1. L'Assassino e Skys Hollow
Qualche anno dopo
«Sei pronto?» mi disse, ricordandomi della sua presenza. I suoi occhi luccicavano quasi quanto i suoi capelli e il suo corpo era la prova dei mille ostacoli che avevamo superato per arrivare dov'eravamo adesso.
Distolsi lo sguardo, solo per puntarlo nella voragine che ci aspettava, a qualche passo di distanza da noi. Avevo già visto la morte in faccia ed era stata spaventosa, ma mai quanto adesso, mai quanto quel buio assoluto che ci chiamava e sussurrava come fosse una persona in carne ed ossa.
«Un giorno scriverai la tua storia e questa ti sembrerà solo una delle tante cose assurde.» continuò, avvicinandosi con cautela verso di me, passo dopo passo, con una mano protesa nella mia direzione, dita aperte, in attesa.
«Dio, sono vanitoso, ma non fino a questo punto.» esclamai, con la forza di sorridere anche in una circostanza come questa. La mia storia. Quando era iniziata davvero? Socchiusi gli occhi e presi un respiro profondissimo, che mi ripulì da ogni insicurezza. Poi presi la sua mano. «Sono pronto.»
Mentre ci tuffavamo verso morte certa ripensai alla mia storia, a tutto ciò che avevo fatto per giungere fino a quel punto... E ricordai.
Presente
Gli ultimi sprazzi aranciati del tramonto corsero a nascondersi dietro ai tetti, facendo calare la notte sulla città. Era in quel momento che la vita mondana di Skys Hollow iniziava. Spalancai la bocca in uno sbadiglio ammantato da palpabile noia, ascoltando il rumore di zoccoli e ruote trascinate sull'asfalto, sulla strada sottostante. Udii una risata argentina e una dama si strinse al braccio di un giovane lord, che passeggiava accanto a lei, ridendo su qualcosa che lui doveva aver detto. In quel momento, inginocchiato da ore in un'improbabile posizione, non potei che invidiarla.
Spostai il mio sguardo su di lui, che alla risata della ragazza si abbassò la tuba con un lieve gesto della mano, come a volersi coprire il volto, imbarazzato. Cercai di sgranchirmi le gambe, cambiando posizione più volte ma stando attento a non farmi notare. Ero da più di tre ore inginocchiato dietro alla statua di un gargoyle, sul cornicione del tempio più famoso di tutta la città. La tuta aderente ormai mi si era incollata addosso e il mantello scuro favoriva l'oscurità che mi si accalcava intorno. Certo, era sempre stato un po' d'impiccio, ma contribuiva alla teatralità che mi conferiva, un po' come un oscuro mietitore.
Improvvisamente, una carrozza rossa svoltò all'angolo della via, attirando la mia attenzione. Finalmente.
Aguzzai la vista. La carrozza si fermò proprio sotto di me, mentre il lord si affrettava ad uscire per la sua visita settimanale al tempio. Gli lanciai un improperio molto colorito, a denti stretti. Mi era sembrato che il suo appuntamento fosse alle diciotto, non alle diciannove e trenta.
Il bastardo si permetteva di arrivare in ritardo perfino il giorno della sua morte. Se il suo appuntamento con Dio – volto all'unico scopo di ripulirsi la coscienza dopo le schifezze commesse in una settimana – poteva aspettare, io non l'avrei fatto. Un ghigno sinistro che mi stropicciò i lineamenti, quando mi accorsi che questo sarebbe stato l'ultimo ritardo della sua vita. In breve tempo stavo ridacchiando, forse in modo un po' inquietante, giocherellando con il pugnale di riserva infilato nello stivale.
L'uomo scese dalla carrozza con un'espressione piena di sufficienza e tracotanza, gonfiò il petto e di conseguenza anche la sua considerevole pinguitudine e si sistemò la tuba, reggendo il bastone da passeggio in avorio come se stesse stritolando il collo di qualcuno. Riconobbi all'istante da quei tratti rotondi e sgraziati il duca Willhelm, uno di quei funzionari del Re che affollavano la sua corte, complice e colpevole di tratte di schiavi e di stupri verso quelle donne che avevano il buon senso di essere disgustate da lui. Strinsi la bocca in un moto di stizza e di rabbia, che allontanai presto. Non erano concesse distrazioni.
Sfilai una pepita d'oro dalla tasca posteriore della tuta e la nascosi in bocca; posai sul viso una mascherina di seta dorata che andava a contornarmi perfettamente gli occhi, poi mi alzai dall'ombra della statua. Era arrivato il momento di entrare in scena.
Giunsi al bordo del cornicione e aprii le braccia afferrando i lembi del mantello simulando un paio d'ali, oscure come quelle di un corvo o di un pipistrello. Dopo, mi lanciai.
Una volta, quando ero molto piccolo, mia madre mi raccontò che nel nostro sangue scorreva la magia, ma era un segreto che mi costrinse e mi fece giurare di non confessare a nessuno. Quasi come se fosse uno scherzo o una fiaba. Da bambino, non riuscivo proprio a capirne la ragione. Eppure, quando scoprii cosa succedeva alla creature magiche, quando scoprii la brutalità del Re di Darlan verso di esse, capii.
Non era difficile intuire quanto mia madre avesse ragione, sulla nostra discendenza: la mia resistenza e la mia agilità superavano di gran lunga quelle umane, ma soprattutto le mie miracolose abilità di guarigione lasciavano a bocca aperta. Questo era uno dei miei punti forti nel lavoro e mi bastava. Non mi ero mai voluto spiegare cosa fosse questa magia. Nel regno di Darlan, non era cosa sconosciuta, ma era stata bandita e vietata dal Re, perseguita come un reato finché, dopo un po' di tempo, era svanita nel nulla.
Disegnai qualche capriola nell'aria, gustandomi la sensazione di vuoto nella pancia e le carezze del vento fra i capelli. L'uomo non ebbe neppure il tempo di alzare la testa che gli piombai sulle spalle e lui stramazzò al suolo per l'impatto. La sua tuba rotolò sull'asfalto. Ora sopra di lui, tirai con uno strattone i suoi capelli unti e ringraziai il cielo di avere dei guanti, scoprendogli il collo.
Estrassi con un movimento sciolto del polso la lama nascosta nella manica e con uno scatto repentino lo sgozzai, schizzando la strada lastricata di macchie cremisi. Qualcuno urlò. I miei capelli dorati, insieme alla mia maschera, scintillarono alla pallida luce dei lampioni e a quella argentea della luna piena. Le guardie del duca non erano neppure uscite dalla carrozza che il loro padrone era stato già ucciso.
Quanto ci avevo messo? Tre, quattro secondi?
Con un calcio e senza nessuna delicatezza, voltai il cadavere a pancia in su e stesi la lingua, liberando la pepita dalla bocca. La posizionai meticolosamente al centro della fronte dell'uomo. Dopo quel gesto, mi riconobbero all'istante.
«E' Sfavillo!» urlò qualcuno in strada, facendo riecheggiare il grido fra come un'eco di morte per tutta la via.
Così mi chiamavano. Chi per la bellezza dei miei capelli simili a fili d'oro, chi per la mia elegante maschera, chi per la mia fulminea velocità che quasi eguagliava la luce e chi per la pepita d'oro, che era la mia firma. Di solito, i testimoni di uno dei miei omicidi affermavano sempre alle guardie di non aver visto il volto dell'assassino, ma solo uno sfavillio dorato. Non sapevo se apprezzare quella stramba nomea o meno - non era un nome molto spaventoso, per un sicario - eppure, dopo anni ci avevo fatto l'abitudine.
Due guardie grosse come armadi si precipitarono fuori dalla carrozza. Molti restarono a bocca aperta davanti al leggendario assassino di Skys Hollow e nessuno aveva ancora avuto il fegato di chiamare le guardie reali o le sentinelle della città, troppo affascinati e allo stesso tempo inorriditi. Le guardie personali del duca impallidirono davanti alla pozza di sangue del proprio padrone. Mi guardarono e sibilarono un ringhio fra i denti. Ebbi giusto il tempo di rivolgere loro un ghigno per poi darmi alla fuga, eclissandomi nelle tenebre in pochi minuti.
***
Quando attraversai il cancello di ferro battuto nero, mi si parò davanti l'ampio portone della Fortezza dell'Assassino. Sfilai via la maschera, emettendo un verso d'apprezzamento quando l'aria fresca mi baciò la fronte imperlata di sudore. Mi tolsi il mantello dal collo e me lo appallottolai mollemente su un braccio.
Ogni volta che tornavo da una missione la stanchezza mi spossava le spalle e se gli appostamenti duravano tanto quanto erano durati quelli di stasera, la cosa non poteva che peggiorare. Salutai con un cenno sbrigativo del mento la guardia appostata al portone d'ingresso della Fortezza. Mi rispose con un sorriso lascivo. Era un tipo grande quanto un rinoceronte, aveva i capelli radi e diverse cicatrici a guastargli il viso. Doveva chiamarsi qualcosa come Trill o Phill e, a quanto pareva, doveva avere una strana forma d'ammirazione per me. Rabbrividii ed entrai nell'edificio di pietra.
Era sempre stato uno dei posti più raffinati che avessi mai visto. Le scale e i pavimenti erano di marmi e legni pregiati, a volte coperti da tappeti persiani della qualità più ricercata, provenienti da qualche località esotica. Le pareti erano solitamente tappezzati da quadri e arazzi, e il mobilio era di un'estrema eleganza. Salii nelle mie stanze, senza incontrare alcun assassino. Di solito erano ad allenarsi, oppure si trovavano in qualche missione. Era raro vederli in giro per la Fortezza e, se li avessi incontrati, sarebbero girati a largo con referenziale timore e una punta di invidia. In fondo ero pur sempre il protetto del Re degli Assassini, ero Sfavillo.
Dopo essermi lavato rapidamente, squadrai attentamente la mia immagine nello specchio rotondo del bagno. Morbidi capelli mossi dello stesso colore dell'oro mi incorniciavano il viso fino alle orecchie; un volto longilineo e sottile, decorato da zigomi alti e orecchie leggermente a punta, spuntava dalla chioma. Occhi affilati come quelli di un felino, orlati da lunghe ciglia, possedevano un colore talmente strano da essere difficilmente descrivibile: l'iride, di un pallido azzurro ghiaccio, simile al colore dei diamanti scintillanti, era tinteggiata da sprazzi viola lavanda, mentre la pupilla era circondata da un cerchio color argento che catturava l'attenzione dell'interlocutore sin al primo sguardo.
Labbra carnose, rosee come ciliege e tanto morbide da far desiderare di toccarle con la punta delle dita per capire se fossero davvero come il velluto, mi sorrisero di rimando. Incastonato al centro della faccia rimaneva un nasino all'insù, che sembrava beffarsi di qualsiasi cosa mi dicessero.
Il mio era uno di quei volti bilanciati fra punti morbidi e angoli nordici, una perfetta contrapposizione di dolcezza e durezza. Delicato come il profumo di una rosa, ma pericoloso come le sue spine. E, benché non fossi molto alto, il mio corpo slanciato e flessuoso ne dava l'illusione. Sapevo di essere bello, anzi, molto più che bello, così come sapevo che questo poteva risultare un punto debole quanto un'arma infallibile. Era il minimo per il figlio di quella che era stata la cortigiana più ambita di tutta Skys Hollow.
Pensare a lei e al passato, era come ricordare la cosa più importante della tua vita e capire che non l'avresti rivista mai più. Un vecchio dolore, che ogni tanto veniva inglobato dal desiderio di sangue e che mai avevo dimenticato, tornò a farmi visita.
Strinsi i denti, sforzandomi di scacciare l'immagine di quella splendida donna dai fluenti boccoli biondi riversa in un lago di sangue, su un tappeto color panna. La forte fitta di dolore s'incrementò, cogliendomi impreparato, e mi obbligai a inalare profondi respiri pur di scacciarla. Cancellai quel ricordo oscuro dalla mente scuotendo il capo. Non sapevo chi l' avesse uccisa, ma lo stavo ancora cercando.
E non vedevo l'ora di trovarlo.
***
Non appena fui completamente vestito, mi recai nello studio del Re degli Assassini. Avevo lasciato il panciotto nel cassetto per adottare un abbigliamento meno formale: una camicia di seta bianca ben infilata nei pantaloni, ammorbidita in uno sbuffo intorno alla vita e ai polsi. Un pantalone scuro, impreziosito da ghirigori dorati lungo le cuciture laterali, mi fasciava le gambe; infine, degli stivali laccati di nero, lunghi fino al ginocchio, ticchettavano ad ogni mio passo.
Tutto il mio guardaroba era curato dal miglior sarto della città: questo perché la mia falsa identità era quella del figlio di un ricco marchese. In fondo, la vita a Skys Hollow era così. O eri un nobile che prendeva parte a sfarzosi balli ed annegava nel lusso, oppure eri un cittadino comune che si piegava al dominio crudele del Re e alla corruzione dell'alta società.
«Accomodati.» Due occhi color topazio mi squadrarono facendomi rabbrividire, un tremore che era un misto di paura e al tempo stesso di desiderio. Si trattava di Alaister Noir, chiamato e conosciuto come il Re degli Assassini.
Non solo era bello, ma il suo carisma e il suo fascino lo rendevano ancora più seducente, ancora più pericoloso. Onde di capelli corvini erano raccolte in un piccolo codino, legato sulla nuca con un nastro di raso, e i suoi occhi erano di un colore giallo acceso, dorato quasi, come quelli di un gatto. No, come quelli di una feroce pantera o uno spaventoso coccodrillo. E le sue labbra erano piene, morbide, invitanti.
Non avevo mai avuto il coraggio di avvicinarmi a lui nel modo in cui lo facevo all'interno delle mie personali fantasie. Trasudava fascino tanto quanto pericolosa violenza. Perfino il suo corpo, muscoloso e statico come l'opera di uno scultore illustre, mi faceva prudere le mani per la voglia di toccarlo.
Scossi la testa. Il più delle volte era stato proprio Alaister Noir ad allenarmi ed insegnarmi ad uccidere in tutti i modi più crudeli e contorti. E tutte quelle volte l'allenamento richiedeva uno sforzo in più per concentrarsi a non fissarlo.
Sperai solo che non se ne fosse mai accorto. E poi, sapevo bene che doveva avere quasi il doppio dei miei anni, poiché io avevo raggiunto la maggior età solo l'anno scorso. Mi sedetti su una poltroncina di velluto rosso, attendendo il suo verdetto.
«Ben fatto, Helias. Hai svolto un lavoro quasi impeccabile, stasera.» esclamò, con voce cavernosa e sensuale. Quando le sue labbra formarono il mo nome, rimasi imbambolato per qualche minuto. Erano in pochi a chiamarmi così. Io ero Sfavillo, oppure Valentine Ellis, il nome fasullo che riportava alla mia copertura come figlio di un marchese. La mia vera identità era quella di Helias Bloomwood, protetto del Re degli Assassini, temuto da tutti i cittadini del Regno di Darlan.
Solo dopo qualche minuto colsi il significato delle sue parole. «Cosa?! Come sarebbe a dire quasi?!» replicai, incredulo. Tremai di rabbia quando una voce alle mie spalle, estremamente virile eppure melliflua come musica, mi colse impreparato.
«Se solo non fossi così esibizionista...» mi canzonò Yul Pevensie. Mi voltai, lanciandogli l'occhiata più velenosa di cui ero capace. Quel ragazzo era il secondo assassino più bravo della Fortezza. Dopo me, ovviamente.
Non avevo nessuna intenzione di farmi rubare il posto come protetto del Re degli Assassini. Poteva essere anche alto, muscoloso e carino - molto più che carino - ma era solo un pallone gonfiato che ogni giorno si divertiva ad infastidirmi e a mettere a dura prova la mia pazienza. Come risposta al mio sguardo furente, mi rivolse un ghigno soddisfatto.
Cercai di non pensare a quanto gli stessero bene quelle fossette sulle guance. I capelli lisci, non troppo corti, di un rosso scuro carico come il sangue, scintillavano grazie alla luce che proveniva dai candelabri. I suoi occhi invece erano di un blu così profondo e oscuro da farmi pensare ad una splendente notte invernale. Era anche parecchio più alto di me, altro frequente oggetto di scherno. Aveva persino il fegato di venire nell'ufficio del Re degli Assassini reduce dall'allenamento, ancora con la camicia aperta a lasciare in bella vista il corpo perfettamente allenato, meravigliosamente scolpito.
La mia espressione lasciò trapelare evidente rabbia, mentre cercavo di non far trasparire neanche la più piccola briciola d'interesse verso di lui. Quanto lo odiavo!
«E' così che ci si fa un nome e non si resta anonimi per tutta la vita.» gli risposi, sperando che avesse colto la frecciatina. Per quanto potesse essere bravo, uccideva sempre in silenzio, senza lasciare una firma o una minima parte di sé. Che si aspettava alla fine se poi ero io quello che tutti ricordavano, mormoravano e ammiravano?
«E' così che si finisce nelle prigioni reali, vorrai dire.» Ed ecco un altro insopportabile ghigno. Strinsi i pugni. Era sempre così: finivamo a battibeccare come due bambini piccoli. Alaister Noir si schiarì la gola e ci squadrò con estrema freddezza.
«Non sei forse stato educato a bussare, Pevensie?» sentenziò lui, glaciale come l'inverno del nord. Yul si accigliò mentre cercava di non dare a vedere il suo nervosismo, ed io ghignai sotto i baffi, con la stessa soddisfazione che avrebbe avuto un bambino sotto l'ala protettiva del proprio paparino.
«Trill mi ha fatto entrare senza problemi...» replicò, rivolgendosi al colosso che faceva la guardia del corpo ad Alaister e che sorvegliava il suo ufficio in ogni momento. Quindi se lui era Trill, quello all'entrata era Phill. In tal caso non faceva tanta differenza.
«Non importa, avevo intenzione di mandarti a chiamare. Siediti.» Liquidò la discussione con un gesto della mano. I movimenti del Re degli Assassini erano perfetti: aggraziati, seducenti, calcolati, come se ogni minima azione non fosse mai inutile, solo necessaria. Scrutai con attenzione il profilo della sua mascella e la linea delle spalle, imbambolato. Yul si sedette accanto a me e ne approfittò per lanciarmi un'occhiata torva. Mi irrigidii.
Si era appena accorto di come guardavo il Re degli Assassini? mi chiesi, forse un po' turbato.
«Helias, ho un nuovo incarico da affidarti.» Annuii, invitandolo a proseguire, senza interromperlo. «Ultimamente, la scomparsa di un ampio numero di giovani nobildonne ha destato molta inquietudine nell'alta società. Stando ai nostri informatori, tutte le ragazze sono state alle feste o a contatto con il famoso visconte Callum Maclintyre.»
Improvvisamente, percepii la gamba di Yul strofinarsi contro la mia e quasi saltai dalla poltrona. Mi costrinsi a restare in silenzio e a mantenere un'impenetrabile espressione neutra. «Domani sera si terrà un ballo nella tenuta del visconte.» Indignato, gli rivolsi un'occhiata fra l'interrogativo e il collerico. Ma che diavolo aveva nella testa?
«Il vostro incarico è quello di scoprire che collegamento c'è fra quest'uomo e le vittime. Ma sopratutto cos'è successo a tutte loro.» Yul mi rivolse un sorrisetto beffardo, nascondendo qualche traccia di malizia. «Chi vi ha ingaggiato ha anche spiegato che non è necessario ucciderlo, potreste semplicemente consegnarlo alle guardie nei panni di nobili che hanno accidentalmente scoperto il misfatto.» Mi accorsi dell'andamento della conversazione solo dopo poco.
«Un momento.» Aggrottai la fronte. «Che significa vostro incarico e vi ha ingaggiato?!» Mi preparai ad una terribile rissa con il rosso seduto con indolenza sulla poltroncina accanto alla mia. Ero sicuro che mi stesse stuzzicando solo per farmi apparire come uno stupido davanti al Re degli Assassini.
«Oh, pensavo di averlo menzionato.» appuntò il corvino, con l'aria crudele di chi sapeva perfettamente di non averlo detto. «L'incarico è stato affidato anche a Yul.» rispose Alaister, gelido. A quel punto, balzai dalla poltrona, incredulo.
«Che cosa?!» Sbattei i palmi delle mani sulla scrivania in mogano, facendo sobbalzare qualche documento. «Sono perfettamente in grado di agire senza questo incompetente!» mi lamentai.
Alaister rimase in silenzio, squadrandomi con una durezza così glaciale da farmi ghiacciare il sangue nelle vene. Solo in quell'istante mi ricordai di essere davanti al famigerato Re degli Assassini, che avrebbe potuto uccidermi anche subito senza che me ne accorgessi. Mi costrinsi a rimettermi a sedere, in silenzio, rosso come un pomodoro maturo. Ero certo d'aver fatto la figura del moccioso. Borbottai delle silenziose scuse.
«Dunque accetti? Puoi sempre rifiutare e rinunciare alla ricompensa.» ribatté il Re degli Assassini. Lo sguardo mi volò al foglio sulla scrivania, lì dove erano presenti i dettagli dell'incarico ed anche la somma che mi sarebbe spettata di diritto, una volta conclusa la missione. Mi uscirono gli occhi fuori dalle orbite. Anche dividendo la somma in due, sarebbe stato un compenso più che lauto. Sospirai. «Accetti, Pevensie?» Lui alzò le spalle, come se si fosse trattato della più inutile frivolezza e non gli occorresse nemmeno un secondo per pensarci. Immaginai fosse così, visti tutti i soldi in ballo.
«Certo che sì.» rispose. Storsi la bocca in una smorfia. Gliel'avrei fatta pagare, gli avrei dimostrato chi era il vero assassino, fra i due. E mi sarei preso tutti i soldi.
«Allora Helias?» Sospirai una seconda volta.
«Accetto.» risposi, senza sapere quanto me ne sarei pentito dopo e quanto quell'incarico avrebbe portato ad un'ondata di eventi che mi avrebbero cambiato la vita per sempre.
***
*NDA - Aggiornato al 2019*
Ciao lettori!
Grazie per aver iniziato questa storia, non perdetevi lo spin-off "Il Cortigiano", da leggere subito dopo questa storia, e il sequel "I signori dell'Oltretomba".
Mi raccomando <3
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