22. L'Assassino e l'inganno

Quella notte, dormii a fatica: nel sonno digrignavo i denti e la sensazione di un oscuro peso sul cuore non riusciva a farmi riposare in maniera tranquilla. C'era qualcosa di strano, in tutta la faccenda di Joseph Martin, ed anche se con la sua morte e quella del suo socio la missione doveva essersi conclusa, finché non facevo rapporto ad Alaister sentivo che non fosse realmente così.

Sì, ero libero, ma non finché non chiudevo quell'intera storia e mi liberavo dall'ulcerate sensazione del sangue versato senza una ragione che fosse assolutamente valida. Eppure, il mio obiettivo era parso disgustoso e viscido esattamente come molti altri che avevo eliminato prima di lui. Che cosa aveva di diverso?

"Fottiti, tu e il tuo Re"

Mi girai dall'altra parte del letto, gettandomi le coperte fin sopra alla testa. Vincent Valerius Kavendish, il nome del sovranno di tutto il grande impero di Darlan, ora in espansione, il nome di quel pazzo tiranno, non sarebbe mai stato il mio Re. Di quello ero sicuro.

All'alba, dopo aver schiacciato brevi pisolini tormentati, avevo del tutto abbandonto l'idea di dormire. Mi ero vestito di tutto punto, avevo fatto recapitare a Trill - la solita guardia personale di Alaister - il dossier di Martin così che arrivasse nelle mani del mio capo e poi ero uscito frettolosamente dalla Fortezza. Per riprendere fiato, fingere di essere attratto dalle vetrine e poi portare a termine una certa urgente faccenda che ruotava attorno al bel cavallo Harpax che Selim di Costantinopoli mi aveva regalato, mesi addietro.

Quando ormai il mattino era inoltrato dovetti affrontare il faccia a faccia con Alaister. Stavolta Yul non era con me per affrontare la situazione, perciò quando superai la porta e Trill mi rivolse uno sguardo che voleva essere indifferente ma che pareva quasi compassionevole, mi si contrasse lo stomaco.

Alzai fiero il mento e feci finta di nulla, coprendo la distanza fra la porta e la poltrona di fronte allo scrittoio del corvino con pochi semplici passi, controllati, per poi sedermi senza neanche aspettare un suo cenno. Gambe accavallate, gomiti sui braccioli, mani intrecciate e mento appoggiato sulle nocche in tensione.

Forse un tempo sarei stato angosciato all'idea di affrontare il seducente e pericoloso signor Noir, spaventato davanti alla sua delusione e alla punizione che mi sarebbe toccata. Stavolta, semplicemente non mi importava. Ma ero ansioso perché sentivo di non sapere qualcosa di importante.

L'uomo in questione aveva sott'occhio proprio una copia del dossier che il giorno prima avevo trafugato dallo studio di una casa che ormai era riarsa dalle fiamme, un fantasma di cenere in una strada elegantissima, un unico neo in quel piccolo quartiere paradisiaco. Che peccato.

«Helias.» Alzò lo sguardo color topazio, gelido ed impossibile da leggere ed interpretare. La maschera eterna che il Re degli Assassini indossava, priva di qualsivoglia sentimento. «Il fatto che tu non abbia consegnato metà dei documenti che ti erano stati richiesti come lo giustifichi?» chiese, lapidario.

«Non c'è nessuna giustificazione.» pronunciai, premendo le unghie contro alla pelle delle mani, dove scavavano piccoli solchi. «Il socio di Martin ha bruciato i suoi documenti e poi si è ucciso, cosa che non mi ha dato la possibilità di torturarlo per ottenere le risposte che cercavo.» Scrollai le spalle, sciogliendo la girandola di dita per appoggiare le mani contro ai braccioli della sedia, arpionandomici sopra come se mi aspettassi di essere scaraventato via da un momento all'altro.

«Invece, il fatto che tu non abbia portato con te la testa di Martin, come lo giustifichi?» ripeté, il tono di un giudice da tribunale davanti all'accusato, sebbene gli occhi continuassero a mostrarsi del tutto scevri da nervosismo, rabbia o delusione.

«Non c'è stato tempo, perché...» Non finii la frase.

«Perché tu e Yul Pevensie avete appiccato un incendio. Attirato una gigantesca folla. Fatto chiamare le guardie di città. Quello che avete fatto è già apparso sui giornali e scatenato una sgradevole attenzione sulla faccenda.» Piegò le labbra in una smorfia di puro disgusto. «Nemmeno una delle cose che hai fatto in questa missione sono andate per il verso giusto, a cominciare dal farti catturare.»

Strinsi la mascella, cercando di trattenere l'irritazione che saliva dentro di me e che faceva da innesco a qualche frase pericolosa che avrebbe fatto precipitare tutto. Inghiottii le brutte parole e lo lasciai proseguire. In parte, aveva ragione: perfino il Ballo dell'Orchidea era stato meno problematico. E in quel caso ero quasi finito per essere venduto ad un gruppo di maniaci altolocati.

Alaister lanciò uno sguardo annoiato fuori dalla finestra alle sue spalle, verso il cielo azzurro, proseguendo: «Eliza ha già ricevuto il dossier dell'ex-marito stamattina. Purtroppo, non le hai portato una prova che lui sia morto, né i documenti del suo socio.» Batté lentamente le palpebre. «La nostra cliente è stata insoddisfatta. Non sarai pagato per la missione.»

Sussultai, accigliandomi, in tumulto sulla poltrona. «Ma certo che è morto! L'ho ammazzato con le mie mani. E la notizia è sui giornali!»

Mi rivolse un'espressione colma di spietata sufficienza. «Per quanto le riguarda, potrebbe essere chiunque ad essere morto fra le fiamme. E' un irriconoscibile cadavere, ormai.»

Non potevo credere a ciò che stavo sentendo. Era uno scherzo di cattivo gusto, oppure quell'Eliza Smetanova si stava prendendo gioco dell'impegno e dei numerosi rischi che avevo corso per portare a termine quella missione? Mi servii uno sforzo sovrumano per contenere la collera e non saltare dalla poltrona per sbattere i pugni sulla scrivania.

«Ma che diavolo di importanza ha?! Due schiavisti sono morti, parte dei documenti sono andati distrutti e il resto è nelle mani della Smetanova. Tutto questo è più che sufficiente per impedire che la tratta degli schiavi avvenga!» sbraitai, col rossore che affiorava sulle guance rosse per via dell'avversione dell'indignazione crescente. «Era questo lo scopo della missione, in fondo. Mi merito di essere ricompensato.» ringhiai.

E a quel punto... Alaister mi rivolse un ghigno così pieno di crudeltà che la maschera gelida che si era costruito, in tutti i suoi anni di servizio come sicario, si era sgretolata di fronte ai miei occhi. Era un ghigno compiaciutissimo e disumano.

«Piccolo, stupido ignorante.» Stupido ignorante: non lo aveva detto anche Dan, mentre lo uccidevo? Mi congelai, sentendo il cuore sussultare dallo sgomento. «Anni passati ad allenarti per essere il migliore fra i migliori e hai lasciato che tutto avvenisse proprio sotto ai tuoi occhi. Esilarante, vero?»

Boccheggiai. «Di che stai parlando?»

«Non c'è nessuna tratta di schiavi.» disse, appoggiando un gomito sulla scrivania, la guancia contro il palmo della mano, ancora con quell'espressione di malevola goduria mentre spiegava e il mio sangue si trasformava in ghiaccio. «Non fra Joseph Martin e il suo socio.» Mi sentii la bocca secca. «La vera tratta di schiavi è avvenuta fra Eliza Smetanova e il Re. L'offerta necessaria affinché lui accettasse a costruire la strada per ampliare l'economia di Malescot.»

Mi sentii male, mentre la mia mente collegava tutti i disseminati indizi che il tempo aveva sparso intorno a me durante l'ultima settimana. Eliza al ballo che mi fissava con gli occhi scuri, l'aria di tensione intorno al suo privè, con Alaister. Forse si preoccupavano che li avrei scoperti, mandando a monte tutti i loro piani.

Invece, mi ero lasciato raggirare in maniera così vomitevole, facendomi abbindolare dalla cattiva condotta di Martin e bollandolo velocemente come il cattivo della storia, quando lui in realtà lavorava per salvare quegli schiavi. E lo faceva anche il suo socio, scegliendo di uccidersi piuttosto che darmi le informazioni su tutta quella povera gente.

Quella che io avevo condannato, consegnando il dossier dell'ex-marito alla Smetanova. Avevo ucciso un uomo che stava cercando di salvare la sua gente da un'ipocrita serpe dal sangue freddo, che sacrificava le persone guadagnando sul loro sangue innocente.

E Alaister era suo complice. Aveva architettato lo specchietto per le allodole perfetto: sapeva quanto la faccenda degli schiavi mi stesse a cuore, visto che anch'io lo ero stato. Aveva usato la mia debolezza per farmi andare contro i miei stessi principi.

La rabbia divampò così ferocemente che non fui più responsabile delle mie azioni. «Maledetto bastardo...» sibilai, estraendo dall'interno della giacca leggera un piccolo pugnale. Poi mi scaraventai contro di lui, salendo sopra alla scrivania: i fogli volarono sparpagliandosi in giro mentre il mio braccio incombeva verso la faccia del Re degli Assassini.

Mi tratteneva il polso armato in una mano senza alcuna fatica, la sua faccia a pochi centimetri dalla mia, la mano serrata così violentemente intorno al braccio che aveva iniziato a farmi male, ma non mi arresi. «E' ancora una punizione per il Ballo dell'Orchidea?» sibilai, continuando a fare pressione verso il basso, la punta della lama molto vicina all'occhio dorato dell'altro. Ma per quanto cercassi di guadagnare centimetri e pugnalarlo, non riuscivo a muovermi. «Oppure è per Yul?»

Stava ancora ridendo. Divertito da quella scena, dal fatto che avessi perso il controllo. Non stava aspettando altro, evidentemente. «Sai qual è il tuo problema, Helias? Fingi di essere un assassino spietato, ma hai troppo cuore per questo lavoro.» Ghignava. «E questo ti rende pateticamente debole.» Ruotò abilmente il mio polso nella sua presa e mi ritrovai col mio stesso coltello alla gola.

Dovetti aprire la mano per lasciar cadere l'arma, evitando di uccidermi con le mie stesse mani. «Sei libero dal mio debito, ma non dimenticarti mai che sono io ad averti fatto diventare quello che sei oggi.» Lo osservai, ancora sulla scrivania curvato verso di lui, la mano disarmata che persisteva nella sua presa. Lo sguardo pieno di disprezzo che faceva a pugni con la sua espressione maligna. «Dovresti sempre ricordarti di cosa sono capace.»

Scattai giù dalla scrivania, strattonando via il polso dalla sua presa, ora livido, tenendomelo vicino al petto. In piedi sul tappeto, lo guardavo con aperto sdegno. Volevo sputargli in un occhio. Invece, mi limitai a spiegargli quello che avevo fatto all'alba. «Stamattina ho venduto il mio cavallo Harpax alla Smetanova.»

Avevo ricevuto una somma spropositata di denaro e la donna era sembrata davvero felicissima di poter ricevere una creatura così leggendaria dallo stesso assassino che aveva fatto fuori suo marito. Ero sollevato di aver donato il ricordo del Sultano ad una donna che teneva così tanto a salvare gli schiavi... E invece mi ero sbagliato. Che assurda, disgraziata ironia della sorte.

Ero così sopraffatto da tutto quel dolore, da quell'inganno. Per Alaister non contava altro che il potere. «Con quei soldi ho concluso la compravendita di un appartamento.» In altre parole, me ne andavo dalla Fortezza. Me ne andavo da lui, da quella che era stata per molti anni la mia casa.

«Oh, ma come sono felice.» disse, con un sorriso gelido, come se non gliene importasse un accidenti. Avrei dovuto girarmi e andarmene, lasciandolo lì a subodorare il mio tentativo di farlo fuori, sbattendo la porta. Invece lui continuò e i miei piedi rimasero incollati sul tappeto. «Io invece ho speso tutto l'oro che mi avete dato alla Cerimonia dell'Offerta di Lysandro, ieri sera.» Batté lentamente le lunghe ciglia. «Dopo tutti gli anni passati ad investire sulla sua carriera, ne è valsa la pena.»

Per un attimo il mio cervello non assorbì l'ennesimo intrigo di Alaister, quasi non volesse farlo. Poi realizzai quello che aveva fatto: tutti i soldi che Yul aveva guadagnato con fatica... Lui li aveva usati per una singola notte con quel cortigiano, per avere la sua verginità. Avevo voglia di vomitare sul suo bel tappeto pregiato.

«Io e Yul ce ne andiamo.» dissi, perentorio, crudo, stringendo i pugni così forte che le unghie mi stavano ferendo i palmi delle mani. «Oggi stesso.» Non avrei sopportato un altro minuto di più alla Fortezza.

«Che carino, adesso che sei libero hai Yul che può consolarti.» ampliò il sorriso, sbattendo le ciglia nere, mentre gli occhi gialli brillavano. «Siete proprio degni l'uno dell'altro.» disse, con un tono ghiacciante e derisorio. Il suo insulto non trovò terreno fertile.

Ovviamente, sapeva bene della mia relazione con Yul. E ovviamente stava facendo in modo che la colpa di tutto quello che era accaduto ricadesse su di me. Perché ricoprirmi di regali allora? Perché ingannarmi facendomi uccidere Martin e poi torturarmi in quel modo? Perché salvarmi la vita fuori da Treblin, solo per trattarmi in quella maniera?

Aveva speso i soldi che io e Yul avevamo usato per saldare il nostro debito, per comprarsi una persona che sapeva che detestassi. Per coprirmi di ridicolo. E per umiliare gli sforzi di Yul. Perché ero certo che avesse capito benissimo che quei soldi provenivano da lui.

Era una dimostrazione, un modo per farci capire che non poteva essere preso in giro da noi. Era lui, quello che ci gabbava. Che continuava ad infierire, girando il coltello nella piaga.

Mesi prima il lurido voltafaccia di Alaister Noir mi avrebbe addolorato e annientato: era il mio mentore. Era una specie di padre che non avevo mai avuto e al tempo stesso una sorta di primo amore condito dalla consapevolezza di quanto fosse impossibile averlo. Gravitava al centro del mio mondo.

Ma adesso era diverso. Adesso Martin e il suo socio erano morti per colpa mia. Eliza Smetanova avrebbe contribuito ad aumentare il commercio degli schiavi per colpa mia. E Yul, quell'uomo che aveva un cuore immenso e che con estrema pazienza aveva aspettato che me ne accorgessi, sarebbe rimasto al mio fianco. Perché mi amava e lo amavo anche io.

Perciò, quel torbido e crudele regalo d'addio da parte del Re degli Assassini non aveva centrato il bersaglio.

«Ti conviene lasciarmi in pace, Alaister. Perché se oggi non ti ho ammazzato, forse la prossima volta ci riuscirò.» minacciai, senza pentirmi di averlo fatto.

Lui si leccò le labbra, inebriato da quella svolta negli eventi. «Goditi una splendida giornata, Helias.» tubò, mentre io mi sbattevo la porta alle spalle.

La porta quasi cigolò sui cardini, per quanta forza ci avessi messo a chiudermela alle spalle con un infernale fragore, che nemmeno in parte riusciva ad esternare la furia che sentivo dentro. Sapevo quanto pericolosa fosse la minaccia che avevo osato arrecare contro il gigantesco, imbattibile Re degli Assassini. Ma non mi interessava.

Non mi interessava più niente di lui: sarei stato felice se fosse morto, molto presto. Trill mi lanciò uno sguardo storto per via del fatto che avessi quasi scardinato la porta. Si stava preparando a dirmene quattro, ma io mi limitai a sibilargli di levarsi dalle palle e proseguii verso l'adrone. Avrei fatto le valigie in un secondo momento, recuperando tutti i miei averi e lasciando ogni penoso regalo che Alaister mi aveva fatto per "farsi perdonare".

Mentre sbattevo gli stivali sul pavimento di pietra e marmo, qualcuno sbadigliò dall'alto dell'imponente scalinata. Quando alzai il viso verso il principio della gradinata trovai il faccino allegro di Lysandro che si sporgeva dal corrimano per guardare verso di me. Indossava una camicia da notte di seta bianca che a malapena gli copriva le parti intime. Piegai le labbra in una smorfia di odio e disgusto.

«Forse lo sai già, ma ho battuto tutti i record d'offerta.» ridacchiò, stiracchiando il corpo snello ma arrotondato nei punti giusti. «Grazie tante. Stai pure ben tranquillo che i vostri soldi sono stati ben utilizzati

La rabbia mi accecò, mi soffocò, mi stordì. Mentre lui apriva le labbra rosee in un ghigno soddisfatto e deliziato, io lasciai che quella fiamma cruda mi consumasse.

Avevo lasciato il pugnale sul pavimento dell'ufficio di Alaister, ma ne avevo molti altri. Non sarei mai girato disarmato, ero praticamente un arsenale vivente. Fulmineo come il battito d'ali di un colibrì, sfoderai un pugnale dal retro interno dello stivale.

Quando glielo lanciai contro, si conficcò con precisione millimetrica ad un soffio dall'orecchio del cortigiano, proprio accanto alla sua testa. Lo sentii gridare e quel suono non fu nemmeno lontanamente abbastanza per ripagare tutto il torto che avevo subito, da Alaister e da lui.

Voltandogli le spalle, spalancai il pesante portone in mogano. Ignorai la guardia appostata lì davanti, mentre a grandi passi superavo il giardino e proseguivo verso l'interno della città. Fondendomi in quella ressa caotica di sconosciuti e di vite altrui, lasciai che ogni orrore mi scivolasse addosso.

Era finita.

***

Dall'alto sembriamo tutti dei piccoli puntini.

Chissà se è il caso di osservare più da vicino. Dall'alto si vede meno, ma è una vista rassicurante: tutti i problemi dei miseri mortali che sono ancora lì sotto, a camminare su quella stupida terra, sembrano così piccini da diventare inesistenti. Come un uomo che guarda una formica.

Ero un puntino anche io, mentre guardavo Skys Hollow dall'alto, seduto sulle tegole scoscese della mia nuova casa. Nostra: mia e di Yul. Mi sentivo vuoto e vacuo, mentre un falso silenzio mi faceva fischiare le orecchie, esattamente come dopo un frastuono che ti fa saltare i timpani e mancare l'equilibrio.

Mi ero sentito così per tutta la mattinata, mentre avevo scandagliato le strade della città impotente, guardando Eliza Smetanova - maledetta bastarda - che cavalcava la mia giumenta Harpax sotto alle occhiate invidiose della gente. Si ergeva fiera come una condottiera alla testa della rappresentanza di Malescot che tornava a casa.

In molti erano vestiti a lutto per Martin: evidentemente, nonostante le apparenze, anche lui doveva essere stato amato dalla sua gente. Mi chiesi se quel circondarlo di cortigiane e di alcol alla festa non fosse stata tutta una tattica di Eliza per farlo apparire come lo stereotipico del viscido sotto ai miei occhi.

Mentre studiavo quella donna, quella che avevo ammirato per il suo coraggio nel fare una cosa così folle come sfidare il Re per salvare le persone di Malescot, provai l'impulso violento di ucciderla. Talmente forte che quasi mi immaginavo la sua testa rotolare sul marciapiede e poi venir calpestata dallo stesso cavallo che io avevo amato e che ero stato costretto a vendere per avere una fetta della mia libertà.

Vestita d'azzurro e non di nero come gli altri. Felice e soddisfatta, sicuramente i suoi affari erano andati a gonfie vele col Re. Sì, avrei potuto ucciderla e riprendermi i documenti che forse non era già finiti nelle mani del sovrano.

Ma non osai farlo.

Sfidare ancora una volta Alaister, rimanere invischiato nuovamente nei suoi affari, che erano melma appiccicosa e collosa come la resina, avrebbe rischiato di mandare a monte ogni mio proposito di libertà. Avrei potuto pagare a caro prezzo le conseguenze. Avrebbe potuto farlo anche Yul.

E adesso che finalmente il futuro mi si apriva davanti agli occhi, generoso e ricco di possibilità, non me la sentivo di mandare tutto a puttane.

Forse ero solo un minuscolo puntino buttato nell'immensità di un mondo gigantesco. Ma quella libertà mi dava la possibilità di sognare. Così inalai un profondo respiro, chiudendo gli occhi, coi raggi del sole di mezzogiorno che mi scivolavano sulle guance, mi carezzavano le palpebre e mi baciavano le labbra. Lasciai che l'aria intorno a me ripulisse le reminiscenze di quella rabbia e di quella nausea che mi era rimasta addosso.

Decisi che Alaister Noir sarebbe diventato solo un ricordo lontano. Non ci avrebbe mai più fatto del male. Non avrebbe più interferito con le nostre vite.

Passai il resto della giornata ad incaricare domestici della Fortezza, che pagai personalmente per il lavoro e per il loro silenzio, affinché trasportassero tutto ciò che era mio nella nuova casa. Alla fine, avevo deciso di portarmi dietro ogni mio singolo avere, compresi i doni che mi aveva fatto Alaister: ora appartenevano a me. Il pensiero che ciò che avevo indossato potesse finire nelle mani di Lysandro mi faceva rabbrividire; potevo impedire quello e potevo anche rivendere tutti i suoi sporchi regali per guadagnarci un bel gruzzolo. Alla faccia di Alaister.

Nel tardo pomeriggio ero tornato sul tetto per godermi la vista del tramonto sul Tibor. Se avessi disposto di una grande somma di denaro mi sarei comprato una bella casa in qualche quartiere vistoso di Skys Hollow, così da non avere niente di meno rispetto alla Fortezza. Tuttavia, non ne disponevo. Avevo comunque trovato un'offerta davvero conveniente: c'era un appartamento spazioso situato proprio sopra ad un vecchio magazzino.

Affacciava sul fiume, ma trattandosi per l'appunto di un magazzino abbandonato, in pochi l'avevano notato. Nelle cantine c'erano ancora una marea di scampoli di stoffa e abiti demodé ammuffiti, ma ai piani superiori, con i mobili che i domestici avevano sistemato, la dimora aveva assunto un aspetto di tutto rispetto.

Ed era meraviglioso sapere che io e Yul avevamo un posto tutto nostro, così speciale. Proprio in quel momento, il rosso scivolò con grazia lungo la grondaia vicino alle tegole, per nulla impressionato dalla vertigine, accomodandosi al mio fianco.

«Un bel punto da cui ammirare la città.» mormorò, senza spezzare quell'atmosfera di silenzio, di riflessione e di nuovi inizi. Il cielo si colorò di tinte mandarino e in breve tempo nelle case iniziarono a luccicare i bagliori delle candele, rendendo le finestre lontano come piccoli nidi di lucciole.

Fece scivolare una mano verso di me, le braccia intorno alla mia vita per poi piazzarmi a sedere fra le sue gambe in un comodo incastro: la mia schiena contro il suo ampio petto. I nostri piedi che dondolavano nel vuoto e le vie sotto di noi, strette, molto vicine allo scorrere del fiume. Sorrisi, senza dire niente.

«Mi dispiace. Ho saputo tutto quello che ha fatto.» Non c'era bisogno che specificasse niente. «E' giusto che tu te ne sia andato subito.» Esalò un sospiro che mi solleticò la nuca. «Incredibile che abbia usato i soldi in quel modo. Che sia caduto così in basso.»

Continuai a tenere le labbra piegate verso l'alto, in un'espressione velata dal dolore, ma che ormai stava svanendo, sostituita dalla felicità di averlo al mio fianco. «Yul, i soldi erano tuoi.» gli ricordai, battendo lentamente le palpebre, come morbide ali di farfalla contro le guance. «E alla fine...» Non esitai, per ciò che stavo per dire. «Mi è servito da lezione.» Sospirai, con forza. «Dovevo tagliare il cordone ombelicale con Alaister molto tempo fa.»

Non disse niente: sapeva che avevo ragione e non c'erano parole che potessero consolarmi. Solo, un cenno d'assenso e un leggero bacio sulla spalla. Minuti dopo, mi informò che aveva fatto depositare le sue cose nel soggiorno. Ne ero felice. La sola idea di poter aiutare quel ragazzo - l'uomo che amavo - a sistemare le cose in casa, come una coppia normale, in una casa normale, con una vita normale... Era inebriante.

«Helias.» Sentirgli pronunciare il mio nome fu come una carezza. Mi strinse meglio le mani attorno alla vita e quando io girai il volto per guardarlo, lui appoggiò la fronte alla mia. «Come potrò mai ripagarti?»

Risi affettuosamente. «Sono io che devo ripagarti. Hai saldato il mio debito, mi hai salvato la vita così tante volte...» Scossi la testa, come se non riuscissi ad elencare tutte le ragioni per cui fossi in debito con lui.

«Mi hai già dato tutto quello che ho sempre desiderato.» soffiò, dolcemente. Mi sfiorò le labbra con le sue ed io chiusi gli occhi. «Ti amo, profondamente.» disse, bocca contro bocca, mentre i nostri respiri si mescolavano. «E da oggi in poi non voglio più starti lontano. Ovunque andrai, ti seguirò. Anche se questo significasse andare fino all'Inferno, dovunque sarai tu è dove vorrò stare anche io. Per sempre.»

Gli passai le braccia intorno al collo e lo baciai a lungo, dandogli con quel bacio una risposta che non riuscivo ad articolare, che non aveva bisogno di parole.

E mentre due amanti si baciavano sui tetti della città, il sole morì oltre l'orizzonte e fece calare la notte, di un giorno che ne avrebbe segnati altri in cui eravamo finalmente liberi.

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