14. L'Assassino e la bara


*PRE NDA*

No, non è un nuovo capitolo, ho solo diviso il precedente in due parti vista la considerevole lunghezza. Buona lettura!

***


Aprii gli occhi e il mio primo pensiero fu: sono in pericolo. Avevo solo una notte per disfarmi del Conte Alucard, altrimenti... No. Non ci volevo pensare.

Presi un respiro e immediatamente mi resi conto di quanto fosse difficile alzarmi dal letto, di quanto fosse problematico. Mi scostai le lenzuola di seta da dosso e piantai i piedi a terra, con fermezza. Ma appena cercai di issarmi, le gambe divennero molli e la testa iniziò a girare provocando una reazione a catena di mal di stomaco e nausea. Da quando stare in piedi sembrava così difficile?

Sospirai, fissando l'orologio da taschino con preoccupazione: erano le tre del pomeriggio. Non mi ero mai svegliato così tardi in tutta la mia vita. Mi sentivo sempre più fiacco. Confuso, debole. Una candela sciolta sul punto di spegnersi.

Faticai ad alzarmi, ma alla fine riuscii a farmi forza e a muovere qualche passo. C'era un nuovo completo sul mio letto, qualcosa di pregiato sui toni del viola, che mi limitai ad indossare senza pensarci troppo, così stanco che nemmeno il mio estremo gusto per la moda ci fece caso.

Fu un pomeriggio quasi inutile: cercai di ingozzarmi il più possibile di pasticcini al cioccolato e succo d'arancia. Tornai nuovamente ad esaminare il grande portone di legno, con risultati inutili. Scoprii perfino una parte diversa del castello: un luogo che era interamente fatto di pietra. Non c'erano più i pavimenti di parquet, i pannelli di stoffa in broccato, i bei lampadari di ferro battuto. Era una specie di parte antica del castello, forse costruita in un'età differente rispetto al resto del castello. Tutto in sterile e vecchia muratura grigia, le luci non erano che semplici torce a muro. Giurai di aver sentito qualcosa di strano, di sbagliato, provenire da lì.

Il mio istinto d'assassino aveva reagito. Così avevo deciso di non avventurarmi oltre ed ero ritornato indietro nella mia stanza, barcollando. Ero così stanco che, senza pensarci due volte, tornai a dormire profondamente.


Freddo era quello che sentivo. Solo freddo. Dentro e fuori.
Mia madre... La mia dolce madre...

Senza neanche accorgermene, le lacrime avevano iniziato a scendere di nuovo. Avevo freddo. Ero fuggito e non mi ero voltato. Ero fuggito fino a quando quell'uomo dagli occhi spaventosi non era sparito. Ero fuggito proprio come mi aveva detto di fare la mamma.

Ma adesso? Avevo paura.

Non importava quanto mi stringessi nelle ginocchia, sotto il portone di quel bel negozio di scarpe. La neve scendeva fitta fitta e io avevo sempre più freddo. Ora che ci pensavo, presto sarebbe stato Natale. Con chi l'avrei passato? Con chi avrei scambiato i regali? Con chi avrei fatto l'albero? Chi mi avrebbe detto "Buon Natale!"?
Nessuno.

Ora ero completamente solo.

Non sapevo di avere altri parenti, ma non lo credevo possibile, perché la mamma non me ne aveva mai parlato. Non aveva mai parlato neanche di sé. Lei aveva il suo lavoro di cortigiana e cercava di impegnarsi al meglio per crescermi. Quando non lavorava, stavamo insieme. Mi leggeva tanti libri, mi insegnava a scrivere e a suonare il piano. Stavamo bene e non avevo bisogno di sapere nient'altro. Ma adesso?

Adesso che cosa dovevo fare?

La mamma se ne era andata ed io ero rimasto completamente solo, senza più sapere dove andare. La mamma se ne era andata. Senza accorgermene, le mie spalle furono scosse da terribili singhiozzi e io mi ritrovai ancora una volta chino sulle mie ginocchia, a piangere.
In un attimo tutte le mie paure si erano avverate: mia madre era morta, un uomo spaventoso mi dava la caccia ed io ero solo.

«Ehi.» una voce mi risvegliò dai miei pensieri, facendomi sobbalzare. Alzai lo sguardo, con gli occhi appannati e colmi di lacrime e riuscii quasi a distinguere la figura bassa di un ragazzino più grande di me di qualche anno. O forse no. Non aveva importanza. «Sei solo?» chiese. Annuii, stropicciandomi gli occhi.

Il ragazzino si strinse nelle spalle in un gesto quasi imbarazzato. «Il nostro gruppo ha bisogno di un nuovo componente.» sintetizzò in breve. «vieni?» mi porse la mano. Quello era forse l'ultimo accenno di una speranza?

La afferrai.

Una sensazione di calore, un formicolio ed un indescrivibile piacere verso il basso ventre, mi risvegliarono. Strabuzzai gli occhi, di fronte allo spettacolo che mi si parava davanti. La mia camicia da notte era sollevata fino alla pancia, i miei boxer erano misteriosamente spariti e una testa argentata era china ad assaggiare il mio membro, che a tutte quelle attenzioni non era affatto indifferente.

«Che cos..aah!» non riuscii a concludere la frase che il Conte mi stuzzicò con un rapido movimento della lingua e giusto dopo qualche secondo sollevò lo sguardo verso di me, interrompendo il suo provocante operato.

«Ho provato a svegliarti con le buone..» sorrise «...ma per essere un mortale, non davi segni di vita.» ridacchiò e si allungò di nuovo verso il mio membro, che sembrava non aspettare altro, per quanto io fossi debole e sbigottito.

«Un moment..aahh!» lo prese completamente in bocca, risucchiandomi ogni pensiero dal cervello. «Aahh ca- » fui sul punto di imprecare, dimenando il bacino. Ancora una volta quelle dannate mani mi afferrarono per i fianchi, impedendomi di muovermi e nonostante il gelo della sua pelle, seminando calore su tutto il corpo. Continuò a muovere la sua bocca su e giù, con movimenti fluidi, facendomi perdere completamente la testa. «Ahh no!» fece qualcosa con la lingua che mi fece roteare gli occhi all'interno del cranio.

«Ferm...» presi ad affondare il membro nella bocca del Conte, l'unico movimento che le sue mani ferme mi consentissero di fare. Era incredibilmente piacevole, ma erano cose che avrei fatto con qualcun'altro... Quasi potei vedere un rosso circondare con le labbra carnose la punta della mia intimità. Scossi la testa. Non farti venire in mente certe immagini.

Stai pensando di nuovo all'assassino alla menta e caramello...

Rise, nella mia testa, senza staccarsi un attimo dal mio membro. Incapace di fare altro se non di sottomettermi, mi arresi, venendogli in gola con una potenza che mi privò di ogni energia e di ogni briciolo di forza. Finalmente la sua bocca si scollò da me. Il Conte Alucard si leccò le labbra come assaporando un gusto prelibato e ghignò trionfante al mio cedimento.

«Adesso gradirei un po' di sangue» e senza chiedere nulla, mi tirò i capelli con uno strattone furioso, scoprendomi la gola. Incurvai il capo, impotente. Era perfino impossibile divincolarmi, sotto la forza di quelle mani. In più, ultimamente mi sentivo come se tutte le energie fossero sempre più inconsistenti. Riuscii ad udire i canini allungarsi e affondare nel mio collo. Riuscii a sentire il suono del mio sangue che scivolava nella sua gola, veniva deglutito e risucchiato ancora.

Ci vediamo la prossima notte... Al momento della tua morte.

Poi, non percepii più nulla perché ancora una volta ero scivolato nelle tenebre.


***


Helias

Una voce mi stava chiamando. Non era quella del conte.

Helias!

Era allegra, quasi eccitata, ma anche un po' sconvolta.

Non posso credere che esisti davvero

Volevo muovermi. Volevo parlare, scalciare. Ma non riuscivo a fare niente, potevo solo ascoltare passivamente.

Ti ho cercato tanto e parlarti adesso mi sembra quasi... Impossibile. Non ci credo

Non riuscivo a capire se stessi semplicemente sognando o se qualcuno mi parlasse mentre io dormivo. Ma sapevo che era impossibile, perché ero ancora prigioniero nel castello del Conte Alucard, che era sigillato come un forziere senza serratura.

La tua esistenza era soltanto una leggenda...una speranza vana. Invece...

Si bloccò, come se cercasse di trovare le parole. Cercai di articolare una risposta, una frase, una parola, una sillaba. Ma le mie corde vocali non volevano saperne nulla.

Ascolta, non abbiamo molto tempo. E non puoi morire!

Non capivo. Era come sentire qualcuno bisbigliarmi nell'orecchio ma nello stesso tempo sentirlo urlare da lontano. Come quando ero appostato su un tetto e un assassino cercava di parlarmi da un altro, ma la voce rimbalzava fra i muri degli edifici, si perdeva nel vento. Era semplicemente un sogno strano?

Gli unici modi per uccidere un vampiro sono la decapitazione, un paletto di legno nel cuore o la luce del sole. Croci, acqua santa, aglio... Usa tutto a tuo favore. Agisci, salvati.

Sì, era semplicemente solo e soltanto un sogno? Era l'assassino dentro di me che cercava di aiutarmi, rievocando qualcosa che avevo letto tempo addietro? Ero sicuro di non aver mai sentito nulla del genere.

Helias, devi vivere, perché se tu muori... Noi siamo persi. E ora svegliati, non mollare adesso.

Svegliati!

Sobbalzai dal letto, ansimante. Che diamine...? Com'era possibile un sogno del genere? Non ne avevo la più pallida idea. Mi strinsi le coperte intorno al corpo, tremante. Da quando faceva così freddo?

Uscire dalle coperte non era mai sembrato così difficile: appena misi un piede fuori dal letto, la gamba sembrò farsi di burro e caddi a terra, sul tappeto rosso sangue. Tentai di rialzarmi facendo pressione sulle braccia, ma in quel momento mi parve di essere diventato pesantissimo e ricaddi sul pavimento. Forse restai steso per lunghi, lunghissimi minuti. Ma decisi che mi dovevo rialzare.

Mi addossai al muro, reggendomi ad esso mentre mi issavo sulle gambe.Quando fui in piedi, quasi non lo credetti possibile. Perché le gambe mi sembravano così molli? E perché sulla mia pelle l'aria era gelata? Perfino infilarmi un paio di pantaloni sembrava un'impresa complicatissima. Questa volta non ci furono regali o altri inviti. Mi infilai soltanto gli abiti con cui ero arrivato.

E quando finalmente fui completamente vestito, presi un bel respiro. Ormai le scelte erano due: essere ucciso o uccidere.

E ora sapevo come farlo.


***



Alzai la fiaccola, col cuore in gola.

Nonostante ogni fibra del mio corpo dicesse di non proseguire, io continuavo. Avevo capito che di giorno il vampiro era fuori gioco. Non sapevo cosa facesse esattamente e non sapevo neppure dove fosse la sua camera da letto, ma non c'erano dubbi circa la parte del castello che gli faceva da nascondiglio. La zona di pietra doveva essere la preferita del Conte, altrimenti non l'avrebbe mai lasciata in quello stato e l'avrebbe fatta ristrutturare come il resto dei saloni. Quindi era fin troppo chiaro che la sua stanza fosse lì da qualche parte. E poi il mio istinto d'assassino gridava allarmi da tutte le parti.

Deglutii, strisciando sulle pareti, troppo debole per camminare normalmente. Poco prima, mi ero recato nella sala da pranzo e avevo spaccato la gamba di una sedia. Poi l'avevo levigata con uno dei miei pugnali e il risultato era un paletto di legno di noce affilatissimo. Sperai non fosse l'ennesimo fiasco, perché se lo era...

Strinsi il paletto in una mano, la fiaccola nell'altra facendomi forza per proseguire. Questo lato del castello era decisamente più lugubre dell'altro: completamente in nuda e fredda pietra, dalle volte scendevano ragnatele talmente grandi da sembrare finte, le illuminazioni erano soltanto delle sterili fiaccole e l'unico suono udibile nel silenzio implacabile erano delle goccioline che ticchettavano a terra,probabilmente dovute all'umidità. La polvere mi scendeva sul capo come un velo.

Il tutto in un corridoio più simile ad un cunicolo umido, stretto come un sotterraneo. Quando si interruppe, notai la ripida e scivolosa scala a chiocciola di pietra. Le illuminazioni erano concluse e l'unica cosa che si vedeva in fondo era il buio più completo. Col cuore a mille, mi costrinsi a proseguire, seguendo la ripida spirale di pietra delle scale e portando in mano l'unica fonte di luce. Dopo una lunghissima serie di scalini che mi sembrarono infiniti, finalmente,la scala si concluse.

Una folata di vento mi sferzò i capelli e fui sicuro di essere arrivato in una sala grandissima. Ovviamente non ne ebbi la certezza perché tutto era immerso nel buio e la mia fiaccola era in grado di illuminare giusto qualche metro intorno a me. Tesi il braccio,andando alla cieca ma stando ben attento a dove mettevo i piedi. C'era un silenzio talmente implacabile che riuscivo perfino a sentire il rumore del mio respiro. Ogni tanto calpestavo qualche pozzanghera e il rumore provocato mi faceva letteralmente sobbalzare. Dal modo in cui i suoni rimbombavano, l'idea era che fosse vuota.

Poi all'improvviso cambiai ipotesi, perché il mio fianco andò a sbattere contro qualcosa di freddo e durissimo. Mi massaggiai la pelle, lamentandomi in silenzio per il dolore. Poi, quando il fuoco della torcia illuminò l'oggetto in questione, sbiancai. Era una bara di pietra. Che cavolo ci faceva una bara in un castello? Immediatamente una frase mi venne in mente e ricollegai tutto.
Noi siamo morti ritornati alla vita... Noi siamo morti.

Le mie braccia tremarono e il mio corpo fu sul punto di accasciarsi a terra dallo sgomento. Era lì che dormiva il Conte.

Poggiai la fiaccola a terra e pregando di farcela, feci pressione sul coperchio di pietra. Che ovviamente non si mosse neanche di un millimetro. Spinsi ancora ma non funzionò. Feci appello a tutta la forza che potevo possedere, anche se in quel momento sembrava che ci fosse solo debolezza dentro di me. Spinsi, ancora e ancora, finché il coperchio di pietra si schiantò a terra con un tonfo fragoroso. Sobbalzai, sperando che il dormiente non si fosse risvegliato.
Raccolsi la fiaccola e confermai, con un sospiro atterrito trattenuto nei polmoni, che il Conte era lì, addormentato.

Sembrava quasi angelico: la pelle candida, i vestiti eleganti, gli occhi chiusi, i capelli nivei, le mani giunte sul petto. Sembrava angelico e sopratutto sembrava morto. Morto e stramorto.
Ma non dovevo cadere nell'inganno. Quello era un vampiro e non era assolutamente morto.
Adagai di nuovo la fiaccola a terra. Non avevo molto tempo, dovevo agire subito e in fretta.
Fissai quel punto preciso fra il centro e il lato sinistro del petto: il cuore. Se lo avessi mancato di soli pochi centimetri, potevo ufficialmente dichiararmi morto. Ma non sarebbe accaduto.

Non lo avrei mancato per nessuna ragione al mondo.

Mi sistemai il paletto fra i palmi delle mani, in modo che tutta la forza delle mie due braccia potesse riversarsi sul Conte. Affondare un'arma appuntita contro qualcuno poteva sembrare semplice, invece non lo era per niente. Bisognava superare gli strati di abiti,la carne e soprattutto, la cosa più difficile era trapassare le costole per arrivare agli organi vitali. No, non era semplice colpire al cuore. Ma io ce l'avrei fatta. Alzai le braccia, presi la mira.
Affondai.

E non appena il paletto sfiorò la bella giacca di sartoria, il Conte svanì in una nuvola rossa.

Non ebbi neppure il tempo per impallidire. La nebbia mi si condensò davanti, tramutandosi in un secondo nel corpo affascinante del letale vampiro. La fiaccola ai miei piedi si spense e l'unica fonte di luce furono due occhi scarlatti e luccicanti. Due mani mi si piantarono sulle spalle.

Rise. Una risata che faceva accapponare la pelle.

«Almeno potevi aspettare a morire...» e continuò a ridere, come un folle, come se avesse preso fiato solo per fare quello. E io non potei fuggire perché in un istante, in un solo brevissimo istante, le sue mani furono sul mio collo. Ci fu un battito di ciglia, che separò un secondo da un altro, quello in cui respiravo e quello in cui sentivo la morsa ferrea delle dita avvilupparmi la gola. Il paletto mi scivolò dalle mani. E mentre io me ne restavo lì come una statua,lui ostruì lentamente ma inesorabilmente le mie vie respiratorie.

Finalmente il mio istinto di sopravvivenza si risvegliò. Smisi di registrare gli avvenimenti e cominciai a reagire. Iniziai a riempire di pugni il suo petto, le sue spalle, la sua schiena. Non servì a molto. Tentai di colpirgli il viso ma lui si scansò e io approfittai di quell'attimo senz'aria per boccheggiare e allungarmi a prendere il paletto, con scarsi risultati.

Strinse più forte. Spalancai la bocca, lottai per respirare. Sentii un peso sul petto, la forza del mio panico crescente. Sarei morto così? Nella mia testa rimbombavano un milione di No. Lotta,devi lottare.

Io, come uno sciocco, mi aspettavo più un combattimento frontale. Chinarmi, parare, sferrare cazzotti. E invece eccomi, solo, all'ABC dell'autodifesa,a cercare di pestare i piedi al mio aggressore, a cercare di riempirgli di pugni le braccia. Dovevo fare qualcosa. Ferirlo, neutralizzarlo. Qualsiasi cosa, perché mi lasciasse andare.

Gli occhi mi fissarono ancora, rossi come il sangue, il ghigno omicida stampato sul volto del Conte che si ampliava sempre di più, ad ogni mio tentativo di colpirlo. Le mani strinsero così tanto che il mio campo visivo si riempì di pallini. Mi scordai di scalciare, di combattere. Soccombei al panico e mi aggrappai senza costrutto alle dita che mi stringevano la gola, come se sarebbe servito a qualcosa.

Allora era questo che si provava quando si stava per morire. Era questo che si provava ad essere strangolati. Questo peso schiacciante contro il petto. Una voglia, un bisogno di respirare talmente primario, talmente innato da generare un dolore particolarissimo. Quasi sentissi le cellule del corpo morire una ad una, urlando i loro ultimi secondi disperati.

Un bel vestito rosa,una macchia rossa che si espandeva. Un cadavere sanguinante su un bel tappeto.

Lo so, lo so. Avrei dovuto farlo. Avrei dovuto vendicarti, mamma. Avrei dovuto.
Qualche lacrima mi rigò le guance. Mi stavano uccidendo e invece di reagire, mi facevo schiacciare dai rimpianti.

La madre che non avevo salvato. Il cadavere che non avevo vendicato.
L'assassino che non avevo ucciso.

Smisi di stringere la presa intorno alle mani del demone, smisi di reclamare aria. Mi abbandonai a tutto e chiusi gli occhi. Sentii il mio stesso cuore dare gli ultimi battiti nelle orecchie. Lasciai penzoloni le braccia lungo i fianchi.

La voce di mia madre mi riecheggiò nella testa. "Ripetilo con me: mi chiamo Helias Bloomwood e non ho paura." E poi la voce. "Devi vivere, perchè se tu muori, noi siamo persi."

Nei miei pensieri c'era una bella donna dai capelli biondi e setosi, dagli occhi viola e dolci. C'era un ragazzo dai capelli rosso sangue, dagli occhi blu notte e l'espressione sempre strafottente sul viso.

Le mie mani sfiorarono qualcosa che pendeva dalla tasca dei pantaloni, qualcosa pronto a cadere. E all'improvviso mi ricordai del primo giorno in Transilvania, del villaggetto sulla collina, degli abitanti che cercavano di fermarmi. Di una vecchia che mi aveva pregato di non andare nella dimora del diavolo, che controvoglia, mi aveva ficcato una collana con una croce nella tasca dei pantaloni.

Ed era ancora lì, in quei pantaloni. In quella tasca. Cosa mi aveva detto quella voce a proposito delle croci?

Mi afflosciai. In un ricordo vago di qualche mossa ripetuta tante volte in allenamento, smisi di reggermi sulle gambe, per trasformarmi in un peso morto. L'improvviso cedimento delle mie ginocchia sbilanciò il Conte. Per un solo attimo, un solo momento, ondeggiò in avanti, spostando il peso. Ma quel solo attimo mi bastò per sfilare dalla tasca il rosario, sollevarlo e ficcargli la croce in un occhio.

Le sue mani si staccarono dalla mia gola così velocemente che caddi a terra, stordito dal suo grido.

Aria.

Inalai a strappi disperati l'aria nei polmoni brucianti e, prontamente, cercai con foga il paletto che mi era caduto fra le tenebre. Le mie mani si avvolsero intorno al legno freddo. Invece, il vampiro, non senza un urlo di dolore, si strappò dalla faccia il rosario, gettandolo a terra con un verso furibondo. Riuscivo a vedere un solo occhio lampeggiare di rosso, l'altro emettere solo un flebile bagliore mentre si ricostruiva sotto ai miei occhi. Mi afferrò per il bavero dalla camicia con tutta l'intenzione di uccidermi senza più indugiare. Ma io mi gettai di peso contro di lui, l'adrenalina che mi scorreva nelle vene con una furia selvaggia.

Le sue mani tornarono a stringermi la gola,ma poi si staccò. Strabuzzò gli occhi e quando il suo sguardo incredulo scivolò verso il suo petto, ci trovò un paletto di legno. Ficcato dritto nel cuore.

Sollevò lo sguardo verso di me, che lo fissavo buttando dentro e fuori l'aria dai polmoni, con ampi respiri e le mani tremanti. Ghignò. «Il Re senza saperlo si è fatto un nemico imbattibile.» ebbe il tempo di dire. E si tramutò in cenere.

Cadde a terra, in un mucchietto di polvere che si fuse con le pozzanghere umide. Poi, sfinito, sfiancato, a corto d'aria e sangue, caddi a terra anch'io.


***


Il vento mi sferzò i capelli, mentre incitavo Driahzel ad andare più veloce. Non so con quale forza, ma ero sopravvissuto. Non so come, ma ero vivo. Perfino gli abitanti della Transilvania non ci potevano credere, quando debole ma a testa alta ero emerso vittorioso dal castello del demonio. Ero diventato invece che il temibile assassino, l'intrepido eroe.


E adesso cavalcavo l'Ha come se avessi avuto il diavolo alle calcagna, sempre con più velocità, mentre mi avvicinavo a Skys Hollow. Non mi interessava se la stanchezza mi faceva chiudere gli occhi, se la spossatezza mi faceva perdere la presa sulle briglie e la debolezza mi faceva girare la testa ad ogni curva. Dovevo arrivare subito a Skys Hollow.

Il fatto di star per morire,mi aveva fatto capire che non dovevo sprecare il mio tempo. Ecco perchè adesso continuavo a cavalcare non verso la Fortezza dell'Assassino, ma verso una meta ben precisa, verso un indirizzo che non conoscevo.

"Via Blue Rose 78"

Arrivai nella mia città, la capitale, con ben tre giorni d'anticipo. L'insegna di pietra ostentava con grossi e arzigogolati caratteri: "Benvenuti a Skys Hollow"

E come se non fosse stato già abbastanza evidente, abbastanza plateale che quella era la capitale, la sede centrale di tutto il Regno di Darlan, il castello di cristallo del Re si ergeva come un avvoltoio sulla città, urlando a tutti "Io posso vedervi".

Pensando al Re, quasi mi ricordai delle ultime parole del vampiro e mi chiesi, non senza una nota di preoccupazione e ansia, cosa potessero significare. Forse era solo il delirio di un demonio morente. Forse.

Procedetti per la città, inoltrandomi nella grandi piazze di pietra bianca, incrociando carrozze di nobili, uomini a passeggio che guardavano con occhio invidioso il mio bellissimo cavallo, donne che si sventolavano con il ventaglio per scacciare le prime note del caldo di inizio estate. E quando entrai nella lussuosa e familiare Via Blue Rose, capii.

Come avevo fatto a non pensarci? Come poteva non essermi venuto in mente prima? Come potevo non essermi ricordato del posto in cui io ero nato e in cui mia madre era morta?
Riconobbi all'istante il negozio di scarpe infondo alla strada, la gioielleria davanti a cui mia madre restava a sognare per poi scuotere la testa. E riconobbi anche il grande palazzo color panna, con il portone rosso fuoco e accanto il numero 78 di un lucido dorato.

Come avevo potuto dimenticare?

Aprii la porta lucida e subito l'odore intenso di fiori di gelsomino mi accolse, riempiendomi le narici e portandomi a vecchi ricordi. Mi si strinse il cuore. Quest'odore di gelsomino... l'odore che portava sempre addosso mia madre. Analizzai bene il posto, notando che era proprio come me lo ricordavo, non era cambiato nulla dall'ultima volta.

Un grosso lampadario dorato scendeva dal soffitto a volta,le pareti erano di un bel color panna con quadri dalle cornici lucide e dorate, i pavimenti erano di parquet chiaro pieno di tappeti persiani. Al centro della stanza c'era un'enorme scalinata di marmo che portava al piano di sopra, dove erano poste le stanze da letto. Ai lati invece, si ergevano colonnati e fra ognuna di esse era posto una dormeuse di velluto rosso, su cui si erano adagiate diverse cortigiane.

Sì, quello era un bordello.

Uno dei più raffinati, il bordello in cui vivevo con mia madre. Un gruppetto di cortigiane mi si strinse intorno, con fare provocante.
« Ciao bel ragazzino.» mi sussurrò una «Questo non è il posto adatto ai bambini...» bisbigliò un'altra pizzicandomi il naso con fare provocante «cerchi intrattenimento da qualcuno in particolare?» mi chiese l'altra ancora. Le ignorai in modo piuttosto freddo.

«Vorrei parlare con Lady Shepard.» sentenziai, senza degnarle di uno sguardo. Francamente,le donne non mi interessavano più di tanto e le poche che conoscevo, prendi l'oca bionda che scodinzolava sempre intorno a Yul oppure Sophia, la Madre del bordello di Lysandro, mi stavano davvero sulle scatole. Le cortigiane fecero un passo indietro.

«Cosa vuoi da lei?» mi chiese la più spigliata delle tre. Alzai le spalle.

«Devo parlarle.» le donne si scambiarono occhiate perplesse e un pelo preoccupate. Ma dopo qualche secondo una si strinse nelle spalle e andò a chiamarla. Lady Shepard era la più anziana del bordello e deteneva tutti gli affari importanti, riferendoli poi al magnaccia, che era sempre stato un gran bastardo. Lei era una donna bassa e grassottella, aveva uno spiccato senso della moda e della raffinatezza e soprattutto era molto buona. Mia madre le doveva tanto e forse anche io, dato che mi aveva salvato dall'aborto forzato al quale l'uomo che gestiva la baracca voleva sottoporre mia madre.

La donna uscì da una stanza divisa da una tenda di velluto rosso e urlò a gran voce prima di potermi anche solo vedere: «Se è per soldi, vi consiglio di andarvene!» dopo guardò il mio viso e aggrottò le sopracciglia, incrociando le braccia per poi squadrarmi dalla testa ai piedi. «Giovanotto, non sarai un po' troppo giovane per riscuotere?» mi disse, nel migliore dei suoi toni diffidenti. Sorrisi, trascinato dalla sensazione nostalgica dei suoi rimproveri quando dormivo troppo e intralciavo il lavoro di mia madre o quando con una smorfia allegra mi dava tutti i dolci che era riuscita a comprare per sé.

«Ciao Amalia.»la salutai, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Lei aggrottò ancora di più le sopracciglia, nel sentirsi chiamare per nome. «Non ti ricordi di me? Sono Helias.» La sua espressione iniziò a mutare. «Helias Bloomwood.»scoccai quel nome come una freccia che colpì precisamente il bersaglio. Si mise le mani sulla bocca mentre gli occhi le divenivano lucidi. Corse ad abbracciarmi.

«Helias!» quasi urlò. «Il piccolo Helias!»si aggrappò alle mie braccia, affondando il viso cicciottello sulle mie spalle. «Pensavo fossi stato ucciso anche tu.. O rapito! Ho immaginato le cose peggiori!»mi accarezzò il viso, con gli occhi pieni di lacrime. Ricambiai anche io l'abbraccio, cercando di resistere all'impulso di piangere. C'erano troppi ricordi in queste mura. Troppe cose che avevo perso e non sarebbero tornate.

«Sono vivo Amalia, sono vivo.»la rassicurai,sorridendo e dandole qualche pacca sulla spalla. Ormai tutte le cortigiane ci guardavano con grande interesse, che tutti e due ignorammo, troppo presi dalla situazione, troppo trascinati dalle memorie che condividevamo. La donna mi guardò con preoccupazione.

«Stai bene?» mi chiese. «Sei bianco come un cadavere...» annuii.

«Sto bene» mentii. «ma ho bisogno di un favore.» le dissi e allora lei si tirò in su, guardandomi dall'alto dei vari strati di trucco. «Devo vedere la nostra stanza.» mi rivolse una smorfia che non riuscii ad interpretare e corse a prendere da dietro ad un bancone la chiave che pendeva sotto il cartellino 203. Poi ritornò da me e storse la bocca,scuotendo la testa.

«Allora dovrò darti una brutta notizia...»mi sussurrò e prima che potessi anche solo chiederle a cosa si riferisse, mi fece strada, salendo silenziosamente le scale. Ricordavo ogni centimetro del bordello, ogni quadro, ogni muro. E quando mi ritrovai davanti alla porticina rossa con il numero 203 in rilievo, mi salirono sentimenti tumultuosi nel petto.

La gioia di passare le giornate con mia madre, il terrore del giorno in cui fu assassinata. Quella era la nostra stanza.

Mi rigirai fra le mani la chiave che portavo al collo.Era di ferro battuto verde, la parte alta era tutta decorata da ghirigori e qua e là da piccoli smeraldi. Inoltre, lungo la parte sottile della chiave, quella che veniva infilata nella toppa, c'era una piccolissima incisione che non avevo ancora notato: E.G. La E. doveva stare sicuramente per Edna. Ma la G.?

Amalia Shepard fece scorrere la piccola chiave dorata nella toppa della porta. Trattenni il respiro. Aprì. E quello che vidi mi lasciò senza fiato.

«Hanno portato via tutto.»sussurrò con un tono di voce intristito, strozzato, come se non riuscisse a sopportare la mia delusione. Non c'era più nulla, perfino il letto a baldacchino era sparito. Entrai nella stanza e iniziai ad aprire ogni cassetto, a scostare le ante degli armadi e armadietti, a saltare su ogni tegola pur di cercare qualcosa di nascosto.
Ma non c'era nulla. Era una stanza vuota.

Sferrai un calcio contro la porta, cosa che fece sussultare la donna e girare la testa talmente forte da farmi accasciare contro il muro. «Helias! Sicuro di stare bene?» domandò, mettendomi una mano sul braccio, con apprensione. Ignorai la domanda, mentre la delusione veniva sostituita da un altro sentimento più forte: la rabbia.

«Chi?!» iniziai, mentre la mia voce cominciava ad alzarsi e i miei nervi a contrarsi «chi è stato?!» sibilai, furioso, indicando il desolato nulla fra pavimento e pareti. La sua espressione si fece grave.

«Ti consiglio di non indagare.»iniziò a scuotere la testa, con occhi bassi « Erano guardie reali.»
E allora mi chiesi: perché le guardie reali avevano fatto sparire ogni cosa su mia madre?
Ma soprattutto, cosa diavolo apriva la chiave?


***



Smontai da Driahzel e giunsi a grandi falcate davanti all'ingresso della Fortezza dell'Assassino, più furioso che mai. Ignorai la sensazione di avere le gambe mollicce, ignorai il sorrisetto lascivo di Trill/Phil, la guardia appostata davanti all'ingresso che era stracotta di me. Non solo avevo avuto una missione al limite della comprensione umana,non solo avevo incontrato un vampiro psicopatico, non solo avevo rischiato la morte, ma tutte le cose di mia madre erano anche sparite. Era troppo.

Aprii con rabbia il portone di mogano della Fortezza, preparandomi al discorso epico che avrei rivolto al Re degli Assassini, accennando ai miei diritti di assassino, ai limiti che poteva avere una missione e al fatto che volevo più rispetto. E più soldi, ovvio.

Era tutto scritto nella mente.

Ma non appena scorsi nell'atrio una testa rossa e un paio di occhi blu, in qualche modo la rabbia scemò. E forse fu la velocità con cui richiusi la porta, o forse il sollievo di essere tornato vivo alla Fortezza o ancora di più il fatto di vederlo sano e salvo, che mi fecero barcollare.

Appoggiai le spalle al muro, sentendo in un istante la stanchezza del viaggio, della scampata morte, di tutte le brutte scoperte che avevo fatto. Il mondo iniziò a girare. E allora l'assassino corse da me, ma il suo viso era già sfocato, era già diventato una macchia bianca ed indistinta.
Subito mi sentii più tranquillo, perché quando persi conoscenza ero fra le sue braccia.

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