19. L'Assassino e l'acqua

La mattina era il momento in cui tutto risultava possibile. Sarei riuscito a ringraziare Yul per gli spartiti che mi aveva regalato? Avrei anche potuto invitarlo nella sala della musica per mettere a frutto il dono che mi aveva fatto, un dono che significava davvero tanto per me. Dovevo soltanto trovare il coraggio.

Perciò, mentre menavo pugni e ginocchiate indiavolate contro l'allenatore, mi esercitai sulle parole da dirgli. "Vorresti venire a sentirmi suonare?" sembrava la cosa più semplice, ma l'idea di me che gli facevo una tale proposta e mi mostravo vulnerabile davanti al pianoforte mi imbarazzava ed innervosiva. Potevo semplicemente dirgli "Grazie, è stato un bel gesto da parte tua". Ma già immaginavo il suo ghignetto e le mie guance che diventavano porpora.

Alla fine uscii dalla palestra d'addestramento senza un'idea ben precisa di ciò che volevo fare, i capelli più ricci del solito per via dell'umidità e la camicia a sbuffo bianca che mi si incollava alla pelle per colpa di una patina di sudore che mi sarei volentieri lavato via, ma dopo aver messo sotto i denti qualcosa. Non era mai troppo tardi per fare colazione.

La sala mensa della Fortezza non era neanche così affollata, visto l'orario, perciò mi fiondai verso il buffet che era ancora servito: la maggior parte del cibo era stato spazzolato via dagli assassini venuti prima di me. Notai però che c'era ancora una fetta di crostata alle ciliegie, l'ultima. Col piatto di porcellana in mano e una pinza d'argento, mi apprestai ad afferrarla, prima che una forchetta la facesse strisciare lontano dalle mie mire per farla atterrare nel piatto di qualcun altro.

«Ehi!» sbraitai, alzando lo sguardo dal vassoio dove rimanevano solo le briciole sul ladro di crostata. «C'ero prima io!» Un paio di occhi blu mi rivolsero uno sguardo divertito.

«Ci sono ancora i croissant al cioccolato.» esordì, le labbra incurvate in un sorrisetto sornione e l'indice che ne indicava il vassoio, mentre io gli lanciavo uno sguardo storto e me ne prendevo un paio.

Aveva la camicia aperta, umida di sudore, i capelli un po' scompigliati e il fascino arruffato di chi aveva appena finito di allenarsi. Doveva aver avuto anche lui la mia stessa idea - addestramento prima di colazione - ma non l'avevo visto in palestra, segno che doveva averlo fatto per conto suo, forse andando a correre da qualche parte.

La vista dei suoi pettorali scolpiti mi fece fremere le dita dei piedi dentro alle scarpe. Lo avevo già visto in quello stato molte volte, era normale, anche per tutti gli altri assassini, ma quello era prima di scorrazzare fra le lenzuola insieme a lui. Mi aggrappai all'ultimo brandello di dignità rimastomi per non arrossire, voltandomi con decisione per andare a sedermi ad un tavolo tondo.

Yul mi seguì, sedendosi di fronte a me. Si portò un bicchiere di succo alle labbra, mentre io incominciavo. «Senti, Yul...» Grazie per lo spartito. Avanti, dillo! Alzò lo sguardo dal piatto che aveva spazzolato alla velocità della luce, a differenza di me, che sbocconcellavo nervosamente un croissant.

«... Ormai sappiamo l'ora dell'incontro fra Martin e il suo socio. Dovremmo provare ad entrare nello studio al primo piano per dare uno sguardo ai documenti, prima che li scambi col suo socio.» cambiai frettolosamente argomento. Ormai mancavano due giorni dall'omicidio, forse era meglio rimandare le questioni futili in un momento di maggior calma.

L'espressione altrui s'increspò come un sasso gettato contro uno specchio d'acqua. Finì di masticare, quasi prendesse tempo, prima di rispondermi: «Mi piacerebbe davvero aiutarti, ma devo presenziare alle prove per la Cerimonia dell'Offerta di Lysandro.»

Fu come ricevere una secchiata d'acqua gelida in faccia. Mi ero quasi dimenticato che la cerimonia si sarebbe svolta di lì a pochi giorni. E Yul, ovviamente, era ancora in punizione. Ero certo che Alaister avrebbe fatto quanto in suo potere per tenermelo lontano. Quel maledetto.

«Però possiamo anche farlo dopo le prove, se mi aspetti.» si affrettò a dirmi, mentre io finivo il croissant in un sol boccone e mi tamponavo via i rimasugli di cioccolato dalla bocca. Non avevo intenzione di aspettare i comodi di Lysandro, ogni minuto era prezioso essendo tanto vicini al giorno della missione.

«No. Da solo è anche meglio, darò meno nell'occhio.» tagliai corto, il mio stesso tono stizzito che mi arrivava alle orecchie. Scostai rumorosamente la sedia alle mie spalle, iniziando ad allontanarmi dalla sala mensa. Yul non si perse d'animo e mi seguì.

«Non mi sembra una buona idea, He...» si guardò intorno, correggendosi «...Valentine. E' pericoloso.»

Mi trattenni dall'alzare gli occhi al cielo. «Yul, mi sono liberato dell'intera ciurma del Re dei Pirati. Ho ucciso un mostro marino!» esclamai, come a fargli capire che quello pericoloso ero io, non la situazione. Lui alzò un sopracciglio: non conosceva nel dettaglio le mie missioni, in effetti.

«Ad ogni modo, il rischio c'è comunque. Permettimi di raggiungerti dopo, anche solo per vedere se fila tutto liscio.» insistette, mentre la luce proveniente dalle inferriate del portone d'ingresso gli rischiarava gli occhi blu in un zaffiro profondo, oltremare.

«Pensi ci metterei così tanto? Capisco perché sei al secondo posto, in questa Fortezza...» lo sbeffeggiai, con un sorrisino impertinente, mentre mi avviavo verso l'imponente scalinata che conduceva ai piani superiori e alle camere personali di ogni assassino.

«Ti prego, non metterti a fare l'intrepido. Guarda quei documenti e poi fila via, possiamo sempre riprovare domani, non voglio che corri rischi inutili.» sussurrò, allungando una mano verso la mia. Quando mi guardava in quel modo tutta l'impudenza veniva meno. Distesi la fronte corrugata, sospirando, la bocca schiusa per dirgli...

Il portone si spalancò. Lysandro e Sophia fecero il loro ingresso, avvolti da abiti raffinati e con espressioni compiaciute in volto, come sempre quando entravano nella Fortezza, quasi fossero loro i padroni di casa. A giudicare da quanto Alaister li vezzeggiava e li metteva su un piedistallo, avevano le loro sciocche ragioni.

«Yul!» Strepitò il cortigiano, fiondandosi verso di lui quasi non aspettasse altro che avvinghiarsi al suo braccio. Come infatti fece. Lysandro mi lanciò uno sguardo di divertita perfidia, mentre si stringeva contro di lui: dal modo in cui lo stava divorando con gli occhi - o almeno, così ero sicuro che facesse - non dubitavo che libero dalla sua costrittiva castità, dopo la Cerimonia dell'Offerta, si sarebbe fiondato da Yul.

La gelosia mi si contorse nello stomaco come un nido di serpenti aggrovigliati e gli restituii un ghigno malevolo. Il brunetto fece finta di nulla, mentre il rosso corrugava la fronte, a disagio. «Oggi Alaister ci porta a comprare dei vestiti che siano degni per la Cerimonia!»

Sophia intanto si limitò ad uno smozzicato e freddo saluto, superandoci, prima di avviarsi dritta verso l'ufficio del Re degli Assassini. «Vero che ti unisci a noi, Yul?» proseguì il cortigiano, cinguettando languido. Cercai di soffocare la rabbia che mi stava travolgendo come un terremoto e, quasi il rosso l'avesse percepita, sottrasse il braccio dalla presa di Lysandro.

Io ovviamente non ero contemplato nell'invito, ma me ne infischiai di quell'insulto. L'ultima cosa che volevo era assistere ad una mattinata di tremendo shopping fra cortigiani. «Oh, perché no? Sospetto che sarà un vero spasso.» risposi verso Yul, piantandomi le mani sui fianchi. «Insomma, chi non vorrebbe ciondolare per tutta la giornata, mentre gli altri lavorano?»

Gli scialbi occhi verdi del bruno mi dardeggiarono contro uno sguardo di fuoco. Ops. «Vieni a pranzo con me.» disse invece l'assassino di fronte a me, guardandomi fisso negli occhi.

«Cosa? Ma come?!» strepitò Lysandro, mentre io strizzavo le labbra fino a farmele sbiancare.

«Devo lavorare.» chiusi subito la questione: dicevo che sarebbe stato un gioco da ragazzi infiltrarsi in casa di Martin per dare un'occhiata a quei documenti, ma dovevo pur sempre pianificare come farlo. E non avevo voglia di distrarmi, pensando a cose stupide come Yul, Lysandro, Alaister e quella stupida cerimonia. «Ci vediamo.»

Mi voltai senza salutarli, né dare un'occhiata alla reazione dell'assassino. Mani nelle tasche e passi felpati, sgusciai su per le scale fino a chiudermi la porta alle spalle.   

***

Avevo sfruttato lo stesso punto strategico dietro alla gargolla per sorvegliare gli spostamenti di Martin: tutto vestito a festa, con degli abiti viola che facevano a pugni con l'incarnato bruciato dal sole, si era recato sicuramente ad un qualche ricevimento appena era arrivato l'imbrunire. La sua carrozza era gremita di guardie e se l'idea folle di un'uccisione prima del previsto mi aveva sfiorato, l'avevo accantonata subito.

La sua scorta, l'omaccione amante dell'alcol che io e Yul avevamo pedinato, non si era fatto vedere e dubitavo che avessi tanta fortuna da beccare il suo giorno libero. Ammesso che lo avesse.

Alla fine ero sceso dal tubo della grondaia per accostarmi, quatto quatto, verso le mura della casa del mio obiettivo. Era gremita di guardie, sia dentro che fuori, ma col favore del buio e grazie alla pioggerellina fitta che scendeva e che s'infilava negli occhi, riuscivo a proseguire con estrema furtività fra le siepi scolpite del giardino.

Avevo evitato di infilarmi la solita maschera sul viso perché avrebbe limitato troppo la visibilità della situazione, visto che il buio e la pioggia già aggravavano la situazione. Mi limitai ad accostarmi spalle al muro, sgusciando proprio dietro ad una guardia, il suono di passi felpati mascherato dal ticchettio perpetuo dell'acqua contro la pietra.

La tuta nera che mi aveva regalato Alaister era comoda e pratica, con gli appositi scomparti nascosti che celavano le armi, liberandomi dall'impiccio di eventuali lame a penzolare dalla mia cintura. Perciò non mi fu affatto problematico iniziare la scalata: stivali e dita incontravano i giusti appigli ed io riuscivo a non scivolare sulla pietra. Anzi, proseguii senza intoppi fino al primo piano, piazzato fin troppo in alto per la norma, cosa che mi fece maledire nella mente chiunque avesse costruito il palazzo.

Sapevo che in quei brevi attimi d'arrampicata ero allo scoperto, ma mi assicurai di muovermi il più fulmineo e silenzioso contro la parete, esattamente come una lucertola. Poi mi fermai sul cornicione, proprio accanto alla finestra dello studio: all'ora di pranzo, mentre Yul se la spassava con Lysandro, io studiavo le mappe dell'appartamento di Martin. Grazie a ciò, stava filando tutto liscio.

Durante i nostri appostamenti, avevamo già avuto modo di studiare le serrature: sapevo come aprire facilmente quella che sigillava la finestra, era di un tipo piuttosto nuovo. Feci scivolare un grimaldello all'interno della toppa, lavorando con i puleggi interni finché non sentii qualcosa scattare. Storsi le labbra quando le ante si aprirono cigolando piano.

Studiai velocemente la stanza senza ancora entrare: la luce che proveniva dalla strada illuminava a malapena la scrivania intagliata, su cui una serie di documenti d'affastellavano confusamente sopra la superficie di legno. Possibile che Martin fosse tanto imprudente?

Mi calai all'interno con un salto sul tappeto persiano che aiutò a soffocare ogni rumore. E trattenendo il respiro mi voltai per chiudere le ante.

A quel punto, una guardia nascosta proprio nell'oscurità accanto alla finestra mi si lanciò addosso.

Non persi tempo: rotolai a terra e col pugnale sguainato gli pugnalai una coscia. Gemette e si accartocciò a terra, mentre il suo sangue mi macchiava le dita. Mi rialzai per affrontare il secondo, che si era fatto avanti da dietro ad una libreria. Parai il pugno che fece volare verso di me col palmo della mano e gli rifilai una ginocchiata in mezzo alle gambe. Ululò tenendosi il cavallo dei pantaloni mentre cadeva a terra. I suoni però avevano attratto altre guardie.

La porta dello studio si spalancò e io capii di essere nei guai tanto in fretta da indietreggiare rapido verso la finestra: prima che potessi darmi alla fuga però, accadde. Il suono di ceramica che mi si infrangeva addosso con uno schianto devastante.

Un vaso, probabilmente. Spaccato proprio contro la mia testa. Caddi in avanti sul tappeto, sibilando, ma anche se cercavo di tenere gli occhi aperti la vista mi si oscurò lo stesso.

Persi i sensi.

***

La prima sensazione che mi invase fu un torpore alle mani addormentate. Per secondo arrivò il fetore, che mi aggredì le narici talmente forte da rischiare di farmi lacrimare gli occhi. Restai per qualche secondo immobile - non che avessi scelta, viste le braccia bloccate - con la testa china verso il basso e gli occhi chiusi.

Volevo capire dove mi trovassi e con chi, fingendo di dormire ancora per un po', ma prima ancora che potessi carpire indizi dal mondo circostante una manona massiccia mi stampò un ceffone talmente forte da farmi scattare la faccia di lato e fischiare l'orecchio. Spalancai gli occhi.

«Hai finito di fare la nanna, dolcezza?» tubò l'omaccione sgradevole che capeggiava le guardie di Martin, le mani ferme sui miei polsi, a loro volta fermi perché ben legati da corde spesse contro i braccioli di una sedia. Anche le caviglie erano bloccate: potevo muovere solo la testa.

Ben presto mi resi conto della galleria unta e sporca in cui ci ritrovavamo, con l'acqua che gocciolava e un torrentello di liquame che mi arrivava alle caviglie. Oscurità intorno a noi, a parte una minuscola grata orizzontale sulla parete sulla sinistra, da cui arrivava un briciolo di luce notturna. E poi squittii sospetti e un costante gocciolare.

Non c'erano dubbi: ero nelle fognature della città.

A qualche metro dietro la mia sedia, se giravo il collo, potevo notare una porta sigillata, evidentemente un'uscita segreta dalla casa di Joseph Martin: era lì da molto prima che lui la acquistasse, aveva un'aria troppo antica perché potesse trattarsi di una nuova aggiunta. Sicuramente era un'uscita secondaria da utilizzare in tempi di guerra: secondo le mie letture, ci venivano applicati degli incantesimi per sigillarla, in tutta sicurezza. Adesso, poteva essere usata per disfarsi dell'immondizia.

Oppure per tenere fuori gli assassini come me.

Uno scoppio di risate sogghignanti attirò la mia attenzione verso il bruto che mi aveva schiaffeggiato e i due uomini che lo circondavano, un passo dietro di lui, fissandomi con aria malevola e compiaciuta. Dovevano avere un piano, per me. Non mi feci intimidire.

«Fra tutte le stanze in cui potevi andare a rubare qualcosa, hai scelto proprio lo studio al primo piano.» esordì, inclinando la testa di lato, il ghigno sgraziato che si spalancare per mostrare i denti ingialliti. «Non è strano?» Lanciò uno sguardo ai suoi compari. «Oh, ma sappiamo entrambi che non sei un ladruncolo qualsiasi.»

Incrociò le braccia ed iniziò a camminare avanti ed indietro, sollevando schizzi d'acqua sporca. Fino ad ora non me ne ero accorto, ma il livello dell'acqua si era alzato: ora mi arrivava ai polpacci. Mentre me ne accorgevo, ebbi l'impressione di veder galleggiare qualcosa di disgustoso dentro l'acqua e dovessi distogliere lo sguardo, strizzando le labbra.

«Chi sono i tuoi compagni?» incalzò, ancora una volta.

«Se ti rispondo mi lasci andare?» presi finalmente parola, atteggiando la bocca in un labbruccio tremulo, le ciglia che sfarfallavano con aria spaventata. Esageratamente, quasi fosse una parodia.

«Mettimi alla prova.» disse l'altro, senza perdere il suo orribile ghigno lupino, che non aveva nulla di serio.

«Allora ti rispondo: tua madre.» esclamai, distendendo fra le guance un sorriso sprezzante e spregiudicato. L'altro mi rivolse un'occhiata divertita.

«Fai il sarcastico, che carino.» Allungò una mano verso di me, il ditone ruvido che premette sulla mia guancia in una specie di carezza impositiva e lasciva, che celava qualcosa di derisorio. «Che peccato che non aiuterà a salvarti.» Sospirò, scuotendo la testa. «Uno spreco...»

«Del mio tempo? Certo.» Schioccai la lingua, ma lui si inclinò sopra di me, troneggiando con tutta la mole del suo corpo, le dita arpionate intorno ai polsi bloccati sui braccioli della sedia.

«Chi è il tuo mandante?» sibilò vicino alla mia faccia e il fetore del suo alito mi fece arricciare il naso, disgustato.

«Sono un ladro semplice: sento l'odore dei soldi da un uomo potente come Martin e mi basta quello per agire. A chi servono i mandanti quando si può essere indipendenti?» ridacchiai, ben propenso a continuare quel gioco in cui lo riempivo di fandonie fino allo sfinimento.

«Un ladro interessato non all'oro, ma alle cartacce.» sfiatò, tanto vicino che i nostri nasi quasi si toccavano. Fui tentato di allungare il collo di scatto per azzannargli la faccia e strappargli via proprio il naso, ma quello che disse mi fece desistere all'improvviso. «Ti ha mandato qualche tirapiedi del Re, stronzetto? O magari il Re stesso?»

No, un momento. C'era qualcosa di molto strano nelle parole che aveva appena pronunciato. Perché teorizzava qualcosa di simile, se quei documenti erano a favore degli schiavi e sarebbero comunque dovuti finire nelle mani del Re?

Era esattamente quello il loro destino. Ed era esattamente quello il punto della missione: fermarli affinché lo scambio non si verificasse. Salvare le informazioni, proteggere i contatti sensibili. Eppure, sembrava ci fosse qualcosa che non tornava.

Capii solo in ritardo che aveva solo intenzione di confondermi: voleva giocare con me, con quello che pensava io non sapessi. Quello che non aveva capito, era che io giocavo con lui, non viceversa. Volevo ancora carpirgli qualche informazione, di certo io non avrei ricambiato il favore.

«Bel tentativo. Adesso perché non la pianti di dare aria alla bocca e non inizi a torturarmi? Su, ti puzza l'alito.» cinguettai, come se fossi particolarmente tranquillo davanti a quell'evenienza. Ero sicuro di poter trovare una via d'uscita prima che si verificasse, ma nel peggiore dei casi, Alaister aveva insegnato anche quello ai suoi assassini: come non spezzarsi durante una tortura.

Voi siete fatti di vetro, o siete fatti d'acciaio? Aveva detto. Io ero d'acciaio. Non mi sarei piegato.

«Non essere così brutale, dolcezza. Potrei fare del male al tuo bel faccino?» sghignazzò, tutto divertito, come se non mi avesse dato un ceffone qualche minuto prima. «Non me ne frega un cazzo se non vuoi dirci chi ti ha mandato. Se avessi torturato tutti i criminali mandati contro al mio capo per ottenere risposte, a quest'ora sarei ancora sul primo.» ammiccò.

«Ehi Dan. Dobbiamo darci una mossa.» lo chiamò uno dei suoi compari, mentre l'omaccione annuiva con un cenno secco del capo e tornava a scrutarmi.

«Lascerò che sia la fogna a fare il lavoro per noi.» Si passò la lingua sul labbro superiore. «E penso proprio che a nessuno verrà in mente di controllare la rete fognaria durante l'inondazione. Nemmeno il tuo amichetto.» Mosse le sopracciglia, pieno di provocazione. «Con chi credete di avere a che fare? Pensate che uno come me non vi noterebbe? Be', quaggiù sei solo.»

Cazzo. Non solo ci aveva visto, ma ora si metteva a parlare dell'inondazione pianificata dai netturbini per pulire le strade di Skys Hollow. Mi ero completamente dimenticato fosse fissata ad oggi.

Sentii il cuore iniziare a battere angosciato, ma dalla mia espressione non trapelava che un'altezzosa sicurezza. «Peccato. Speravo restassi ad incontrare i tuoi simili. I ratti sentiranno la tua mancanza.» lo canzonai.

«Per fortuna ci sarai tu a fare loro compagnia.» Mi rivolse un ultimo ghigno osceno. «Dubito che lasceranno qualcosa di te. Sembri gustoso.» Risate squallide, mentre mi rifilava due scappellotti sulle guance, affettuosi quasi.

Per tutta risposta, l'acqua si sollevò fino alle ginocchia, mentre squittii sinistri galleggiavano nelle mie vicinanze. Mi si strinse lo stomaco. Intanto, Dan e i suoi uomini si erano allontanati: prima che sparissero oltre la porta sigillata, l'omaccione mi disse un'ultima cosa.

«Buon divertimento

***

Non era la situazione peggiore in cui ero rimasto incastrato. Potevo affrontarlo.

Eppure, mentre mi guardavo intorno cercando di delineare in quel buio un piano d'azione, l'acqua mi era già arrivata alle ginocchia. Imprecai fra i denti, scuotendo i legacci che mi tenevano avvinghiato alla sedia. Erano stretti in maniera talmente salda che Dan doveva essersi assicurato che non potessi liberarmi con un semplice strattone.

Poi mi ricordai dei pugnali a scatto celati all'interno della tuta, talmente ben nascosti da essere stati in grado di superare la perquisizione che l'omaccione dall'alito fetido doveva avermi certamente fatto. Il gesto che mi aveva insegnato l'inventore della tuta era ancora stampato nella mia mente, perciò tentai di emularlo al meglio che potevo.

Ma avevo i polsi così saldamente bloccati che potevo soltanto sventolare le mani. Strinsi i pugni, sentendo la corda consumarmi la pelle mentre mi sforzavo per contorcermi. Intanto, l'acqua mi aveva raggiunto la vita, un incentivo per non demordere: insistenti a muovere i pugni cercando di ruotare coi polsi.

E finalmente, uno scatto. Il pugnale emerse fuori tanto veloce che graffiò il legno del bracciolo, tagliando i legacci di netto ma premendo anche contro la carne del palmo. Sibilai un gemito fra i denti quando il sangue iniziò a gocciolare: non avevo tempo di preoccuparmi, comunque. Con la sinistra finalmente libera, tagliai le corde della destra ed infine mi inclinai verso il basso, tenendo il mento alto per non toccare l'acqua sporca con le labbra.

Poi, fui finalmente libero. «Alla faccia tua, bastardo...» sussurrai, mettendomi in piedi. Ben presto raggiunsi le scalette di pietra del marciapiede che costeggiava la galleria della fogna, seminandolo di gocce. L'acqua stava comunque salendo fino a dove tenevo i piedi, perciò mi affrettai verso la porta.

Con un po' di fortuna, dandomi per spacciato, potevano anche non averla chiusa a chiave. Dan non era uno stupido, però: quando arrivai a strattonare la maniglia, la porta non cedette. Era perfettamente sigillata. Da qualche parte nelle tasche nascoste dovevo avere ancora il grimaldello con cui avevo aperto la finestra dello studio: lo usai sulla serratura. Tentai di sferruzzare come meglio potevo, mentre l'acqua mi lambiva gli stivali.

Dopo qualche minuto e liquido scuro alle caviglie, dovetti arrendermi. Il chiavistello era una versione troppo antica e sofisticata, niente che avessi mai scassinato prima, non sentivo nemmeno ingranaggi interni.

In piedi di fronte alla porta, mi guardai intorno, cercando di non cedere al panico: c'era una piccola grata laterale, lunga e sottile, un semplice canale di scolo che faceva filtrare la luce dei lampioni ma che non mi avrebbe consentito di far passare neanche il braccio, sfondandola.

«Oh andiamo! Ci deve essere un modo!» sbraitai, perfettamente consapevole di star parlando da solo: sentire il suono della mia voce mi aiutava a mascherare lo scroscio dell'acqua, lo squittio dei topi e il dolore pulsante al polso tagliato.

Iniziai a camminare velocemente lungo la galleria, sollevando grandi schizzi quasi ballassi dentro a pozzanghere alte. In fondo, riuscivo a vedere un punto di svolta: forse, se avessi continuato a correre, avrei trovato il punto in cui le fogne sboccavano sul fiume Tibor. Da lì avrei potuto fuggire indisturbato.

Eppure, ormai stavo praticamente sguazzando, toccando terra con la punta delle scarpe, l'unica cosa che mi impediva di non affogare, visto che non sapevo nuotare. La fogna si riempiva troppo velocemente, non riuscivo a stare dietro alla velocità con cui lo stava facendo. Era una lotta contro il tempo e contro l'acqua che saliva.

La corrente stava iniziando a diventare impetuosa e per non farmi trascinare via dovetti arpionare le dita contro le pietre della parete alla mia destra, viscida e untuosa per via di qualcosa di disgustoso che non volevo guardare. Un'intera mandria di ratti venne trascinato via proprio al mio fianco, mentre squittivano terrorizzati.

Sussultai disgustato, mentre la paura iniziava a montare: non stavo galleggiando dentro all'immondizia dell'intera città. Non stavo galleggiando in una fogna infestata dai topi. Non stavo per annegare. «No no no! Non arrenderti!» ringhiai, nuotando mentre l'acqua mi saliva fino al volto e mi costringeva a sollevarmi dal pavimento. Annaspai.

Doveva esserci una scaletta, una via d'uscita secondaria, un tombino... Non poteva finire così.

Poi ad un certo punto, proprio mentre stava per essere ricoperto dall'acqua, notai una piccola galleria: aveva l'aria di essere uno di quei tunnel usati dagli operai per spostarsi facilmente all'interno delle fognature. Non avevo abbastanza tempo per continuare sulla strada principale, perciò scelsi di tentare la sorte.

Spalancai le labbra, inalando un profondissimo respiro, ignorando il fetore e ricacciando via la nausea. Poi, con le guance piene d'aria, mi immersi fino a scivolare dentro al tunnel. In apnea e con gli occhi semichiusi, usai le braccia e i gomiti per spingermi dall'altra parte, trattenendomi anche con le unghie agli anfratti fra le pietre per non essere spazzato via dalla corrente avversa.

Le pareti ruvide mi graffiavano e i liquami mi facevano bruciare la ferita sulla mano e le escoriazioni, mentre l'acqua sporca mi invadeva le narici. Non riuscivo a vedere quasi niente: c'era solo melma sporca, impossibile affermare quanto lungo fosse il tratto del tunnel.

Forza, forza!

Mi incitai col pensiero per non cedere al panico, in apnea, mentre mi sforzavo a muovere le gambe e tutto il corpo come un'anguilla infilata in un tubo di scolo. Non morirò qui, mi dissi. E proprio quando il fiato iniziava a mancarmi, il tunnel si spalancò e la pressione dell'aria dentro al mio corpo mi fece riemergere velocemente.

Spuntai oltre il pelo dell'acqua melmosa quasi ringhiando, i respiri ansanti, le mani subito avvinghiate ai pioli della scaletta che salivano verso l'alto, dove la grata di un tombino mi faceva vedere direttamente il cielo. Il sollievo mi travolse così velocemente che mi lasciai andare ad una risata liberatoria, molto simile ad un pianto mal trattenuto.

Poi salii i pioli arrugginiti, rapido, deciso a tornare alla Fortezza per preparare immediatamente un piano che avrebbe fatto fuori Dan e i suoi amichetti. Appoggiai le mani sulla grata e spinsi.

Non si mosse.

«No.» bisbigliai, fiondandomi di peso contro al tombino per capire se non fosse semplicemente bloccato. Niente. Non c'erano neanche serrature a vista da poter scassinare. Intanto, l'acqua mi era arrivata alle ginocchia. Imprecando, iniziai a picchiare contro alle inferriate solide. Non ottenni alcun risultato.

Poi, uno scalpiccio di passi dalla strada. Per un momento mi chiesi se non potessero essere gli uomini di Joseph Martin: sarebbe stata una vera disgrazia. Non potevo però farmi sfuggire quell'occasione, perciò iniziai ad urlare.

«Aiuto... AIUTO!» Appoggiai la faccia fra le grate, le guance contro il freddo metallo mentre la pioggia mi cadeva sulla faccia e mi accecava. «SONO QUI!»

L'ombra di qualcuno mi sovrastò. «Helias?» Occhi blu che mi guardavano attraverso l'inferriata. «Merda!» sbottò, sgranando le palpebre. «Non riuscivo a trovarti, pensavo che te ne fossi già andato...» Doveva essere ritornato dalle prove di Lysandro già da un po': era passato a vedere come me la stavo cavando ma non trovandomi, probabilmente se ne stava andando. E così le nostre strade si erano incrociate.

«Aiutami ad uscire da qui! Sbrigati!» ansimai: non avevamo tempo per le chiacchiere. Si mise in ginocchio, curvo sul tombino, mani intorno alla grata proprio vicino alle mie: la sua pelle asciutta combaciava con le mie mani scivolose.

«Spingi!» esclamò, mentre lui tirava. E tirava. E ancora, finché la sua faccia non divenne rossa e non cadde all'indietro. Ma la grata era rimasta lì e avevo l'acqua al petto. «Cazzo... Resisti!» Tornò a lavoro cercando di segare il metallo con l'aiuto di un pugnale.

«E dai... Dai... Per favore, per favore.» continuò, sussurrando fra le labbra quella preghiera rivolta a nessuno in particolare. Se stesso, forse. «Non smettere di spingere!»

«Lo sto facendo!» esclamai, con la voce che si era alzata di un'ottava e l'acqua alla gola, in tutti i sensi. La pioggia peggiorava le cose, velocizzando il riempimendo della fogna.

«Yul...» mugolai, con la voce strozzata.

«Ora ti tiro fuori! Ci sono quasi, ci sono quasi!» Ma sapevo, dall'espressione sulla sua faccia, che stava mentendo.

«Yul, guardami...» ripetei, prendendo frettolosamente fiato, anche se il mio tono stava diventando sempre più calmo. Sempre più arreso.

«No... Dio...» Strinse i denti, picchiando i pugni contro la grata. «No!» Poi si alzò ed iniziò ad urlare e a chiedere aiuto. Premetti le guance contro le inferriate, spingendomi in avanti, boccheggiando. Nessun aiuto sarebbe arrivato, almeno, non in tempo.

Perciò, era la fine. Nel castello del vampiro ero stato così vicino a lambire la morte, ma le ero sfuggito, le avevo riso in faccia. Stavolta, l'acqua aveva vinto. La morte aveva vinto.

L'assassino dai capelli rossi era tornato chino sopra al tombino. Le sue dita stringevano le mie da sopra alla grata. «Per favore... Per favore, no... No... » ansimò, mentre la pioggia continuava ad accecarmi. Non notai le lacrime di Yul. Ma gli tenni le dita, forte.

Avevo a disposizione una manciata di ultimi respiri. Di ultime parole.

«Trova la tomba di mia madre, Yul. Riportami da lei.» Poi l'acqua mi coprì la testa. 

E scivolai a fondo.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top