12. L'Assassino e il vampiro


Sentii l'aria nei capelli, la corsa, il tintinnio e il peso delle catene che mi faceva incespicare ad ogni passo. Nonostante questo, non mi fermavo. L'aria sembrava non voler più entrare nei polmoni e continuavo ad ansimare, a sudare, a ripiegarmi sulle mie fragili ginocchia, ma senza smettere di correre. Non volevo smettere di farlo.

Non volevo smettere di combattere.

Ma il piccone pesava sicuramente più di me. Me lo trascinavo dietro come un macigno e quello scavava nella terra, sporco di sangue e fuliggine. Era stato il mio strumento da lavoro e soprattutto la mia unica arma. E io non ci avevo pensato un momento. L'avevo alzato e avevo spappolato. E avevo goduto nel sentire la consistenza degli intestini dei miei aguzzini e le loro urla. Avevo provato piacere nel vederli morire.

Come mi ero lentamente trasformato in un mostro? Non lo sapevo, ma Treblin mi aveva cambiato.

Treblin.

Avevo incominciato a pensare che quando l'Inferno mi avrebbe accolto fra le sue braccia, sarebbe stato come andare in Paradiso, piuttosto che rimanere vivo in un posto del genere. Cinque mesi erano tanti. Molto più di quanto la maggior parte dei prigionieri era in grado di sopportare. Resistito per cinque mesi. Rimasto vivo per cinque interi mesi, no, rimasto
morto per cinque interi mesi.

Perché quel posto era come la morte. No, infinitamente peggiore: almeno con la morte finiva tutto.

Invece qui ero durato. Ero riuscito a sopravvivere per così tanto solo grazie alle mie abilità di guarigione, che erano la mia salvezza, o forse, semplicemente la mia condanna. All'inizio erano passate inosservate, perché non le conoscevo neppure io, ma dopo, dopo no. Cercai di trattenere un conato di vomito al ricordo di ciò che mi avevano fatto. Del dolore. Le ferite guarivano, ma il dolore, quello non spariva.

«Fermatelo!» urlò una guardia, mentre io nella testa contavo.

Ancora settanta metri.

Corsi, concentrandomi sull'immagine delle mura, in fondo. Mancava poco. La sensazione era incredibile da descrivere. Bastavano ancora un po' di passi e le torture sarebbero finite. Una freccia sibilò accanto a me e si conficcò nella terra, alla mia destra. Completamente fuori mira. 

Ma almeno addestravano gli inutili soldatini prima di assumerli o li sceglievano semplicemente cercando di capire chi potesse essere il più violento? Certo, io ero veloce, bisognava ammetterlo. Ero rapido anche in catene, anche con un piccone grande tanto quanto me, anche se le pietre nel terreno mi scorticavano i piedi scalzi. Ma quelli erano i piccoli dolori da niente. Sarebbe stato tutto ripagato, una volta scavalcato il muro.

Ancora quarantacinque metri. Forza.

Un soldato mi fu addosso. Era grosso il triplo di me e non esageravo. Ma era anche lento e non mi fu difficile schivare la sua spada: dopo, fu un piacere conficcargli il piccone nel collo. Altri mi stavano per raggiungere. Non ebbi il tempo di sfilarla che decisi di abbandonare quell'arma. Era giunto il momento di correre, correre e basta. Correre fino allo stremo delle forze, correre per la salvezza.

Ancora trenta metri.

Una freccia sibilò proprio a qualche centimetro dal mio volto e sentii un rivolo caldo scendermi dall'orecchio. Numerosi gruppi di soldati mi inseguivano da tutte le parti e da tante altre volavano frecce, persino pietre. Il taglio all'orecchio dopo una leggera sensazione di calore, si richiuse. Però non riuscirono a raggiungermi.

Alcuni prigionieri erano rimasti lontano e adesso guardavano la mia fuga quasi come avrebbero guardato un miraggio: il ragazzino sopravvissuto per oltre cinque mesi, stava fuggendo. E la cosa più scioccante, più incredibile, era che ce la stava facendo. Mi avevano sottovalutato. Tutti lo avevano fatto ed era stata questa la mia forza.

Dieci metri. Coraggio.

Ormai il muro di pietra era davanti a me, pochi passi, pochissimi passi. Nello stomaco incominciava a salirmi una fretta ancora più grande, l'imminenza di sentire il vento fresco fuori da Treblin. Fuori dalle mura. Fuori dalla gabbia.

Cinque metri. Tre. Due.

Uno.

Due mani grandi mi afferrarono, ma io rifilai al soldato una gomitata sul naso con tutta la forza di cui ero capace, con tutta l'energia che mi rimaneva nel corpo e con quell'adrenalina che mi stava facendo commettere follie. Sentii un crack e le mani mi lasciarono. Piantai le dita fra i mattoni di pietra grigia costellati di muschio e non mi curai di dove mettessi i piedi, di quali appigli fossero stabili o giusti. 

Semplicemente salii con furia, con una velocità che non credevo potesse durare tanto a lungo. Udii le unghie spezzarsi e sanguinare, i piedi graffiarsi più di quanto già non fossero, sotto i massi ruvidi e appuntiti. Ma andavo avanti. Le mani sanguinavano e io andavo avanti. Una freccia mi roteò pericolosamente vicino, ma mi mancò.

«Qualcuno lo fermi!» urlò qualche altro soldato e in molti iniziarono la scalata. Ma per quanto potessero impegnarsi, i loro stivali e i loro guanti metallici non permettevano alcuna libertà di movimento e diventava troppo difficile trovare appigli. Per di più erano anche pesanti, molto più di me - un tredicenne così magro da sembrare uno spaventapasseri. Equilibrarsi era una vera impresa, per loro. Allora iniziarono a sparare mucchi e mucchi di frecce, l'unica cosa che potessero fare. Non tutte sbagliarono mira, molte ci erano andate davvero vicine, tranne una, precisa ed infallibile, che mi colpì dritta alla spalla destra. Urlai.

Ma non mi fermai.

Anche se muovere il braccio destro faceva male, non mi fermai. Anche se la spalla mandava lampi di dolore, non mi fermai. Continuai ad arrampicarmi, a scalare, ad insinuare le dita negli spazi fra i mattoni. Poi, quando mi ritrovai in cima, vidi il panorama: le montagne, le foreste, i fiumi. 

Volevo urlare di gioia, ma non ne ebbi il tempo sufficiente: subito iniziai la discesa, fino a metà muro. E spiccai un balzo, atterrando sulle gambe con un suono quasi impercettibile. Mi tirai con un gesto implacabile e fulmineo la freccia dalla spalla e, gridando di dolore, la scaraventai a terra. Poi alzai lo sguardo verso l'orizzonte, verso quella strana assenza di muri e sbarre. E me ne resi conto.

Ero ufficialmente sfuggito da Treblin.


Spalancai gli occhi. Un altro sgradevole incubo. Un ricordo. Mi misi una mano sul cuore, cercando di calmare i battiti mentre mi asciugavo la fronte imperlata di sudore. Mi alzai dal letto, facendo avanti ed indietro, un gesto finalizzato a tranquillizzarmi. Iniziai a contare i miei passi: uno. Due. Tre. Quattro.

Giunsi alla finestra, appoggiai la fronte sul vetro freddo e mi strinsi la chiave che avevo appeso intorno al collo con un laccetto. Per quanto cercassi di calmare il battito, le immagini venivano lo stesso. Chiusi gli occhi, come se sentissi la pelle della schiena ancora bruciare per le frustate, senza riuscire a levarmi dalla testa quella gara a chi faceva durare di più le mie ferite, a chi mi facesse più male. Strinsi la chiave più forte, quel pallido ricordo di mia madre.

Non ricordare. Non farlo.

Iniziai a respirare più lentamente, tentando di chiudere quel cassetto della memoria per sempre. E fu allora che qualcuno bussò. Sapevo che non poteva proprio essere Yul. Quel ragazzo avrebbe semplicemente scassinato la porta, proprio come le altre volte. Era strano, erano passati due giorni, ma non si era fatto minimamente vedere. In fondo, non era proprio quello che volevo?

Eppure, non sapevo se sentirmi più irritato o deluso. Mi riassettai alla bell'e meglio, chiudendo la mia vestaglia di seta blu mentre aprivo la porta. Uno dei servitori personali del Re degli Assassini mi squadrava con indifferenza dall'alto dei suoi capelli brizzolati.

«Lord Valentine, il Signore chiede di voi.» 

Ovviamente il Signore era Alaister Noir. Strano: di solito ero sempre io a fare rapporto, lui non mi chiamava mai. Perfino l'ultima missione alla Baia del Teschio era stata singolare: il Re dei Pirati non aveva alcun contatto con la tratta degli schiavi, era solo un sadico e seducente opportunista. Quando mi ero appropriato della nave, avevo cercato dappertutto, dappertutto, tracce di documenti loschi che provassero i collegamenti del Capitano Uruj con il mercato degli schiavi.

Ma nulla. Non avevo trovato proprio niente. Ecco perché avevo aspettato due giorni e non ero ancora andato a fare rapporto. Alla fine, avevo comunque distrutto la nave nel gorgo di Cariddi, e sapevo di poter mentire. Ma la faccenda era comunque bizzarra di per sé. 

Che le informazioni del Re degli Assassini fossero sbagliate? Impossibile. Ci doveva essere una spiegazione.

Annuii e riferii al suo portavoce che avrei incontrato il mio capo subito dopo essermi sistemato a dovere. Non mi diedi molto da fare con i vestiti: camicia di seta panna, lasciata morbida all'interno dei pantaloni neri e stivali laccati dello stesso colore al ginocchio. Abbigliamento standard per una giornata standard. Questo, era quello che pensavo.

Mezz'ora dopo, entrai nell'ufficio di Alaister, senza saper bene cosa dire. Lui non stava trafficando con nessun tipo di documento, non parlava con altre persone e non leggeva nessun libro. Stava semplicemente con la testa rivolta verso la porta, in attesa, verso di me. Davvero strano.

Mi accomodai sulla poltroncina di velluto rosso e come tante altre volte attesi, tacendo, così teso che l'apprensione mi annodava lo stomaco. Non riuscivo ad ignorare quei dettagli insoliti, su cui riflettevo mentre i minuti passavano. Dopo aver aspettato e non aver sentito altro se non il silenzio, decisi di rompere il ghiaccio.

«Mi hai convocato qui. E' insolito da parte tua.» constatai.

«Cosa aspettavi per fare rapporto?» mi rimbeccò lui, scrutandomi con i suoi occhi gialli e luminescenti. Aveva ragione, come sempre. La situazione restava comunque stramba. Perfino quando avevo combinato quel casino al ballo dell'Orchidea mi ero preso il mio tempo e lui aveva atteso.

«Ero solo stanco, ma sarei venuto al più presto.» mi affrettai a rispondere. Si portò una ciocca di capelli neri e ondulati dietro l'orecchio, cercando di intrappolarla nel piccolo codino sulla nuca. Fu bizzarro notare quanto in quel momento gli occhi del Re degli Assassini sembrassero come quelli di una belva: la pupilla era stretta e appuntita, proprio come quella di un coccodrillo. La cosa mi fece rabbrividire. Inclinò la testa.

«Eri in compagnia?» chiese, la voce fredda come ghiaccio secco, che ti brucia le mani. Non riuscii a cogliere il senso della domanda. La voce di Alaister fu imperscrutabile. Aggrottai le sopracciglia.

«No, non lo ero.» risposi, confuso e titubante.

Allora sulle sue belle labbra si dipinse un ghigno appena accennato, che mi fece rizzare i capelli sulla nuca. «E Yul come sta?» continuò, con un tono di voce gelido. Alzai le sopracciglia. Non voleva chiedermi della missione? Perché chiedeva di Yul a me?

«E questo che c'entra?» ribattei, senza sforzarmi di nascondere l'irritazione ma ricordandomi giusto qualche secondo dopo che stavo parlando col Re degli Assassini in persona e io gli stavo terribilmente mancando di rispetto. Mi schiarii la voce e ripetei con voce impostata: «Non lo so.» 

Lui ghignò, quasi con risentimento. «Strano, eppure i miei informatori dicevano che ultimamente siete diventati molto intimi.» Il suo tono glaciale ormai era diventato simile ad un coltello affilato, che mi stava lentamente puntando contro, sperando che io mi adagiassi sulla lama. Mi trattenni a stento dal balzare dalla sedia. Chi aveva detto una cosa del genere? Come lo sapevano? Mi ritrovai involontariamente ad arrossire.

«N-non è vero.» biascicai a bassa voce, evidentemente paonazzo. Questo non fece che peggiorare le cose, perché il Re degli Assassini si alzò lentamente dalla sua scrivania e ci girò intorno, piazzandosi davanti alla poltrona su cui ero seduto. Mi ritrovai istintivamente in piedi, cercando di arretrare, ma la poltrona dietro di me lo impediva. Lui si avvicinò finché non mi trovai incollato a lui, petto contro petto, anche se ovviamente era molto più alto di me. Mi afferrò il mento con le dita lunghe e affusolate, costringendomi a guardare nei suoi occhi color topazio.

«Ricordati a chi appartieni.» sibilò, ad un soffio dalle mie labbra, così vicino che potevo sentire il suo respiro mescolarsi al mio, così vicino che i nostri nasi si sfioravano, tanto quanto le nostre ciglia.

«Certamente.» bisbigliai e compresi il messaggio. Il Re degli Assassini sapeva che il Capitano Ren Uruj non aveva contatti con gli schiavi, così come sapeva benissimo che era un osso duro. E intuii che doveva sapere di me e Yul da prima di mandarmi in missione verso la Baia del Teschio. No, non c'era stata nessuna missione. Era stata una punizione.

Perché io ero suo.

Da quando mi aveva trovato morente fuori da Treblin e mi aveva accolto nella Gilda degli Assassini. Da quando mi aveva dato una casa, del cibo, un obiettivo da seguire. Da quando mi aveva addestrato come non aveva mai fatto con nessun altro. Io, il piccolo ribelle che era riuscito perfino a scappare dalla ragnatela del Re di Darlan, ero la sua creatura perfetta.

Non c'era mai stato un problema simile prima, perché io non mi ero mai avvicinato a nessuno e nessuno si era mai avvicinato a me. Chi poteva averne il coraggio? Ma Yul aveva aperto una breccia. Aveva osato avvicinarsi al protetto del Re degli Assassini. E io lo avevo assecondato.

Ed era stato un passo falso: non potevo ribellarmi ad Alaister. Il mio debito con lui era troppo grande. La verità, era che non potevo fare nulla che io volessi davvero, non ero mai stato libero, neanche alla Fortezza. 

Alaister fece scorrere un rapido sguardo sulle mie labbra, poi sui miei occhi e poi di nuovo sulle mie labbra.Ci furono lunghi attimi di silenzio che parvero durare anni, in cui i nostri respiri non facevano altro che solleticare le rispettive bocche. 

Ma poi si scostò e ritornò sulla sua poltrona, dietro alla scrivania. Col respiro accelerato dalla paura e anche dall'emozione, tornai a sedermi, cercando di rilassare i muscoli tesi come una corda di violino fino a qualche secondo prima. «Sono felice che tu l'abbia capito.» Riprese il suo solito tono freddo e composto. «Ho un'altra missione da affidarti.» Lo sapevo.

Ero certo che mi oberasse di lavoro giusto per tenermi lontano da Yul, ormai era chiaro.
Annuii e attesi altre informazioni, incapace di potermi opporre. Forse era meglio così. Forse era meglio stare lontano da quel sicario dai capelli rossi. «Il sindaco della Transilvania ti ha ingaggiato per uccidere il nobile della città, il Conte Alucard Vlad III.» mi passò un foglio che conteneva informazioni sul sindaco e su come arrivare in Transilvania. Su quel conte invece, poco o niente. «Si parla di lui come di un assassino. Gli abitanti dicono che chiunque entri nel suo castello, non ne faccia più ritorno.» spiegò, con uno sguardo eloquente, come a dire: guai se non ritorni.

Uccidere un assassino? La missione si dimostrava più interessante del previsto.



***


Quando fui pronto per partire, qualche ora dopo, mi stupii ancora di non aver incontrato Yul. Questa volta il Re degli Assassini non mi aveva dato alcuna fretta, anzi, ero stato io a decidere di partire immediatamente. Non avevo alcuna intenzione di rimanere un minuto di più nella Fortezza, non quando Alaister era in quello stato d'animo, non quando gli incubi non smettevano di scuotere il mio sonno. Avevo bisogno di distrarmi, di vedere un po' di sangue scorrere.

Tuttavia, l'assenza di Yul - che non vedevo da forse più di una quindicina di giorni - mi faceva venir voglia di incontrarlo ancora di più. No, no e no!

Scossi la testa e non feci caso a dove mettevo i piedi, nel bel mezzo del corridoio. Sbattei contro un assassino e caddi a terra insieme a lui. Pile su pile di blocchi da disegno, mazzi di matite colorate e pennelli si riversarono a terra e subito capii di essermi imbattuto in uno dei pochi della Gilda che mi erano amici.

«Tracy!» lo salutai, ricordandomi che avevo preso in prestito tutti i suoi attrezzi da disegno per fingermi un architetto durante la mia missione a Costantinopoli. Peccato non averglieli potuti restituire.

«Ciao Valentine.» mi rispose lui, iniziando a riassettare le sue cose. Doveva avere una trentina d'anni o giù di lì, l'aspetto non era nulla di memorabile, ma era solare e affabile, anche se un po' troppo goffo per fare l'assassino, un po' troppo dolce. «Guarda che sono ancora arrabbiato con te per esserti preso i miei attrezzi senza permesso e averli pure persi nel bel mezzo del deserto!» mi sgridò, ma senza cattiveria, ridacchiando. Risi anch'io, aiutandolo nell'impresa di raccogliere tutti quei blocchi da disegno. Se fosse accaduto con qualche altro assassino, probabilmente avrebbe provato ad ammazzarmi per vendetta. Se per il furto o per lo smarrimento della refurtiva, difficile da dirsi.

«Dai, mi sono scusato già abbastanza, no?» ridacchiai, per nulla certo di averlo fatto, ma poi tornai con la mente all'unica cosa che mi interessava davvero. «Oh, per caso...» mi bloccai, incerto se dover continuare. «... Hai visto Yul in giro?» conclusi, incapace di fermarmi. All'inizio alzò le sopracciglia, sorpreso.

«Tu che chiedi di Lui?!» sghignazzò. «Gli asini inizieranno a volare!» scherzò, ma non continuò quando probabilmente io arrossii dalla testa ai piedi, dardeggiandogli contro un'occhiataccia. «Effettivamente, è un po' che non lo vedo, è strano.»

«In che senso?» domandai all'istante. Mi venne un brutto presentimento, che scacciai con rapidità.

«Alaister Noir non dovrebbe avergli affidato nessuna missione dopo quella punizione...» si riferì allo scortare Lysandro e i cortigiani e mi stupii dell'intensità della rabbia che provai. «Ma non è agli allenamenti, non è con i cortigiani e non l'ho visto neppure in giro per la Fortezza.» rifletté, con un dito sul mento. «Mi chiedo dove sia finito.» continuò lui, esprimendo ciò che pensavo.

Per un attimo la preoccupazione mi scosse tanto da farmi barcollare, ma poi mi ripresi. Non era un bambino, era un assassino. E in ogni caso perché dovevo essere preoccupato per lui?
Salutai Tracy e mi diressi verso le stalle, pronto a partire con la mia bella giumenta Harpax. Quando la mia missione sarebbe stata conclusa, avrei indagato. L'avrei fatto eccome.


***


Smontai dalla groppa di Driahzel con una smorfia sulle labbra. Sembrava che il tempo si fosse riavvolto all'indietro: ero capitato in uno di quei retrogradi villaggi rurali in cui le uniche forme di vita erano le capre. Per essere inizio estate, faceva quasi freddo e gli alberi se ne stavano mezzi spogli, tristemente ricurvi su se stessi, mentre le foglie color borgogna cercavano in tutti i modi di reggersi ai rami. Una grossa insegna di ferro battuto diceva:

"Benvenuti in Transilvania"

Proseguii a piedi, stringendo le briglie della Harpax con un groppo alla gola. Era un villaggio sicuramente piccolo, con le casette di pietra grigia al limitare della strada, l'erbetta incolta  in diversi punti diventata paglia, gli alberi con le foglie rosse come il sangue e il vento freddo. E poi, ad ergersi su tutto, a distanza dalle case - quasi queste volessero allontanarsi - ritirato su un colle alto, c'era il castello nero del Conte.

Gli abitanti mi fissavano senza dire una parola, guardandomi come si guarda un intruso, un animale raro. Io intanto continuavo a camminare in silenzio sulla strada lastricata con pietre sconnesse, da cui ne uscivano brutte erbe spontanee. Le donne tenevano i bambini stretti per mano, portando scialli di lana e i capelli solitamente scuri, stretti in crocchie spesso coperte da fazzoletti. Sembravano tutti per lo più contadini e pastori. Gli uomini vestivano in modo molto umile, portando bastoni e zappe nelle mani. 

All'improvviso, qualcuno mi chiamò. «Hey tu! Ragazzo!» sibilò una donna, in un urlo contenuto, come se lì il silenzio fosse una priorità per tutti. Fissai la signorotta seduta su un tappeto lercio, un tempo viola, posto sul prato. Portava i capelli scuri e mossi legati in una bandana e come tutte le altre donne aveva un'ampia gonna e uno scialle caldo sulle spalle. Davanti a sé, su un cuscino, giaceva una grossa sfera di cristallo, che mi chiesi a cosa mai potesse servirle. Mi indicai con un dito, come a voler dire: stai chiamando me? E la donna annuì con decisione. Mi avvicinai, titubante. «Cosa sei ragazzo?» mi chiese, ed io aggrottai la fronte.

«Che intendete dire?» 

«Tu non sei umano! Quindi, cosa sei?» domandò, ancora. Feci un passo indietro. Poteva essere che quella donna fosse completamente matta? Esibì un'espressione scioccata, mettendosi una mano sulla bocca.

«Non lo sai!» mi afferrò per uno stivale, guardandomi con occhi vacui. «Tu sarai il salvatore di tutto il regno!» sussurrò. «Patirai il più grande dei dolori e affronterai il più grande dei mali!» presagì. «Sei destinato a cose grandi!» aveva assunto un tono da vera fanatica. Arretrai, cercando di sfilarmi di dosso le mani della donna.

Erano le stesse parole del Signore della Giungla. Rabbrividii e mi allontanai dalla donna, scosso. Ma cosa volevano da me? Cosa significava "cose grandi"?

Ritornai sulla strada, convinto di volermela lasciare alle spalle. «Aspetta ragazzo!» urlò la donna allora, questa volta a gran voce. «Nascondi gli occhi o Lui capirà chi sei!» Diedi una rapida e ultima occhiata alla donna. Che diavolo significavano le ultime parole? Erano ancora più strane di tutto il resto, il chiaro delirio di una pazza.

 E poi, Lui chi? Parlava del Conte?

Continuai la mia traversata verso il colle, verso il castello. Il gruppo di case si concluse e il paesaggio iniziò a mutare in abeti e alberi dalle foglie borgogna. Non appena gli abitanti capirono dove stavo andando, corsero verso di me, allarmati. Una vecchia mi mise un crocifisso in mano, ficcandomene un altro nella tasca dei pantaloni.

«Non andare nella dimora del demonio!» urlò una. «Paletti! Prendi i paletti! Ne avrai bisogno!» disse un'altra. «Non andare ragazzo!» urlò un altro. E la folla continuò così, accerchiandomi pur di non farmi procedere. Erano tutti fuori di testa in quel villaggio!

«Sto a posto così!» urlai, prima di salire in groppa a Driahzel e lasciarmeli alle spalle per partire al galoppo.


***


Quando raggiunsi i piedi dell'imponente castello, mi si gelò il sangue nelle vene. La nebbia era così fitta che non ne si vedeva la cima. La pietra era talmente scura da sembrare carbone e le finestre istoriate possedevano l'intenso colore del sangue; dietro di esse non c'era un filo di luce, tanto che mi fece pensare che quel palazzo fosse buio e disabitato. Sulle guglie vertiginose erano acquattati gargoyle di pietra con espressioni spaventose e smorfie grottesche. Inoltre, il castello era circondato da un profondo fossato pieno d'acqua paludosa, ma per fortuna il ponte levatoio di legno era abbassato. In attesa dell'arrivo di qualcuno. Legai le briglie della cavalla ad un ramo e attraversai il ponte, con la testa rivolta verso l'alto, notando gli avvoltoi nerastri che volavano a gruppo intorno ai tetti spioventi del castello.

Sul portone di legno nero c'era un grosso batacchio con la faccia di un demone adornato di corna appuntite e una bocca piena di zanne. Storsi le labbra in una smorfia e sbattei tre volte. Come poteva un castello essere tanto lugubre? Mi sembrò che a quei tre rintocchi tutto il castello vibrasse. La porta si aprì da sola con un cigolio, perciò non mi rimase che entrare, mentre deglutivo, piano.

L'androne era enorme. I pavimenti di semplice e polveroso parquet nero facevano da lugubre contorno alle pareti coperte da pannelli di legno scuro e stoffa di broccato bordeaux. Dai soffitti a volta, in pietra, si calavano dei lampadari di ferro battuto nero e solo poche candele su di esso erano accese, dando un'atmosfera ancora più cupa e scura alla dimora. C'erano tappeti neri e rossi, statue di donne e angeli, ma nessun quadro e soprattutto, nessuna finestra. Sicuramente quelle che si trovavano fuori erano state murate all'interno e il tutto era ben nascosto dai pannelli di legno e dalla carta da parati rivestita di stoffa.

All'interno, il silenzio era implacabile e l'unica cosa che si udiva era il rintocco frequente di un orologio a pendolo, che non faceva che rendere tutto più inquietante. Tenni stretta in una mano la piccola valigia che mi ero portato dietro. Era il costume perfetto: un avvocato che proponeva al nobile di trasferirsi in una nuova casa di lusso nella capitale, Skys Hollow. Il mio serioso travestimento era munito di panciotto nero, camicia bianca e orologio da taschino. In realtà quella valigetta celava tutto un armamentario: pugnali, coltelli, stiletti, rasoi, tirapugni. Mi ero preparato all'evenienza di dover affrontare un altro assassino e volevo essere pronto. 

All'improvviso, qualcuno spuntò accanto a me ed io sobbalzai. «Siete venuto appena in tempo, il Padrone la stava aspettando.» Sentii dire dalla voce nasale di un uomo alto e dai lineamenti affusolati. Era mingherlino come uno stuzzicadenti, aveva il naso a punta, i capelli grigi che, pettinati all'indietro, evidenziavano ancora di più le sue strane orecchie affusolate e una tenuta da maggiordomo nera e rossa. Mi pietrificai.

Che cavolo...? Che significava che mi stava aspettando? Ero venuto in incognito, non avevo avvertito nessunoQuindi come sapeva quel tizio del mio arrivo? Strinsi più forte il manico della valigetta di cuoio e annuii, cercando di stare al loro gioco.

«Seguitemi.» mi invitò l'uomo smilzo. Pensai alla figura del nobile. Non sapevo esattamente chi fosse quell'uomo, chi mi sarei trovato di fronte. Nessuno aveva mai visto il cosiddetto Conte Alucard Vlad III. O meglio, chi l'aveva visto, non aveva più fatto ritorno.

Il Maggiordomo mi guidò per lunghi corridoi costellati da mattonelle decorate con disegni ricercati, su cui mi concentrai per non pensare ai dettagli raccapriccianti dell'uomo che avrei dovuto uccidere. Poi arrivammo nella sala da pranzo.

Come tutto il resto, le pareti conservavano quel loro alone lugubre e quel senso dello stile che ricordava esattamente un racconto di paura. Una lunghissima tavolata apparecchiata per due si estendeva lungo la sala e un grazioso centrotavola fatto di rose rosse e candele nere spiccava sulla tovaglia di pizzo bianco. Ancora una volta, diversi lampadari scendevano dal soffitto, ma solo un paio di candele erano accese, rendendo la luce a malapena sufficiente. Certi angoli della sala erano immersi completamente nel buio.

«Con permesso.» si congedò il vecchio maggiordomo, lasciandomi solo a guardarmi intorno.

O almeno così pensai, finché non notai quella figura immobile in un angolo della stanza, a mescolarsi perfettamente con le tenebre. Sussultai. Stava rimirando un mazzo di rose nere contenute in un vaso di porcellana bianca. Era una figura alta e coi capelli talmente chiari da sembrare bianchi. Che lui fosse...

«E' sempre un piacere ricevere visite.» disse, con una voce dalla tonalità bassa e vibrante. Si voltò verso di me, ancora fermo dall'altra parte del tavolo. Rimasi a fissare il suo volto, i lineamenti, il portamento: era bello, ma di una bellezza quasi disturbante; inquietante. 

La pelle era talmente bianca da far spiccare le vene con un leggero color violetto. I suoi capelli sembravano soffice neve. Aveva il naso precisamente dritto, le labbra sottili e di un rosso talmente pazzesco che mi chiesi se non se le fosse macchiato con del succo di ciliegia. Ma la cosa più affascinante e più inquietante al tempo stesso, erano gli occhi: di un rosso pallido, quasi rosato. Delicati ma terrorizzanti al tempo stesso. A spezzare il candore della sua pelle c'era una camicia di seta rossa, accostata ad un panciotto di velluto nero. Stesso colore per pantaloni e stivali. Sarebbe stato meravigliosamente con una tuba in testa.

L'uomo aprì la bocca color carminio in un sorriso che mise in mostra una fila di denti perlacei e bianchissimi. «Sono il Conte Alucard. Alucard Vlad III.» Si avvicinò al capotavola, dal lato opposto rispetto al mio. «Ma voi già lo sapete.» continuò, facendomi cenno di sedere. Mi accomodai al capotavola, come lui, uno di fronte all'altro, ma allo stesso tempo lontanissimi.

«Io sono Va-»

«So già chi siete.» mi rispose con uno sguardo ammiccante e schioccò le dita.

Come un burattino a comando, dalla porta comparve il maggiordomo, trascinandosi dietro un carrello per le vivande. Si pose accanto a me e mi sistemò davanti piatti e vettovaglie lussuosamente coperte da campane d'argento, che scoprì con un gesto rapido ma leggiadro, e poi un bicchiere di quello che mi sembrò vino rosso per il conte, che versò da una caraffa di cristallo.

Gettai un rapido sguardo al mio piatto, che conteneva quella che a prima vista sembrava succulenta carne al sangue, con patate e un'insalatina fresca. Anch'io ricevetti del vino, ma questa volta mi fu versato da una bottiglia stappata al momento. Poi il cameriere si eclissò ancora una volta con silenziosa obbedienza e occhi bassi, lasciando aleggiare nella stanza un penetrante silenzio.

Avvertii gli occhi del Conte Alucard fissi su di me, ma non mi azzardai a sollevare i miei per incontrarli. Tagliuzzai un pezzettino della carne e mi chiesi se non fosse proprio così che uccideva le sue vittime: avvelenandole. Portai la forchetta d'argento alla bocca e con questa scusa annusai il boccone. Sembrava normalissimo, anzi, avevo l'impressione che quella carne fosse tenera e morbida. Il conte rise dall'altro lato del tavolo.

«Non è certo avvelenata.» continuò, gentile e compassato. Mi chiesi come diamine avesse fatto a capire ciò che stavo pensando. Evidentemente doveva averlo intuito dal mio sguardo scettico. Strano, di solito mi guardavo bene dal mostrare le emozioni sul mio volto, quando stavo dinnanzi ad una delle mie prossime vittime. 

«Ah, sarebbe davvero scortese da parte mia pensarlo!» lo rassicurai con un sorriso e azzardai un boccone, a mio rischio e pericolo. Nella peggiore delle ipotesi, potevo prendere uno dei vari antidoti che avevo conservato nella valigetta, dovevo solo risalire alla natura del veleno. Ma comunque, ero quasi sicuro che il Conte non fosse un assassino da veleno. Sarebbe stato troppo vigliacco ed impersonale, per un uomo con degli occhi agghiaccianti come quelli. Lui si portò il bicchiere alle labbra e fece una smorfia. Non capii perché non si facesse portare del cibo, evidentemente non doveva avere appetito. «Il vino non è di vostro gradimento?» chiesi.

Quando una piccola goccia solitaria di quel liquido rosso e scuro gli sfuggì dalle labbra mi sembrò quasi più denso di semplice vino, ma lui si tamponò velocemente la bocca con il tovagliolo di seta. Sorrise di nuovo, lanciandomi uno sguardo penetrante che mi fece scorrere un brivido lungo la spina dorsale.

«Oh, no. Il vostro sarebbe sicuramente migliore.» ammise, con un sorriso che avrei interpretato come malizioso. Inarcai le sopracciglia. Poteva semplicemente farsi versare lo stesso vino che il suo maggiordomo mi aveva servito. Qualcosa, però, mi disse che non si riferiva affatto alla bevanda rossa nel mio bicchiere. 

Mi schiarii la voce. «Ma perché non parliamo delle questioni importanti?» esclamai, lasciando intuire che fosse una domanda retorica, perché ripresi subito: «Sono venuto qui per proporvi un affare a cui non saprete resistere.» accennai, ma venni di nuovo interrotto. Questo tizio incominciava a darmi sui nervi.

Eppure quello che disse mi fece gelare il sangue nelle vene.

«Ah, già. Adesso state impersonando un avvocato, mi sbaglio?» piantò i suoi occhi su di me e mi accorsi che sembravano più accesi, più rossi, quasi avessero appena preso fuoco a causa della fiamma di una candela. Quasi nascondessero all'interno dell'iride il bocciolo carminio di una rosa. 

Cosa...cosa aveva appena detto?

Strabuzzai gli occhi. «Di-di che state parlando?» La mia voce si incrinò e la sua bocca scarlatta si piegò in un ghigno lugubre.

«Di certo siete un ottimo attore.» prese un altro piccolo sorso dal bicchiere di cristallo e poi si leccò le labbra allargando il suo sorriso. «Ma sappiamo tutti e due chi sei. Non credi, Helias?» 

Il mio cuore si fermò. Sentii le mie mani stringersi a pugno sul coltello e il sangue pulsare ripetutamente nelle tempie. Come diavolo faceva a sapere chi ero?! Come diavolo faceva a conoscere il mio nome?!

«Come faccio?» ripeté i miei pensieri sorridendo con fare divertito, come a prendersi gioco di me. «E' tutto qua dentro.» si tamburellò la tempia con un dito lungo e affusolato. Lui sapeva. Non avevo idea di come fosse possibile, ma poteva leggermi la mente. Poteva leggermi dentro. Mi sentii in qualche modo violato, ma soprattutto, mi sentii spaventato. Quindi sapeva che ero un assassino.

Gli lanciai uno sguardo torvo che accolse con un sorriso elettrizzato. «Dimmi Sfavillo, credi ai demoni?» Sussultai nel sentire quel nome, ma subito continuai a lanciargli occhiate velenose. Chi era quest'uomo?

«Non dovreste già saperlo se sapete leggermi nella mente?» Lui rise e io continuai col mio tono sprezzante. «Ovviamente no.» Mi chiesi come potesse andare a finire. Sembravamo ballare sul filo del rasoio, un solo passo in fuori e sarei caduto nel baratro. 

Continuò a ridere. «Allora dovresti ricrederti.» Mi si mozzò il fiato in gola, perché i suoi occhi divennero rossi  e luminescenti e i suoi canini si allungarono fino a diventare aguzzi e appuntiti, come quelli di una pericolosa belva. Mandò giù un grosso sorso di ciò che conteneva il bicchiere e quando il liquido gli colò dalla bocca mi accorsi con grande orrore di cosa si trattava. Sangue.

«Perché ne hai uno davanti.»

Mi alzai di scatto e la sedia si rovesciò all'indietro con un colpo fragoroso. Afferrai il coltello e, senza pensarci due volte, iniziai a correre. Spalancai porte e scesi lunghe scalinate, senza sapere dove stessi andando esattamente, ma continuando a calpestare un gradino dopo l'altro.

Helias... Piccolo, non fuggire o renderai solo le cose più divertenti...

Sentii la sua voce cavernosa parlarmi nella testa e mi sentii privato di me stesso, della mia privacy. Ma soprattutto mi sentii in pericolo come non accadeva da tanto tempo. Presi il corridoio a destra e poi a sinistra. L'adrenalina mi percorse il corpo.

Don-don-don-don-don.

Helias, il piccolo assassino ballerino...

Cantilenava nella mia testa. Don-don-don-don-don. I rintocchi cessarono. Dovevano essere le dieci esatte. Corsi, corsi ancora e corsi di nuovo. Superai un gigantesco salone da ballo, scivolai sulle mattonelle lucide, quasi cadendo in ginocchio, ma mi rialzai, continuando a correre, superando sale color rosso sangue, come quello che aveva imbrattato le labbra del Conte Alucard pochi minuti prima. Sentii il fiatone, il sudore imperlarmi la fronte.

Posso vederti Helias, io so dove sei... Non puoi scappare...

Mi tappai le orecchie nella vana speranza di scacciare quella voce da dentro la testa. Corsi ancora e con una sensazione di speranza riconobbi l'androne. Ero salvo. Mi catapultai verso il portone, mentre una sensazione di sollievo incominciava a riempirmi il petto. Spinsi.

Ma il portone non si mosse.

Spinsi ancora, ma niente. Ancora una volta. Nulla. Spinsi con tutta la forza che avevo nel corpo.

Helias, Helias, la mia piccola preda tanto bella, fatta tutta zucchero e cannella...

Canticchiava, divertendosi ad inondare la mia testa di idiozie per angosciarmi e spaventarmi ancora di più. Ed io ero un fascio di nervi, il respiro mi andava acceleratissimo. Fanculo ai nervi. Spinsi molto più forte, premendo tutto il corpo contro il portone, sbattendoci le spalle.

Helias, Helias, sangue tutto zucchero e cannella...

APRITI! Apriti stupida porta del cazzo! 

Non si aprì. Non ce la facevo. Non si poteva aprire. Non importava quante spallate davo, non importava quanti calci. Non si apriva e basta. Lui smise di canticchiare. Mi voltai verso l'androne, brandendo il coltello d'argento. Voleva uccidermi? Voleva mangiarmi? Bene. Ma prima doveva beccarsi il mio coltello nel collo.

Ed ecco che in una nebbia rossa, il Conte Alucard i materializzò davanti a me. Strabuzzai gli occhi e feci un passo indietro, ritrovandomi spalle al portone. Raccolsi un respiro e gli rivolsi uno sguardo torvo, stringendo il coltello con la maestria del perfetto assassino quale ero. Lui poteva essere un mostro di fatto, ma io lo ero di nome.

Fece un passo verso di me e mi ritrovai a pochi centimetri dalla sua figura muscolosa e bianca come un fantasma. In quel momento non mi sentii più l'imbattibile Sfavillo, l'assassino di Skys Hollow, quello che tutti temevano. Ero solo un ragazzo. Un ragazzo che poteva spezzarsi.

In un gesto fulmineo gli piantai il coltello dritto dritto nel cuore. 

Lui non si mosse minimamente, neanche un minuscolo gesto di difesa. Rimase con gli occhi piantati nei miei, a fissarmi. E quando pensai di aver ucciso quel mostro, quando pensai che fosse arrivato il momento per lui di accasciarsi a terra privo di vita, sorrise. 

Non si mosse e sorrise.

«Helias tutto zucchero e cannella...» si tolse con un semplice gesto della mano il coltello dal cuore. Il panciotto e la camicia rossa rimasero squarciati ma la pelle gli si richiuse in un solo secondo. Sbarrai gli occhi, immobile, il corpo di sale.

Per me era finita. Ero morto.

Gettò il coltello a terra, che emise un rumore agghiacciante, per poi avvicinarsi ancora di un passo a me, tanto da far combaciare i nostri corpi. Il suo sguardo cadde sulla mia bocca, poi nell'incavo fra l'orecchio e la spalla. Si leccò le labbra. «Sembri così dolce...» 

Tentai di scappare, ma subito le sue mani mi immobilizzarono le braccia, con una tale velocità che io non me ne ero neppure accorto. Cercai di liberarmi o almeno di divincolarmi, ma era tutto inutile, possedeva una forza che non avevo mai sentito in nessuno: né in Yul, né nel Re degli Assassini. Era sovrumano.

Mi afferrò il viso e in un gesto del tutto inaspettato, mi baciò. Sentii lacerarmi le labbra dai suoi canini appuntiti e la sua lingua mi accarezzò la bocca, raccogliendo i rivoletti di sangue che in qualche modo bastarono per smuovere qualcosa dentro di lui: non appena assaggiò, divenne in qualche modo più violento e vorace. Forte e rabbioso. Famelico, assetato, voglioso.

Strinsi le mani a pugno, mentre lui mi teneva ancora stretti i polsi nella sua morsa. La sua lingua si spinse contro le labbra, costringendomi a schiuderle: avvertii un retrogusto di rose e di sangue che mi diede la nausea, ma nel tentativo di sfuggirgli, la mia lingua vagò a duellare in una sorta di frenetica fuga con la sua.

Si staccò e non per riprendere fiato, perché sembrava non averne bisogno. Invece, passò al mio collo, tracciando lenti cerchi con la lingua che mi fecero mugugnare qualche silenzioso verso di paura, ma anche di piacere.

La mia vita era appesa ad un filo.

Sentii le sue labbra chiudersi a cerchio contro la mia pelle, succhiando come se avesse voluto lasciarmi un livido. Poi ci fu un attimo in cui non accade nulla. Ma durò solo quel breve secondo perché, dopo, avvertii una strana quanto dolorosa sensazione. Per un unico e confusionario attimo, non capii nulla. Quando riacquistai la ragione, sentii la presenza dei due denti aguzzi che mi erano penetrati nel collo, come la lacerante puntura di due spilloni.

Sentii il suono del risucchio e, dopo il dolore, uno strano piacere iniziò ad insinuarsi dentro di me.

Il cuore mi batteva all'impazzata. Brividi caldi scorrevano dal collo e si diffondevano per tutto il corpo, inondandomi improvvisamente di una sensazione rilassante, quasi di debolezza, di sonnolenza. Non potevo addormentarmi, ma avevo così sonno e chiudere gli occhi sembrava così invitante... Un momento dopo, con gli arti molli, mi abbandonai fra le sue braccia, mentre continuava a succhiare. La vista si annebbiò.

Poi il buio.


Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top