20. L'Assassino e l'amore

Non trovavo il coraggio. Non trovavo le parole. Mi torturai le mani, il respiro affannato, lo sguardo puntato a terra.

Scusa mamma. Mi hanno preso. Era il mantra che continuavo a ripetermi.

Avevo ucciso una persona. No, avevo ucciso una persona e non me ne pentivo. E ora ne pagavo le conseguenze.

Strinsi gli occhi. Non volevo vedere la stanza intorno a me. Non volevo vedere le pareti di legno, il giudice, i funzionari del Re, la corte, i soldati. Non volevo vedere le mie mani incatenate, le due guardie alle mie spalle.

Ero solo un bambino. Solo un bambino.

Un assassino. Mani sporche di sangue. Bambino sporco di sangue.

Bambino sporco.

«Dove lo manderanno?» bisbigliò qualcuno della corte, dalle panche di legno. Potevo sentirli chiaramente. Aprii bene le orecchie, con lo stomaco che si attorcigliava dalla paura.

Io avevo ucciso. Avevo ucciso, ma non ero colpevole. Non potevo esserlo. Mi ero solo difeso.

Solo quello.

«Oh, non possono mandarlo a morte, è solo un bambino. Che direbbero i cittadini?» rispose l'altro.

«Dubito che le semplici prigioni possano bastare. Ha ucciso un nobile. Vorranno dare un esempio.» lo rimbeccò l'altro. Quell'uomo non era un santo. Ma era un nobile. Il che faceva di lui un intoccabile. Un dannatissimo intoccabile.

Sentii la gola serrarsi, chiudersi al punto da lasciarmi un solo filo d'aria a cui attingere per respirare. Coi polsi legati, strinsi i pugni, le dita attorcigliate e le mani giunte come in preghiera, serrandole fino a farmi sbiancare le nocche. Mi stava salendo un pensiero. Uno sgradevole, oscuro presentimento.

L'uomo rivolse all'altro uno sguardo complice.

«Lo manderanno , vero?»

Oh no. Oh Dio, no. Risparmiami. Tutto, ma non quel posto.

Il processo fu lungo, ma a me sembrò talmente breve che in un battito di ciglia era già tutto finito. Non mi soffermai a guardare il giudice. Avevo provato ad implorarlo con lo sguardo, a supplicare con gli occhi lacrimanti, ma non era servito a niente.

Avverti il rumore del suo martelletto. Ci fu il silenzio. Digrignai i denti, tanto da sentirli scricchiolare.

Mi chiamo Helias Bloomwood e non avrò paura.

Ripetei nella mente quella frase magica. Eppure, non riuscii a sentire altro che le parole pronunciate dal giudice.

«E' condannato a trent'anni di lavori forzati nel campo di Treblin.»

Quel posto dove ci mandavano i ribelli, i criminali. Quel posto dove i bambini potevano essere sfruttati per sgusciare nelle gallerie strette e asfissianti, a lavorare come schiavi. Quel posto dove vivere significava resistere per massimo tre mesi.

Era una condanna a morte.

Treblin sarebbe stata la mia tomba.

«...rego!» Qualcuno stava dicendo qualcosa. Non lo sentivo. Avevo le orecchie tappate.

«Ti prego, Dio!» sibilava con completa disperazione la voce. Le mani mi spingevano sul petto, movimenti ritmici che massaggiavano e rilasciavano. Una spinta e un rilascio. Bagliori di pioggia e luce dentro agli occhi.

Un terremoto interno. Sobbalzai e mi chinai di lato per vomitare un fiotto d'acqua sporca che si mescolò a quella che scorreva sui lastroni della strada. Lì vicino, il tombino era scoperchiato e i liquami continuavano a venire fuori.

Tremando, vomitai un'ultima volta ancora, finché i miei polmoni non furono svuotati e lentamente potei riprendere a respirare.

«Oh grazie al cielo... Grazie al cielo...» Yul mi attirò fra le sue braccia, tenendomi tanto forte che mi sentii quasi fragile, nella sua stretta poderosa. Con la faccia accasciata contro la sua spalla, vidi un uomo con un piede di porco in mano, che ci guardava confuso, ma sollevato.

Chiusi le palpebre, sfinito. 

***


Non avevo ancora smesso di tremare.

Quella sensazione di viscido olezzo mi era rimasta addosso, il fetore si era sedimentato dentro al naso e sotto all'epidermide, ficcandosi nelle unghie. O almeno, questa era la mia impressione, anche dopo l'ennesimo bagno. Ne avevo fatti così tanti che avevo perso il conto ed intanto era già scesa la notte. Avevo di certo consumato l'acqua calda di tutta la Fortezza, rubandola agli altri per... La prossima settimana, circa. Ma quello non era affatto un problema.

Avevo provato a mangiare qualcosa, ma il ricordo di quei liquami disgustosi inghiottiti ed inalati mi aveva fatto vomitare come un pazzo. Lo stomaco mi si era sigillato come un'ostrica e l'unica cosa che era in grado di calmarmi, in questo momento, era un olio idratante alla vaniglia che mi facevo scivolare sulle gambe in un lento massaggio.

Ginocchia esposte oltre la fenditura di tessuto spugnoso nell'accappatoio e fianchi appoggiati contro l'orlo del letto, sapevo perfettamente che gli occhi di Alaister Noir erano appoggiati sopra di me e forse anche sui punti di pelle esposta, ma feci ugualmente finta di nulla. Voleva accertarsi che il suo miglior assassino fosse ancora tutto intero.

Non era mai entrato nelle mie stanze private, fino ad ora, e la sua presenza era ingombrante quanto ritrovarsi una pantera stesa sul divano in salotto. Riusciva a farti mancare l'aria anche se la camera era grande abbastanza da poter tenere necessarie distanze di sicurezza.

Lui era austero ed elegantemente freddo, come al solito, con le spalle poggiate contro al muro accanto alla finestra che affacciava sulla vista di Skys Hollow. Le braccia incrociate contro al petto villoso, camicia inamidata con le maniche a sbuffo e panciotto nero opaco dentro a cui aveva infilato il fazzoletto avorio che gli si avvitava intorno alla gola. I mossi capelli d'ebano erano legati in un codino basso nascosto dietro alla nuca e gli occhi color topazio soppesavano ogni mio gesto con l'ineluttabilità di un'incudine che ti cade addosso.

«Dovresti almeno sforzarti a mangiare qualcosa.» disse, il tono monocorde, come se non gli interessasse davvero. «Ti voglio in forze per la missione.» Per l'appunto.

«Sto bene, domani mangerò.» replicai, in tono asciutto, massaggiandomi il collo e il retro delle orecchie con l'olio profumato, che diffondeva un ottimo odore all'interno della stanza.

«Puoi sempre rinunciare.» Affilò le palpebre in uno sguardo impenetrabile, curvando le labbra in un leggerissimo, affilato sorriso. «Dirò alla Smetanova che ti sei infortunato. Capirà.» Un movimento liquidatore del mento. «Non sempre le cose vanno secondo i piani.»

Rinunciare? E lasciare chissà quanti schiavi innocenti nelle mani del Re? E far restare vivo un rifiuto come Martin? E perdere il cospicuo guadagno che c'era in ballo? Per non parlare della pessima figura che avrei fatto: una macchia sulla mia reputazione di Sfavillo.

«No, ho detto che sto benissimo. Devo portare a termine questo incarico.» insistetti, stringendo in due pugni il tessuto bianco ed immacolato dell'accappatoio. Ero consapevole che mi stesse provocando, mettendomi alla prova forse. Non avrei fatto la figura del debole davanti a lui, comunque. Perciò mantenni il sangue freddo, anche quando lui fece un passo verso di me.

La sua mano si avvicinò verso di me e mi servirono nervi d'acciaio per non scostarmi o strizzare gli occhi, come quando si aspetta di ricevere un pugno. Invece, le sue dita mi cinsero il mento, piegandomi la testa all'indietro per poterlo guardare negli occhi anche dal basso. «Volevo solo essere sicuro che ce la facessi.»

Poi mi lasciò andare il viso e tornai a respirare, senza essermi reso conto che avevo trattenuto il respiro. «Buonanotte, Helias.» soffiò, gelido e sinuoso, prima di aggirare il letto ed uscire dalla porta silenzioso come un fantasma. Rimasi immobile a fissare la parete di fronte a me, con la mano posata lì dove mi aveva toccato, in una stupefatta trance.

Poi bussarono alla porta ed immaginai che fosse di nuovo lui, che doveva aver dimenticato di dirmi qualcosa. Spalancai l'uscio e mi ritrovai di fronte un paio di occhi blu, oscuri nella penombra diffusa nel corridoio. Aveva un gomito poggiato allo stipite e lo sguardo affilato.

«Era Alaister quello che è appena uscito dalla tua stanza?» domandò, perplesso e corrucciato, facendosi strada all'interno senza che io lo avessi invitato ad entrare.

«Ma prego, si accomodi, faccia come se fosse a casa sua!» brontolai, osservandolo di sottecchi: indossava pantaloni blu notte e una camicia che gli cadeva scompostamente fuori dall'orlo, evidentemente si preparava ad andare a dormire e al contrario del Re degli Assassini se ne infischiava di come appariva. Eppure, la camicia libera intorno ai fianchi e i lacci slacciati sul colletto della camicia gli donavano un fascino rude che mi costrinse a distogliere lo sguardo.

«Allora?»

Sospirai, alzando gli occhi al cielo. «E' venuto a chiedermi come sto...»

Inarcò un sopracciglio, sospettoso, ma poi lasciò perdere. «E come stai?» A giudicare dalla sua espressione, non era una domanda che celava un trabocchetto, per valutare se un'esperienza di pre-morte mi avesse indebolito. Gli importava per davvero.

«Guardami! Sono vivo e ciò vuol dire che sto benissimo. Anzi, adesso la mia voglia di portare a termine la missione e ammazzare Martin e i suoi compari è molto più forte di prima.» sibilai. «Se pensano di poter mettere fuori gioco Sfavillo e passarla liscia, oh, si sbagliano di grosso.» conclusi, aggirandomi nella stanza per scaricare la rabbia passo dopo passo.

Mi posò una mano sulla spalla, fermandomi. Le iridi scintillavano come pietre preziose alla luce delle candele. «No, sul serio. Come stai?» Strinsi le labbra. Mi sentivo ancora unto, sporco e quella sensazione di vicinanza alla morte mi aveva fatto ricordare mia madre, la sua mancanza, l'ingiustizia di averla persa.

Percepì qualcosa di strano in me. Me lo lesse in faccia ed io gli fui grato quando cambiò tatticamente argomento. «Ptf. E dire che mi sarei aspettato un "grazie mio baldo e prode cavaliere, per avermi salvato la vita".» esclamò, il tono scherzoso e quel ghigno con tanto di fossette irriverenti.

«Scemo...» bofonchiai, andando a sedermi sul letto, le ginocchia tirate al petto mentre anche lui si sedeva sul ciglio del materasso. Anche se mi stava solo prendendo in giro, aveva ragione. Mi aveva salvato la vita e molto più di una volta. Prima, al Ballo dell'Orchidea. Seconda, al ritorno dalla Transilvania. Terza, alle fogne.

Gli sarei stato eternamente debitore. «... Grazie.» sussurrai, con un fil di voce, la testa abbassata e i riccioli d'oro sparsi sugli occhi. Lo intravedevo fra la tenda di capelli biondi, vicino a me. «Per avermi salvato la vita tante volte.»

Batté le palpebre, scioccato, quasi non credesse alle sue orecchie. Arrossii. «E scusa... Avrei dovuto fidarmi di te e aspettarti.»

«Che mi venga un colpo.» Il sorriso gli andò da un orecchio all'altro, mostrando un accenno di denti. Ma non era derisorio, solo sincero, mentre faceva scivolare le mani fra le mie e io non gliele scacciavo. «Avrei voluto fare di più di così.» disse, facendo scivolare gli occhi sul mio collo, come se potesse scorgere le chiazze scure di dita avvinghiate intorno alla gola.

Ormai i lividi erano guariti, ma sapevo che doveva avere ancora in mente la scena in cui gli crollavo morente fra le braccia, all'ingresso della Fortezza. Mi morsi l'interno della guancia. La situazione si era fatta inaspettata intima, mentre la notte s'inoltrava e il chiarore delle candele gettava giochi d'ombre sui nostri volti. Fu per quello che trovai il coraggio di parlare.

«Si faceva chiamare il Conte Alucard.» esordii, con la gola serrata. «Ma in realtà era un demonio.» E così gli narrai le mie ultime missioni. Tralasciando certi siparietti piccanti, ovviamente.

Ma gli attimi passavano e Yul incominciava a sapere pian piano delle mie disavventure. Dal Deserto Rosso, all'harem del Sultano. Dalla Baia del Teschio, all'isola del Signore della Giungla. Dal castello del vampiro, al gioco delle due notti. Dalla chiave, alla stanza vuota del bordello.

Non osò interrompermi, a parte qualche breve commento per chiedermi ulteriori informazioni. Avevo perso la cognizione totale del tempo ma sapevo che erano passate ore, quando finii di raccontargli la delusione e lo sbigottimento che avevo provato quando avevo saputo che le guardie reali avevano fatto sparire ogni cosa su mia madre. Quando smisi di parlare, gli occhi di Yul erano velati di dolore e stupore.

«E' davvero assurdo. Strano e assurdo.» Si umettò le labbra. «Mi dispiace, Helias.»

Sollevai i lembi delle labbra in un sorriso amaro. «Siamo Assassini. E' il nostro lavoro incappare in simili situazioni...» Ma non commentai nulla su mia madre. Cercai di tirarmi su di morale. «Ottimo, ora che sai tutto, siamo davvero diventati soci.» mormorai, con sorrisetto divertito, cambiando improvvisamente posizione quando mi resi conto che l'accappatoio scopriva un po' troppa pelle.

Evidentemente se ne accorse anche lui, perché la sua mano scivolò dal collo alle clavicole nude, e un sorrisetto gli si dipinse sul viso. Mi schiarii la gola, tentando di dominare il rossore che il tocco di Yul mi stava facendo salire alle guance. Invano.

Il rosso ricambiò il sorriso, ma non disse nulla. Mi sforzai di guardarlo negli occhi, in quei brevi attimi di silenzio, accorgendomi che si era fatto serio. Poi, improvvisamente, mi abbracciò.

Non fu un abbraccio lascivo, o almeno, non solo quello. Mi strinse forte, potevo sentire tutti i muscoli delle sue braccia cingermi il torace e arrivare alla schiena. Appoggiò la guancia liscia e calda sulla mia spalla e avvertii il leggero solletico dovuto ai suoi capelli morbidi.

«Y-Yul?»

«Lasciami stare così per almeno... Altri due minuti.» soffiò, senza spostarsi di un centimetro, ma abbracciandomi ancora più forte. Sentii il cuore battere come impazzito, il respiro farsi più veloce. Per qualche strano motivo che neanche io compresi, mi ritrovai ad aggrapparmi alla sua schiena, stringendo il liscio tessuto della camicia di seta fra le mani.

«Credevo che stavolta ti avrei perso davvero.» Un bisbiglio. «Ho pensato che non avrei mai più trascorso del tempo insieme a te... Ti ho dato per spacciato. E in quel momento non riuscivo a fare altro che pregare di esserci io al posto tuo.»

Strabuzzai gli occhi, incredulo. «Yul, io...»

Mi posò un dito sulle labbra, lasciando la presa sul mio corpo. «Sssh. Non dire nulla.» mormorò, con una dolcezza che mi fece sussultare il cuore. Mi prese il viso fra le mani e io percepii il tepore delle sue dita affusolate e callose sulla pelle. Ebbi il tempo di vedere i suoi splendidi occhi blu notte, prima che le sue labbra calde coprissero le mie fin quasi a strapparmi l'anima.

Gemendo, mi lasciai cadere all'indietro, sul letto a baldacchino. Lui mi seguii e si strinse su di me: avviluppai le gambe intorno alla sua vita mentre le sue mani mi si infilavano fra i capelli e poi incominciavano a vagare su tutto il corpo.

Mentre le nostre lingue si intrecciavano, mi sfregò contro l'erezione, che non era l'unico ad avere. Il mio naso si riempì del suo particolare profumo e la mia bocca si deliziò col suo sapore di menta e caramello. Non importava quanto potesse essere affascinante ed esotico un Sultano, o avvenente e pericoloso un Pirata, o elegante e tenebroso un Conte.

Yul era l'unico. Yul era mio.

E io ero suo.

Si sollevò da me, giusto il tempo di farmi scivolare via l'accappatoio. Poi si rituffò sulle mie labbra e questa volta il bacio non fu delicato come il precedente. Né lieve, né breve. Ebbi l'impressione che la sua lingua arrivasse fino alle mie tonsille. Prese la mia bocca come un uomo assetato in cerca dell'ultima goccia d'acqua in un deserto.

Un bacio si trasformò presto in due baci, fino a che il sensuale rosso non fu a torso nudo. Mi mordicchiò e succhiò i capezzoli, compiaciuto dalla reazione che ottenne. Andò avanti, massaggiando il rigonfiamento nel mio intimo, mentre tremavo sotto di lui.

«Ho bisogno di starti dentro.» mi bisbigliò all'orecchio, provocandomi un lungo brivido di desiderio nel basso ventre. Riuscii a malapena a respirare, prima di sentire le sue labbra roventi posarsi sul mio collo e le sue mani calde sfiorare l'orlo dei boxer di seta. Mi lasciai totalmente andare, cedendo il controllo all'ardente bocca di Yul.

Incapace di resistere al richiamo della pelle nuda, mi tolse quell'ultimo indumento con gesti precisi e fulminei, dettati dalla lussuria, prima di togliersi a sua volta tutto quello che lo copriva. Divorai con lo sguardo ogni centimetro della sua pelle diafana, dal collo lungo ed elegante ai muscoli guizzanti e torniti. Era talmente perfetto che sembrava un'opera d'arte scolpita nel marmo. Si avvicinò al mio orecchio, iniziando a leccarmi il lobo giusto per infastidirmi.

«Toccami.» soffiò, afferrandomi le mani per poi posarle sui pettorali lisci e caldi. Si strusciò contro di me, trasmettendomi brividi di piacere. Come a cogliere il suo invito, accarezzai il suo petto muscoloso e scesi verso gli addominali perfetti, assaporando il suo desiderio che cresceva ad ogni mio piccolo tocco. I suoi occhi si piantarono su di me, ancora più lussuriosi di prima, provocandomi un'erezione decisamente più violenta, quasi fossi pronto a venirgli addosso, col suo solo sguardo.

Il suo membro indurito premette contro il mio ventre, lasciandomi una scia umida sulla pelle nuda.

«Sei così bello...» Il suo mormorio suadente mi fece contrarre gli addominali, ritrovandomi a sfregare la mia intimità contro il suo corpo. Lui ebbe un sussulto, quasi un gemito. Si diede ad una leggera risata beffarda, arrochita dal desiderio.

«Se continui così, mi farai venire prima di entrarti dentro.» Mi afferrò il posteriore sodo, attirandomi a sé. Cedetti alla tentazione di baciare quelle labbra favolose. Le nostre bocche si riconobbero e le nostre lingue si intrecciarono. Il mio membro prese a pulsare in reazione al contatto con Yul e il suo sapore. Lui mi strinse la base dell'asta, con un ghigno, e io mi ritrovai a gemere.

«Non venire ancora, Helias Bloomwood. Voglio esserti dentro quando lo farai.» dichiarò, leccandosi le labbra, per poi scandagliarmi con un'espressione rovente.

«Allora è meglio che ti sbrighi.» ansimai, con un tono di voce che non credevo di avere. Ormai la mia mente era del tutto ottenebrata dal desiderio, come se non avessi più alcun controllo sui miei pensieri e su ciò che usciva dalla mia bocca. Non riuscivo neanche più a pensare. L'assassino dai capelli scarlatti era l'unico oggetto dei miei pensieri e il mio futuro non era che il prossimo contatto fisico. D'ora in avanti, ne ero sicuro, non ci sarebbe stato più nessun altro. Yul era l'unico.

«D'accordo, Hel.» ridacchiò, in un tono compiaciuto e colmo di lascivia. «Allora apri bene le gambe.» Mi strinse le mani sotto le ginocchia, fino a quando non riuscii ad aprirmi completamente, senza incontrare alcuna opposizione.

«Che bello spettacolo.» Si morse le labbra, come se non desiderasse altro che prendermi violentemente. Fece guizzare lo sguardo dal mio viso al mio posteriore ben in vista. Avvampai.

«Pervertito...» biascicai, mentre la mia faccia diventava sempre più bollente. «Ngh-» Non me ne ero neanche accorto, ma Yul si era leccato un dito lungo e affusolato e lo aveva inserito con delicatezza nel mio stretto orifizio. Mi concesse qualche secondo per rilassarmi, poi iniziò a muoverlo avanti e indietro.

«Un altro.» gemetti, quasi implorante. Inserii un secondo dito, aprendolo a forbice fino a quando non mi ritenne preparato a sufficienza.

«Pronto per avermi?» sghignazzò.

«Oh, muoviti Yul!» ansimai, impaziente di sentirlo dentro. Ah, se ero pronto!

Mi posò un bacio sulla spalla lattea prima di allineare la punta dell'erezione al mio cerchietto di muscoli. Mi penetrò completamente, con un lento movimento, fino a quando non mi riempì completamente. Sospirammo simultaneamente, finché non si mise a ghignare, non muovendosi si mosse di un centimetro.

«Dici che devo muovermi?» ridacchiò al mio orecchio, sfiorandomi la guancia con le labbra. Gli lanciai un'occhiata carica di desiderio, puro e crudo.

«Si, veloce...» lo pregai, perdendo ogni traccia della mia dignità e delle mie titubanze. Si diede ad un sorriso trionfante.

«Agli ordini.» sussurrò, lieto di obbedirmi. Si tuffò nel mio corpo, lasciando che la lussuria e il piacere determinassero la velocità e la profondità della penetrazione.

«Ahn! Più forte!» urlai, mentre le sue mani mi stringevano sotto le ginocchia, per tenermi meglio divaricate le cosce. La fronte di Yul si imperlò di sudore, i suoi fianchi si mossero ancora più velocemente. Non si era più spinto oltre, dopo quei giorni poco prima della mia partenza per la Baia del Teschio; non ricordavo fosse così bello averlo dentro.

Si allungò per afferrare il mio membro, dandomi qualcosa contro cui sfregarmi mentre continuava a muoversi dentro di me. Strinsi le lenzuola sotto di me e inarcai la schiena, in un momento di libidine pura.

«Oh... Si!» gridai.

Un'ultima spinta e schizzai la mano e il petto di Yul. Contemporaneamente riempì del suo seme le mie natiche strette. Alla fine, collassammo insieme sul materasso e lui scivolò fuori, leccandosi il mio umido piacere dalla mano, non prima di avermi rivolto un sorriso perverso. Bofonchiai un verso colmo di imbarazzo e ridacchiò.

Poi mi strinse fra le sue braccia, senza che potessi ribellarmi e mi addormentai, cullato dalla piacevole sensazione di essere nel posto giusto.

***

Il giorno dopo, avevo ancora il posteriore indolenzito, ma cercavo di non darlo a vedere stringendo le natiche e camminando a passo svelto. Ritornare nelle fogne mi regalava un orribile senso di dejavu: chi avrebbe desiderato tornare nella lercia tana che ti aveva quasi ucciso? Per fortuna, dopo l'inondazione un po' della sporcizia e del fetore erano stati spazzati via, compresi i topastri che popolavano le gallerie di squittii ed escrementi.

Il motivo per cui eravamo tornati era la porta segreta che conduceva dritto in casa di Martin: ricordavo perfettamente quel tratto della fognatura. Lì era dove Dan mi aveva legato alla sedia e aveva sperato che restassi a marcire. Avevo dovuto scacciare un brivido, mentre spiegavo a Yul che scassinarla era impossibile. Era praticamente blindata, forse anche con la magia.

Questo ci aveva fatto venire un'intuizione: se non potevamo entrare noi dentro, allora bastava che venisse qualcuno fuori. Ad un certo punto della giornata, almeno un servitore avrebbe gettato la spazzatura: con un po' di fortuna uno di noi sarebbe sgusciato all'interno all'insaputa del domestico, restando nella cantina ad aspettare le sette e mezza.

Quale rivincita migliore poteva esserci del compiere l'assassinio grazie alla porta che Dan mi aveva mostrato? Stupido idiota. Nemmeno mi aveva riconosciuto come il ragazzo della festa d'Estate. Avrebbe pagato il prezzo della sua stoltezza con la morte: mi sarei beato del suo sangue sulle mani, come facevo con tutta la feccia della società di Darlan. Non era mai bello uccidere, ma eliminare quello schifo dal mondo mi lasciava una strana sensazione di appagamento.

La vendetta aveva bisogno di qualcosa con cui essere nutrita... E magari un giorno sarei riuscito ad incappare nel losco individuo che aveva pugnalato mia madre.

Elaborato quel piano per la missione di domani, emergemmo con mio grande sollievo dalla fognatura. Il punto di sbocco era un tombino situato in una traversa oscura non troppo vicino, in prossimità del fiume Tibor. Dalle rive si estendeva una lunga passeggiata panoramica che avrebbe portato alla Fortezza: un momento per raccogliere le idee e pianificare mentalmente mentre camminavamo.

I bagliori delle candele dentro ai vetri dei lampioni rischiaravano appena la strada, oscurata dalle ultime luci del tramonto. Solo qualche sprazzo d'arancio e la tenebra che incombeva, cercando di saziare la sua fame penetrando fra le strade. Con le mani nelle tasche, continuai a proseguire, ascoltando lo scalpiccio dei nostri stivali senza dire una parola. Ma sapevo che Yul mi stava scrutando: sentivo il peso dei suoi occhi addosso.

Girai le iridi e i nostri sguardi, infatti, s'incontrarono a metà strada. Preso alla sprovvista, l'assassino irrigidì la mascella e allungò il passo. Aggrottai la fronte ma non dissi niente, modulando la camminata per stargli dietro. Mentre cercavo di capire cosa non andasse, lui prese parola.

«Ieri è stato bello.» disse, senza guardarmi negli occhi. Aveva un tono strano, quello di qualcuno che si preparava a dire "ma". Non osai fiatare. «Ma non me la sono sentita di dirti che...» sfiatò, la voce bassa ma asciutta, senza continuare. Mi fermai all'improvviso.

Che? Che aveva veramente una relazione con Lysandro? Che non voleva più svolgere la missione con me?

«Di dirmi che cosa?» Cercai nel suo sguardo le risposte e lui piantò gli occhi sul fiume, senza ricambiare i miei. Sentii il cuore iniziare a galoppare, l'angoscia che montava senza che ne capissi il motivo.

«Che ho finito di preparare le mie cose.» disse, appoggiando i gomiti sulla ringhiera di pietra che affacciava verso il fiume. Sbatté le palpebre, lentamente. «Me ne vado.»

Sentii un groppo in gola, mentre fissavo la sua schiena e non mi avvicinavo, immobile sul marciapiede. «Te ne vai dove? Lasci la Fortezza... E prendi un'altra casa in città?» chiesi, molto lentamente. La mia voce in bilico sul filo del rasoio.

Forse se ne andava in missione. Ti prego, fa' che sia così.

«Lascio Skys Hollow.» rispose. Sussultai, quasi avessi ricevuto uno schiaffo, indietreggiando di un passo. «Per sempre.» Il cuore mi cadde sotto alle scarpe. Scavò un buco e finì sotto terra.

«Come? E perché diamine lo faresti?» ansimai, alzando la voce fino a farla diventare stridula: mi guardai intorno per un breve attimo, ma nessuno era nei paraggi a quell'ora e in quella zona della città. Potevamo parlare indisturbati, ma Yul sussurrava lo stesso, come se non volesse realmente dirlo ad alta voce.

«Per avere la mia libertà, Helias. Non è evidente?» strinse le dita sul corrimano e si girò finalmente per fronteggiarmi.

«Ma non c'è bisogno di andare tanto lontano...» mormorai, con la voce fioca, la gola chiusa.

«Scherzi? Se resto qui continuerò a dipendere dal "Re degli Assassini".» disegnò delle virgolette nell'aria. «A lavorare sotto la sua giurisdizione.» Scosse la testa, alzando la voce. «E poi, cos'ho che mi tiene qui? Cosa mi resta? Alaister non vede l'ora che mi levi dalle palle. E' evidente.»

«M-ma... Sei il secondo elemento migliore della Gilda! Sono certo che, se gliene parlassi, ti farebbe delle offerte decisamente cospicue per convincerti a restare!» esclamai, stringendo i pugni.

Emise una risata sprezzante. «Gliene ho già parlato. Mi ha detto che è d'accordo, che qui a Skys Hollow sono un intralcio. E tu sei la mia distrazione.» Avevo gli occhi fuori dalle orbite. Io ero che cosa? «Ho già dei contatti a Deeper, riuscirò a ricominciare da lì. Magari anche ad occupare una posizione migliore rispetto a quella che ho adesso.» Fece spallucce.

«Io non sono la tua distrazione! E Deeper è lontanissima da qui! Nemmeno lontanamente importante come la capitale di Darlan! Che cosa te ne importa?!» sbraitai, con la faccia rossa per via della frustrazione che montava, un passo vicino a lui, le dita che gli afferravano il bavero della giacca.

«Ormai è già tutto deciso. Me ne vado fra una settimana.» tagliò corto, ferreo, mentre io volevo prenderlo a schiaffi, oppure tirarmi i capelli, o lasciarmi cadere sul ciglio del marciapiede per coprirmi la faccia fra le mani. Non stava dicendo sul serio. Non poteva. Una settimana.

«Se è uno dei tuoi scherzi, è veramente stupido!» Ma lui rimase in silenzio, con una faccia scura. «No, Yul. Non puoi andartene. Non puoi.» sfiatai.

«E per quale assurda ragione dovrei restare?» borbottò, aggrottando la fronte.

«Per me, idiota!» Forse non era una risposta molto convincente, ma stavo cedendo al panico. «Perché sentirei la tua mancanza! Perché, a parte te...» Non avevo nessuno. Era l'unica persona che contasse qualcosa nella mia vita. Ma non completai la frase. «A cosa è servito tutto quanto, se mi lasci qui a Skys Hollow?» Il petto mi faceva così male che volevo stringermelo fra le dita per tentare di calmare quella stilla d'agonia.

«Cosa? Tutto quanto cosa?» Una calma freddezza lo faceva parlare senza nemmeno scomporsi. Come faceva, mentre io volevo prendere a calci tutto quello che avevo sott'occhio? Tremavo di rabbia.

«Be'... Il Ballo dell'Orchidea, per esempio. O gli spartiti che mi hai regalato! Ti sei beccato le botte al posto mio da Alaister...» La mia voce si abbassò tanto che lo scroscio del fiume poteva quasi nascondere le mie parole. Ma ero certo che lui le sentisse molto chiaramente. «E le carezze. I baci. Fare... Fare tutto quello che abbiamo fatto.» Ero rosso, ma non sapevo se per l'imbarazzo o la collera.

Affilò lo sguardo, fissandomi, come cercando di capire dove volessi arrivare. «Eppure hai detto che non te ne frega niente di quello che penso di te. O di quello che faccio.» Era vero. Quando avevamo litigato, giorni prima, gliene avevo dette di tutti i colori. E lui non se ne era dimenticato.

«Oh andiamo! Quando si discute... Si dicono stupide cazzate che non sono mai vere!» sbraitai. «E so che lo sai, bastardo di un Pevensie!» Inclinò le labbra in un sorrisetto sghembo.

«Sai qual è la verità, Helias?» sfiatò, mentre io chiudevo e riaprivo i pugni, in tensione, in attesa, in apnea. «Ho passato l'intera primavera a sognare un modo in cui ammazzare Alaister, ho dovuto lottare con me stesso per non ucciderlo nel sonno quando ne avevo la possibilità. Lui ne era perfettamente consapevole.» Avevo le labbra spalancate. «Dopo quello che ci ha fatto, ho capito che dovevo lasciare questo posto, la Gilda, Skys Hollow. Altrimenti finiva male.»

Battei le palpebre, incredulo e lui proseguì ancora: «Però non subito. Dovevo aspettarti e sapere che tu stavi bene, che eri sano e salvo dalla missione in Transilvania.» Se avessi avuto una sedia mi ci sarei comodamente abbandonato sopra, visto che le gambe erano diventate molli. Non osai interrompere quel fiume in piena, mentre mi appoggiavo coi fianchi alla balaustra di pietra, la pioggia che picchiettava leggermente i nostri cappucci.

«Alaister era consapevole anche di questo. Perciò ha fatto quello che sa fare meglio: ha usato quello che provo per te per incastrarmi. Mi ha tolto ogni ingaggio e mentre aspettavo il tuo ritorno mi ha costretto a diventare il servetto di Sophia e dei suoi cortigiani. Come se fossi anch'io un pezzo di carne del quale poter disporre come gli pareva. Era il suo modo per farmela pagare, il suo gioco perverso.» sibilò. «Voleva vedere quanta merda sarei riuscito ad inghiottire prima di esplodere contro di lui, così avrebbe potuto uccidermi per primo.»

Ero immobile. Bloccato. "Quello che provo per te". La frase continuava a vorticarmi in testa. «Un gioco che ero destinato a perdere anche resistendo, perché Alaister ha già vinto da un pezzo. Lui ha te.» pronunciò, guardandomi duramente negli occhi. Boccheggiai: il mondo era diventato silenzioso, un fischio nelle orecchie. «Speravo veramente che, dopo il tuo risveglio, gliel'avresti fatta pagare per tutto. Una vendetta per averti spinto in capo al mondo ad affrontare missioni suicida e nemici di cui nemmeno lui sapeva niente.»

Mi sentii male. Io non mi ero affatto vendicato di Alaister. Gli avevo giocosamente tenuto il muso mentre lui mi ricopriva di regali che poi sfoggiavo con soddisfazione. Quanto potevo essere stato patetico? Era logico che Yul si fosse arrabbiato con me.

«Ora stai bene, Helias. Sono sollevato di essere riuscito a salvarti ieri. Ma la verità è che non hai bisogno di me e lo sappiamo entrambi. Non ne hai mai avuto bisogno. Tu sei Sfavillo e io sono solo...» Si strinse nelle spalle. «... io.»

Scossi la testa, stupefatto, sbigottito, addolorato. «No Yul, no. Ti prego, dimmelo. Dimmi che cosa provi per me.» Gli avevo poggiato le mani sulle spalle ampie, la testa reclinata all'indietro, gli occhi che scintillavano alle candele nei lampioni.

«Perché? Perché tu possa prenderti gioco di me?» soffiò, con gli occhi velati di dolore e la voce asciutta. Non l'avrei mai fatto. E non era vero, che non avevo bisogno di lui. Forse un tempo, ma era cambiato tutto.

«Per favore.» mormorai.

Allora Yul mi afferrò per le spalle e ruotando su se stesso invertì le posizioni: ora ero io quello contro alla ringhiera, a coprirgli al visuale del fiume, mentre mi stringeva le spalle. E poi le guance, le mani strette sugli zigomi, curvo sopra di me, coprendo la luna con la sua ombra. «Ti amo.» Me lo aveva già detto una volta, ma con un tono scherzoso, beffardo. Ero sicuro che mi stesse prendendo in giro, in quel momento. Ma non ora. Non con quell'espressione seria. Non stringendomi le spalle così forte da farmi male.

«Sono anni che ti amo. Ti amo dalla prima volta che ti ho visto, davanti a quella bancarella di gioielli. Quando sei entrato dalla porta della Fortezza dell'Assassino, ti ho riconosciuto all'istante e, per una volta nella vita, ho pensato che la fortuna fosse dalla mia parte.» parlò molto in fretta. «E Alaister lo sapeva. Ha sempre saputo che ti amo. Ecco perché, mentre ti metteva in pericolo e giocava con te quasi fossi la sua bambolina, mi ha costretto a guardare senza poterci fare nulla.» disse, aspro. Mi faceva male il cuore e al tempo stesso mi esplodeva di gioia. «Ecco perché devo andare via. Non posso più continuare così.»

«No. Ti prego, resta.» lo implorai, stringendo a mia volta le mani sul suo viso. «Ti scongiuro.» Ma lui scuoteva la testa dentro alla mia presa.

«Non posso, Helias.» Aveva gli occhi lucidi. «Non mi merito di soffrire così. Perché sappiamo entrambi che se ti chiedessi di scegliere fra me e Alaister, tu sceglierai sempre lui.»

Silenzio. Il suono della corrente si dipanava fra di noi, mentre la quiete della sera nella periferia rendeva quell'attimo taciturno ancora più pesante. Avevo anche io gli occhi lucidi e il cuore gravido di una tale tempesta d'emozioni che non riuscivo a gestirle tutte insieme. Ma lo sapevo. Quel sentimento che stava affiorando lentamente, che non ero in grado di comprendere.

Avevo capito. Era come se dopo eterni giorni di buio, finalmente vedessi arrivare l'alba.

«Stupido, stupido Yul.» Gli strinsi le dita sul viso, mentre lui continuava a guardarmi con gli occhi blu straziati da quel dolore da sempre presente, ma perfettamente celato sotto la maschera sogghignante e divertita. Mi amava da sempre. «Non hai nemmeno idea di quanto tu sia stupido.» Scossi la testa, la voce increspata da quell'emozione, che si alzava come la prima onda che dava inizio alla tempesta. «Io sceglierei te. Sempre e solo te.» Appoggiai la fronte contro la sua. «Perché anche io ti amo.»

E lo baciai, consapevole di ogni cosa.

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