato un assassino. L'ho ucciso.» Strinsi i denti, ricordando la sensazione delle mani intrise di sangue, del corpo inerte del nobile, schiacciato contro di me, della sua gola sgozzata. Non avevo alcun pentimento. Ero fiero di quello che avevo fatto. «L'ho ucciso.» ripetei. «E dopo, tutto è andato in malora.»
Mi misi una mano fra i capelli, cercai di calmare il battito del mio cuore e il respiro sempre più veloce, come se fosse troppo complicato ricordare. «Mi hanno catturato di nuovo. E questa volta non si trattava di un furto. Avevo ucciso un nobile, capisci? Uno schiavo che uccide un nobile? Non era ammissibile. Mi dovevano punire in un modo severo, ma non potevano giustiziarmi, ero troppo piccolo.» Tornai a ridere nervosamente «Avevo tredici anni. Sai cosa hanno fatto?»
Allora mi voltai e tornai a guardarlo, con una sorta di rabbia amara nel petto. Yul non mi rispose. «Mi hanno mandato a Treblin. Mi hanno condannato ad una morte lenta e sofferta nelle miniere.» Scossi la testa. «Ma sono sopravvissuto. E dopo sei mesi sono scappato.» Risi, un suono aspro e sprezzante.
«Non si aspettavano che un tredicenne potesse scappare da Treblin, invece è successo. Dopo... Deve avermi trovato Alaister.» Aggrottai le sopracciglia, come cercando di farmi venire in mente qualcosa. «Però... Io... Non mi ricordo.» Sentii qualcosa di freddo e umido scendermi sulle guance «Non mi ricordo...»
Tentai di asciugarmi le lacrime con il dorso della mano, ma quelle non smettevano di scendere. Quand'era stata l'ultima volta che avevo pianto davanti a qualcuno? No, non avevo mai pianto davanti a nessuno all'infuori di mia madre.
Yul si avvicinò e io mi ritrovai premuto fra la finestra fredda e la sua figura slanciata.
«Non piangere, Helias.» mormorò, baciandomi le lacrime che mi rigavano le guance, scendendo lentamente dagli occhi. Un bacio sulla palpebra destra, un bacio sulla sinistra, delicatamente. Rabbrividii al tocco caldo e delicato delle sue labbra.
«Non sto piangendo.» sussurrai, con la voce tremula di pianto. Tirai su col naso e mi aggrappai alle sue spalle, stringendo fra le mani il tessuto della sua giacca. Singhiozzai. «Non sto affatto piangendo, stupido!» Ma le lacrime continuavano a solcarmi il volto lottando per uscire, per alleggerire il peso di tutti quegli anni, di tutti quei ricordi rinchiusi per troppo tempo. Anche Yul mi strinse una mano sulla schiena, sopra la camicia da notte bianca. Appoggiò il viso alla mia spalla.
«Sai, Hel» mi soffiò all'orecchio «non ho mai pianto davanti a nessuno.»
Rimanemmo in silenzio a lungo, l'uno bagnando le spalle dell'altro, stretti, sempre più vicini. Gli unici suoni udibili erano i nostri singhiozzi silenziosi e il fruscio dei fiori sulle pareti.
«Sono bellissimi.» mormorai verso i fiori, dopo un silenzio talmente lungo da sembrare eterno.
Yul sorrise, sciogliendosi dall'abbraccio. I suoi occhi blu erano ancora più belli, brillanti di pianto, con le ciglia ancora umide.
«Significano amore vero, indimenticabile.»
«Non vi facevo così melenso, Yul Pevensie.» esclamai, ridacchiando. Non volevo più piangere. E ora mi sentivo stranamente leggero, come se il grosso macigno che portavo sul petto fosse, se non scomparso, almeno più facile da digerire. Come se fosse diventato improvvisamente tutto più semplice e più calmo. Lui ghignò di rimando e quell'ultimo accenno di tristezza scomparve definitivamente dai nostri cuori.
«E' solo colpa vostra, Helias Bloomwood.» ribatté, mentre con un sorriso ammiccante mi stringeva fra le sue forti braccia. «Perché vi amo. Vi amo quanto il sole ama il cielo. O...» Pensò a qualche altra metafora esageratamente poetica. «quanto la luna ama le sue stelle.»
«E' difficile essere amati così tanto...» sussurrai, con un sorriso sincero, ad un soffio dalle sue labbra.
«Tu lascia fare a me.»
La sua bocca si impadronì della mia e all'improvviso tutto venne cancellato dal nostro contatto, come se non aspettassimo altro. Le sue mani si insinuarono sotto la mia camicia da notte, stuzzicando la seta del mio indumento intimo. Sospirai fra le sue labbra, intrecciando la mia lingua alla sua, per godere del suo inconfondibile sapore di menta e caramello.
Fece scivolare via dal mio corpo la camicia da notte, che cadde a terra, sul pavimento di legno. Infilai le dita fra i suoi lisci capelli scarlatti, stringendoli quanto bastava per trasmettergli l'impeto del mio desiderio. C'era qualcosa, in quei penetranti occhi blu, il cui sguardo era colmo di luce e di lussuria, che mi fece desiderare di riempirmi di lui, in quello stesso istante.
Lo liberai della giacca e della camicia con gesti vagamente impacciati, ma senza staccarmi dal suo bacio. Non era solo desiderio carnale: semplicemente l'uno aveva un bisogno impellente dell'altro. Le nostre labbra si toccarono, si assaggiarono, si assaporarono, respirarono l'una dall'altra. E noi ci baciavamo e baciavamo e baciavamo ancora.
Le mie mani arrivarono alla sua cintura, tentando di slacciarla con foga, con scarsi risultati. Yul si staccò da me, col fiatone e i capelli da tutte le parti. Ghignò dei miei tentativi falliti e si liberò dei pantaloni, l'ostacolo principale, con un gesto spazientito. Poi mi sollevò e io gli strinsi le gambe intorno ai fianchi, per facilitargli il compito.
Mi trasportò fino al divano di velluto blu e, con un rapido gesto, mi ritrovai seduto a cavalcioni su di lui. Mi rialzai, giusto il tempo di togliermi i boxer di seta e sfilarli anche a Yul, ancora seduto sul divano a godersi lo spettacolo. In pochi secondi, le sue mani mi strinsero le natiche e mi ritrovai di nuovo seduto su di lui, la sua nudità contro la mia. Si mise le mani dietro la testa, ostentando un sorriso sbilenco.
«Perché questa volta non ti servi da solo?» Io arrossii, intuendo i suoi pensieri lascivi.
«Ma non doveva essere il mio compleanno? Sei un pervertito, Yul.» Senza neanche rispondermi, afferrò la mia mano destra e ne succhiò avidamente le dita, lanciandomi uno sguardo colmo di lussuria. Sentii una calda sensazione al basso ventre e pensai di poter venire anche solo col suo sguardo sedimentato addosso.
«Avanti, fammi vedere come si fa.» mi provocò, con un tono canzonatorio e un ghigno sornione. Sentii il desiderio inondarmi il corpo, come se in ogni singola vena avessi fuoco bollente al posto del sangue.
Lasciai scivolare le dita rese umide dalla sua saliva nel mio cerchio di muscoli, accogliendole con un gemito sommesso. Chiusi gli occhi per non incontrare i suoi. Non erano tanto le mie dita a darmi piacere, ma più sentire il suo sguardo rovente scandagliarmi ogni centimetro del corpo.
La sua lingua iniziò a perlustrarmi il collo, stampando piccoli succhiotti viola sulla pelle diafana. Un mugolio mi salii alla gola. Mentre aggiungevo un secondo dito dentro di me, la sua mano cominciò a stringere fra le dita il mio capezzolo, mentre la sua bocca stuzzicava il gemello, che si inturgidiva come un bottoncino rosa. Mi morsi le labbra, tentando in tutti i modi di trattenere un gemito lussurioso. Dal canto suo, si inclinò sul mio orecchio.
«Sto aspettando di esserti dentro...» soffiò, iniziando a mordicchiarmi il lobo, gesto che mi fece istintivamente incurvare il collo, per rendergli ancora più semplice l'azione. Tremavo dalla voglia, ma non avevo la minima intenzione di fare le cose in fretta. Volevo tormentarlo un po' anch'io.
Solo che, dopo qualche secondo, quando la mia bramosia ebbe il sopravvento, soddisfai la richiesta di Yul espressa da quei bassi gemiti. Allineato il suo membro duro contro il mio orifizio stretto, spinsi per farlo entrare. Entrambi sospirammo al momento del contatto.
«Ooh Yul!» ansimai. Era così bello, così perfetto, così caldo e liscio.
Per un attimo rimasi immobile, sentendolo completamente dentro e assaporando a pieno la goduria del momento. Lui mi sbatté contro un colpo di fianchi e un lamento lascivo mi sfuggì dalle labbra.
«Se non ti muovi ti getterò sul tavolo e ti prenderò fino a quando non mi implorerai pietà.» minacciò il rosso. Sembrava sul punto di perdere la testa. Ridacchiando di gusto, gli stampai un bacio al lato delle labbra. «Muoviti. Subito.» grugnì, con un altro colpo di fianchi, che mi stimolò la prostata, sottraendomi ogni volontà di resistere.
Incapace di trattenermi al suo richiamo, mi aggrappai alle spalle di Yul e iniziai a riempirmi di lui, dentro e fuori, con intensità misurata, sfruttando a pieno la mia poca forza. Lui allungò una mano per afferrare la mia erezione, muovendola ripetutamente su e giù, seguendo il mio ritmo, mentre quel corpo bello e muscoloso mi penetrava incessantemente.
Accelerai la cadenza dei miei gesti, mentre l'aria profumata di fiori si riempiva dell'odore del sesso. Mi aggrappai ai suoi capelli color sangue in un impeto colmo di lasciva passione. Lui, mentre con una mano continuava a tormentare il mio membro, con l'altra strinse il velluto del divano. Rovesciai la testa all'indietro, chiudendo gli occhi.
«Veng... Yul!» gridai, schizzandogli la mano e il petto tornito, provocando l'orgasmo di Yul, che si riversò in me in un unico e preciso getto, con un sospiro soddisfatto.
Mi tolsi dalle sue gambe e lui mi scivolò fuori con rapidità. Si addentrò verso il corridoio, silenzioso come la morte, e tornò dopo qualche secondo dal bagno, cingendo degli asciugamani umidi. Mi ripulì il ventre dallo sperma.
«Oggi sei stato perfino più erotico del solito.» esclamò, con un ghigno divertito stampato sulla faccia. Alzai gli occhi al cielo.
«E tu più pervertito.» ribattei, strappandogli l'asciugamano dalle mani e infilandomi la camicia da notte, con un gesto imbarazzato.
«Hai assolutamente ragione, Hel.» Si sollevò in piedi, infilandosi i pantaloni scuri e allacciandosi la cintura. «E ora alzati Bloomwood, hai ancora tre torte da mangiare e diciannove candeline da spegnere.»
Sorrisi, afferrando la mano che l'assassino dai capelli cremisi mi offriva. Ormai sembrava che nulla potesse intaccare la nostra felicità, sembrava che niente fosse in grado di rompere la nostra quiete.
Ma non ricordavo che la calma veniva sempre prima della tempesta.
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