3. L'Assassino e l'asta


*PRE NDA*

No, non è un nuovo capitolo, ho solo diviso il precedente in due parti vista la considerevole lunghezza. Buona lettura!

***


Tintinnii di risate, rumore di cristallo, urla concitate: quando mi risvegliai, capii di esserlo solo grazie ai rumori che mi attorniavano e alle grida frenetiche di un uomo che mi echeggiavano nelle orecchie. «Il pezzo forte della serata è questo splendido marchesino!» Sentii rimbombarmi la testa. Non vedevo nulla. Tutto era nero.

Ero bendato. Per qualche strana ed allarmante ragione il corpo non rispondeva ai comandi: avevo gli arti molli, la gola in fiamme ed ogni centimetro di pelle infuocato come lava. Non riuscivo neppure a muovermi e perfino respirare sembrava complicato, ogni inalata d'ossigeno uno sforzo per gonfiare la gabbia toracica.

Intanto, delle esclamazioni estasiate mi esplosero nella testa. Non avevo idea di dove diavolo mi trovassi, sapevo solo che ero in ginocchio e mani e piedi erano legati, vista la pressione che avvertivo intorno a polsi e caviglie. Inoltre, a giudicare dalla sensazione di freddo che provava la mia pelle a contatto col pavimento, dovevo essere nudo. Nel senso di completamente nudo.

«Si dichiarano aperte le offerte!» urlò di nuovo la stessa voce maschile di prima. Era difficile distinguere tutte le parole, ma pian piano riprendevo coscienza del mondo che mi circondava.

«Offro trentamila pezzi d'oro!» Percepii quel grido da qualche parte in fondo alla sala. Non avevo idea di quanto fosse grande, ma la voce tendeva a rimbombare in una eco e questo mi faceva pensare ad una zona piuttosto ampia e chiusa. La testa mi doleva come se qualcuno l'avesse ripetutamente sbattuta contro un muro di pietra.

«Sono colpito, davvero niente male per una prima offerta!» E continuò così.

«Settantamila!» urlò qualcuno.

«Novantamila!» La folla si zittì. Sentii i passi dell'uomo dalla voce squillante incombere verso di me, ed io inalai un sospiro, furioso nel sentirmi tanto impotente. Perché non riuscivo a muovere un solo muscolo? Digrignai i denti, ma anche quel gesto si rivelò vano.

«Forza signori!» urlò il sudicio individuo, che si era acquattato alle mie spalle con torbide intenzioni: non importava che non lo vedessi, era talmente goffo ed ingombrante che riuscivo a sentirlo anche senza le sue grida di giubilio. Mi afferrò i polsi legati e subito accadde qualcosa di strano. «Guardate che pelle, guardate com'è candida! E vi assicuro che è molto morbida!» continuò, facendo scorrere un dito su tutta la lunghezza dell'avambraccio.

La sensazione fu sconvolgente: era come quell'elettricità che si avvertiva dopo le giornate di pioggia intensa e fulmini feroci, ed era come se riuscisse a passarmela direttamente dalle dita, facendomi venire la pelle d'oca. Le mie labbra gorgogliarono un basso gemito e, dentro di me, capii cosa mi avessero fatto. Ero stato drogato. I bastardi mi avevano drogato!

«Offro centomila pezzi d'oro!» urlò una voce femminile.

«Sì, avanti così signori, iniziamo a riscaldarci!» continuò il tizio, chiaramente emozionato, facendo scorrere le viscide mani sul mio petto, per provocare altre sensazioni di piacevole languore. «Guardate i suoi capezzoli, non sono rosa come boccioli?» chiese alla folla, stuzzicandoli fra pollice ed indice quasi il mio corpo fosse un gioco. Fu troppo.

«Ahh-!» ansimai, inarcando la schiena, cieco ma non impaurito. Furioso, invece. Erano dei luridi vermi, era una dannatissima droga. Ero l'assassino di Skys Hollow, come potevo essere umiliato così?

«Offro centotrentamila.» gridò qualcun'altro. Se solo fossi stato capace di muovermi, sarebbe stato uno scherzo slegarmi da quelle code annodate in malo modo. Il tizio era così vicino che una sola mossa mi sarebbe bastata: il suo collo si sarebbe spezzato come un fragile grissino fra le mie mani. Una sola mossa e il panico sarebbe dilagato in quella massa di inutili pervertiti. E avrebbero capito con chi avevano a che fare. Dovevo solo riprendere possesso del mio corpo.

«Centoquaranta!» Tutte quelle file di numeri... Man mano che l'asta andava avanti, il mio disgusto saliva sempre di più. Nessuna ragazza era morta. Nessuna era stata uccisa o era magicamente sparita. Erano state vendute. Quella a cui partecipavo era molto più di un'asta.

Era un vero e proprio mercato di schiavi.

«-i ucci-e-ò...» biascicai, vicino all'orecchio del banditore. Ti ucciderò. Non diede segno d'aver capito, anzi, di aver lontanamente sentito. Una sensazione di rabbia bollente si fece strada dentro di me. Se solo avessi ancora avuto sotto le mani quello psicopatico di un visconte, l'avrei sbudellato fino a fargli implorare la morte.

«Fooorza signori! So che sapete fare di meglio!» urlò l'uomo, come un ottimo ammaestratore di animali, una massa talmente stupida da non essere in grado di pensare. Solo spendere sui corpi degli altri. Quasi mi avesse letto nel pensiero, il banditore mi afferrò le gambe e le aprì con un rapido strattone, volenteroso nel mostrare ogni punto nascosto del mio fisico.

Forse era una fortuna essere bendato, perché mi sentii affondare lentamente nella vergogna più cocente, nella disperazione di non riuscire a trattenere gli ansimi. Il banditore mi sfiorò il membro eretto, diventato tale a causa di tutta la droga con cui mi avevano imbottito, e un altro gemito fu inevitabile.

«Sono sicuro che è ancora vergine.» spiegò agli spettatori, passando la mano più in basso, verso il cerchietto roseo di muscoli. Fui scosso da un tremito violento. «Scommetto tutto l'oro che avete che anche qui lo è!» sghignazzò, mentre continuava a palparmi.

«Nnh..ah..» boccheggiai, molto più forte di prima, con un martellante senso di nausea che mi rivoltava lo stomaco. Il pubblico lanciò grida elettrizzate ed io iniziai brutalmente ad immaginare il modo in cui li avrei uccisi, uno ad uno, desiderando di veder sprofondare quella sala in un mare di sangue, denso e copioso.

«Sentitelo, come canta!» continuò. «Ha anche una magnifica voce!» La folla era andata in visibilio, mentre quel sudicio uomo muoveva le sue mani sapendo perfettamente cosa fare, come se l'avesse già fatto ed io non fossi proprio per niente il primo.

L'idea che altri avessero patito ciò che io stavo passando mi fece tremare di furia e disgusto. Ma non c'era verso di ribellarmi, il corpo sembrava bruciare sempre di più e rispondere sempre meno ai comandi. «Coraggio signori, chi offre di più?»

Strinsi i denti fino a sentirli scricchiolare. Cosa avrebbero detto tutti quelli che mi temevano, vedendomi in quel modo patetico? «Offro duecentomila pezzi d'oro!» urlò la voce di un vecchio. Alcuni si diedero a versi d'apprezzamento, altri la interpretarono come una sfida e le offerte si alzarono vertiginosamente. Arrivarono addirittura ai trecentomila. Quale sporco farabutto poteva permettersi così tanto?

«Un momento, mio magnifico pubblico!» Avvertii lo spostamento d'aria dietro di me. «Adesso viene il pezzo forte!» Qualcosa si mosse. Sentii scostarmi i capelli dalla fronte e subito la mia benda volteggiò verso terra. Spalancai gli occhi e le luci accecanti delle candele dopo tanta tenebra mi ferirono gli occhi. Li strinsi infastidito e, quando li riaprii, azzardai un'occhiata sfocata e confusa. Tutto sembrava ondeggiarmi intorno e perfino la faccia del bruto accanto a me pareva uno sbuffo di vapore. Concentrati, mi dissi.

Quando finalmente misi a fuoco qualcosa fra le palpebre strette, il fiato mi si mozzò in gola. «Guardate i suoi occhi!» mi strinse il volto fra le mani fino a farmi male alle guance, avvicinandomi la faccia verso la folla.

Studiai l'ambiente circostante: mi trovavo su un palco di legno rialzato che si stagliava davanti a file e file di loschi individui mascherati che ghignavano, sbavavano, chiacchieravano o sorseggiavano qualcosa da calici argentati. Dovevano essere almeno una sessantina. Finalmente tutto mi fu chiaro.

«Ma sono color ghiaccio?!» L'uomo si rivolse in tono stupefatto ai suoi ascoltatori. «No un momento, sono viola o forse... vedo dell'argento?» continuò, cercando di interpretare il cambiamento dei miei occhi, giusto per la soddisfazione di far esasperare il pubblico. La folla si diede alla pazza gioia. L'uno parlava sull'altro, donne davano gomitate alle dame accanto e gli uomini urlavano a quelle di stare al loro posto, mentre alzavano le palette per fare l'offerta. Non importava quanto fossero ben mascherati.

Capii bene perché il Visconte non era mai stato denunciato e neppure sospettato. Guardai il contorno del corpo di un uomo anziano. Ma quello non era il Conte Dubois? Una lady stava agitando la paletta come una furia, mentre la sua enorme pettinatura sobbalzava a destra e a sinistra. La Marchesa Kallysta.

Un'altra sputò letteralmente il vino dalla bocca quando sentì un'offerta un po' troppo alta per i suoi standard. I suoi vestiti erano di un rosa acceso, come le sue unghie, le sue labbra, le sue scarpe ed anche i suoi capelli. Impossibile non riconoscerla: era la Duchessa Hayden. Tutti i pezzi andavano al loro posto, mentre una risata amara riecheggiava solo dentro di me.

Erano tutti nobili. Erano tutti immischiati.

Non era difficile capire la loro impeccabile organizzazione: il Visconte adescava e forniva la materia prima, gli schiavisti organizzavano l'asta e i nobili compravano. Cosa poteva andare storto? Sentii rodermi il fegato tanta era la collera.

«Offro cinquecentomila pezzi d'oro!» Una donna tirò i capelli ad un'altra. «Cinquecentocinquantamila pezzi d'oro!» Non riuscii a capire più nulla che mille voci si sovrapposero l'una sull'altra in un groviglio intricato di insulti, esclamazioni e offerte. «Settecentoquaranta mila!» gridò una voce sulle altre, ma subito venne inondata da tante altre e sparì nel caos. Poi, improvvisamente, una si fece più forte delle altre.

«Offro cinque milioni di pezzi d'oro.» la voce calda e melodiosa di un giovane spaccò in due il chiasso. Piombò un silenzio di tomba. Perfino il loquace banditore d'aste al mio fianco smise di pungolarmi e non ebbe il coraggio di ribattere. Cercai di individuare la fonte di quella voce in mezzo agli spettatori, ma il mio tentativo fu vano. Di chi mai poteva trattarsi?

«Nessun'altra offerta?» chiese il banditore. Nessuno fiatò. Come poteva una sola persona avere tutto quell'oro? Avrebbe potuto risollevare tutti i quartieri poveri di Skys Hollow e non solo. Il martelletto di legno batté una volta. «Cinque milioni e uno...» un altro colpo «... cinque milioni e due...» e un altro colpo ancora «...cinque milioni e tre...»
Chissà come, la familiarità di quella sgradevole situazione mi riportò alla mente orribili ricordi.

Potevo percepire il peso sfiancante delle catene che pendevano da mani e piedi. Erano così pesanti che non riuscivo a stare dritto ed inevitabilmente mi piegavo come un fiore appassito, mettendo ancora più in mostra le ossa sulla schiena. Le labbra erano così secche e arse che se avessi parlato si sarebbero spaccate in mille pezzi. Ricordai cosa mi disse mia madre. Spalle dritte e petto in fuori.

Cercai di raddrizzarmi, invano. Era come se un grosso peso sulle spalle mi ributtasse giù per ricordarmi che la disperazione era troppa per poter fingere. Era tutto troppo. Non c'era più una madre da ricordare. E non c'era mai stato un padre.

«Il prossimo.» sentenziò una voce scocciata. Una guardia mi piantò un calcio nella schiena. Doveva essere un gesto appena accennato, ma sentii le ossa scricchiolare in modo sinistro, come se qualcosa si fosse spezzato. Quasi caddi sulle mie minute ginocchia appuntite, ma mi feci forza e alzai il viso sporco davanti alla piazza cittadina. Il mio labbro inferiore fu colto da un tremito improvviso. Deglutii, ricacciando indietro le lacrime.

Non cedere. Non adesso.

«Apriamo le offerte.» continuò il banditore, trattenendo a stento uno sbadiglio. Era la routine per lui, ma non per chi veniva venduto, solo che non gli importava.

«Offro venti pezzi d'argento.» propose uno. Abbassai lo sguardo sui miei piedi. Venti pezzi d'argento... Era una miseria, considerato il valore che i nobili contribuivano ai giovani schiavi. Eppure, davanti a quel bambino di dieci anni sporco e ossuto, sembrava l'unica offerta da fare. Perfino il banditore contenne a fatica una risata di scherno. Non fiatai.

«Avanti, un bambino è sempre utile per i lavori sporchi.» incoraggiò l'uomo, cercando di darmi un'altra chance. Un nobile grasso, sulla cinquantina portata male, alzò la paletta.

«Offro duecento pezzi d'argento.» pronunciò e quella fu l'ultima offerta.

«Duecento e uno, duecento e due, duecento e tre.» Il banditore batté sul legno un'ultima volta. «Aggiudicato.»Tremai. Ero ufficialmente diventato la proprietà di qualcun altro. Uno schiavo.

Tre anni dopo, in formale abito da cameriere, tenevo strette con tutt'e due le mani il piatto d'argento, facendo grande attenzione a non farlo cadere. Ultimamente, avevo combinato troppi disastri e le reazioni del mio padrone erano state tutt'altro che piacevoli.

Guardai verso l'omone, ben attento a non inciampare nel grande tappeto persiano. Tre anni gli erano bastati per invecchiare più di prima, al punto che somigliava ancora di più ad una prugna avvizzita. I capelli erano radi e bianchi, la pancia era una protuberanza informe, la faccia era rugosa come una tartaruga e il collo costellato da macchie d'età disgustosamente marroni. I suoi occhi all'ingiù sembravano quelli di una foca e la bocca era più che altro un'enorme e larga smorfia sul viso. Ormai, mi ero abituato all'orrido aspetto di quell'aristocratico pieno di soldi.

Arrivai fino al tavolo e con una mossa lenta e prudente poggiai il piatto al posto del vecchio. Tirai un sospiro di sollievo: non avevo rovesciato niente. Ma era troppo presto per cantare vittoria. Il piatto andò a sbattere contro il calice di cristallo ricolmo fino all'orlo di vino rosso, che inevitabilmente si rovesciò sulle pietanze e si spaccò in mille pezzi. Mi precipitai sul tavolo, cercando di tamponare con un tovagliolo l'ampia macchia di vino sul candido bianco della tovaglia. Sfortunatamente, feci pressione sull'orlo del piatto e purè, carne e piselli fecero il loro trionfante capitombolo sul mio padrone.

Il suo viso diventò di tutti i colori, mentre il rosso gli affluì maggiormente sulle guance rubiconde per la rabbia. L'unica cosa che potei fare allora fu allontanarmi terrorizzato. Mi preparai alla corsa, troppo in panico per temere il peggio, ma il suo grasso braccio mi afferrò la camicia, strappandola. Mi trattenne dal bavero ancora intatto e mi rifilò un ceffone talmente forte da farmi stramazzare a terra. Sentii immediatamente il sapore del sangue sulla lingua. Mi poggiai una mano sulla guancia, scioccato, mentre gli occhi mi si punsero di lacrime. La figura del vecchio mi sovrastò, preparandosi a picchiarmi selvaggiamente. Avevo iniziato a capire che gli piaceva punirmi.

Ma qualcosa cambiò.

Il suo sguardo scivolò sull'orlo strappato della camicia, proseguendo sulla pelle scoperta, candida, giovane e rosata. Nei suoi occhi si accese un guizzo, qualcosa di completamente diverso dalle altre volte, qualcosa di sporco e sbagliato. La sua bocca si allargò in una smorfia lasciva e bavosa. Ma io ero troppo piccolo. Come potevo capire?

Mi stritolò il viso con una mano, si fece vicino e il suo fiato puzzolente mi fece arricciare il naso.

«Sarai anche un mocciosetto stupido e fastidioso..» Mi afferrò i capelli. «..ma forse potrai renderti anche tu utile.» concluse, iniziando a trascinarmi. Mi strascicò lungo il pavimento ed io urlai, cercando disperatamente di graffiare le mani con cui mi reggeva i capelli. Nessuno mi venne a salvare.

Non ebbi neanche il tempo di capire perché fossimo arrivati in camera da letto, che mi gettò sul materasso con brutalità. Avevo paura. Ero confuso e avevo tanta paura. Mi fu addosso.

«Lasciami lurido vecchio! »urlai. Le sue mani, in un attimo, erano ovunque. Sentii la nausea farsi strada dentro di me, ma soprattutto l'impotenza. Quella mi colse come un pugno in bocca. Non importava quanto mi muovessi, lui fu capace di immobilizzarmi con pochi e distratti gesti, mentre io urlavo. Sentii le lacrime scorrermi sul volto, un senso di disperazione nella pancia e un nodo nella gola. Rapidamente, si slacciò la cintura. «Ti ho detto lasciami!» la presa sui miei polsi si fece più lenta, troppo preso a togliersi i vestiti. Dentro di me, sentii montare una rabbia diversa dal panico, diversa perfino dalla furia. Era qualcosa di freddo, di calmo e di tagliente.

Improvvisamente, un oggetto posato sul comodino, attirò la mia attenzione. Un tagliacarte d'oro sfavillò alla luce del sole.

Un ultimo colpo di martello.

«Aggiud...» Prima che il banditore potesse anche solo finire di parlare, una voce imperiosa alle mie spalle mi riportò bruscamente alla realtà. Mi voltai e, nella vista sfocata ed ondeggiante, riconobbi due visi. Il primo fu quello del visconte.

Se ne stava a terra, trascinato dal bavero della camicia, oscillando fra veglia ed incoscienza, pieno di lividi, con una massa informe e sanguinante al posto del naso. L'altro volto era quello di Yul, che lo teneva in pugno in una morsa micidiale, omicida, sovrastandolo.

«Le guardie reali stanno per arrivare.» iniziò. «Se non volete finire come lui» e qui alzò il visconte mezzo morto davanti allo sguardo allibito dei presenti «vi conviene fuggire.» ringhiò, con una voce che feci addirittura fatica a riconoscere. Dopo qualche secondo di immobilità e shock in cui nessuno osò aprir bocca, la folla fu in delirio, in preda alla fuga, spintonandosi e calpestandosi pur di scappare per primi.

Yul abbandonò il corpo del Visconte, gettandolo a terra con un rumore sinistro, cominciando a correre verso di me. Mi slegò in due semplici gesti mani e piedi e mi sollevò fra le braccia come se non avessi avuto peso, coprendomi col suo mantello il corpo nudo. Quel movimento improvviso mi suscitò un gemito traditore, ma riuscii a mascherarlo in un lamento di dolore. Yul mi scostò i capelli dal viso con espressione preoccupata.

«Helias... Che ti hanno fatto?» sussurrò, più a se stesso che a me. Ma io non lo stavo guardando. I miei occhi si soffermarono su qualcosa di luccicante accanto al martello del banditore. Feci un lievissimo cenno della testa e sperai che Yul capisse. In tutta risposta, in quanto mio collega ed assassino, ghignò e mi portò all'oggetto in questione. Avevo ancora il corpo stordito dalle droghe, malleabile, tanto che una forza di volontà che non credevo d'avere, presi il candelabro e me lo feci scivolare dalle mani.

Che morissero tutti bruciati, pensai, prima di svenire ancora una volta ma fra delle braccia sicure.

***

Quando mi risvegliai sul divanetto della carrozza, il primo pensiero che mi venne in mente fu: quell'idiota sbruffone di Yul ha vinto ancora.

«Ah, ti sei svegliato finalmente.» parlò una voce di fronte a me. Rivolsi il mio sguardo accigliato al giovane assassino dagli occhi blu notte.

«Spero sarai felice di avermi salvato e umiliato una volta per tutte.» ribattei, indispettito. Ne ero sicuro, la prima cosa che avrebbe fatto alla Fortezza degli Assassini sarebbe stato vantarsi delle sue eroiche gesta per poi ridicolizzare il povero Sfavillo, riconoscendo finalmente alla comunità d'essere lui il migliore. Lo guardai in cagnesco ma durai poco; storcendo le labbra, mi accorsi che dalle spalle in giù sentivo il corpo come immerso in una vasca di lava bollente e allo stesso tempo immobilizzato da una camicia di forza molto resistente. La droga non era scomparsa.

Yul sospirò, concentrando lo sguardo profondo su di me. «Per un attimo, pensavo d'averti perso.» bisbigliò. Rimasi completamente spiazzato.

«Ma di che diavolo stai parlando?» sbottai, cercando di seguire il suo assurdo ragionamento.

«Pensavo che il Visconte ti avesse ucciso.» Strinse la mascella. «Pensavo che ormai fossi morto.» continuò, umettandosi il labbro inferiore. Poi rimase in silenzio, come in attesa che io dicessi qualcosa, rivolgendo lo sguardo fuori dal finestrino della carrozza. Ma ero così sorpreso che non riuscii a proferire parola.

Solo dopo un po', come guidato da un'entità misteriosa, parlai. «Grazie.» mormorai, avvampando. «Per avermi salvato.» puntualizzai, abbassando lo sguardo mentre cercavo in tutti i modi di evitare il suo, troppo imbarazzato. Strabuzzò gli occhi, lasciando a mezz'aria la mano su cui aveva appoggiato la guancia poco prima.

«Wow, il leggendario assassino di Skys Hollow che mi ringrazia! Incredibile! » sghignazzò, con le mani sulla pancia. Ritornò in pochi secondi ad essere il solito ed irritante Yul di sempre, che con quel sorriso malandrino mi ricordò la prima volta che ci incontrammo. Talmente lontana che mi sembrava un'altra vita.

Le parole del mio amico Lyle, uno della banda, mi rimbombarono nelle orecchie. Ricorda: rapido ed invisibile. Me lo ripetei quattro volte. Rapido ed invisibile. Ma giunto davanti a quel tripudio di pietre e gioielli, il coraggio venne meno. Lanciai un'occhiata verso l'angolo della strada, un po' più lontano da me. Un gruppetto di bambini mi guardava scuotendo la testa.

«Avanti!»mi incoraggiò il ragazzino dai vispi occhietti verdi, mentre un altro mi faceva segno d'avvicinarmi. Mi tremarono le gambe. Forza: rapido ed invisibile.

Feci un passo in avanti, verso la bancarella. Il mercato nobiliare era il momento perfetto per i rilassanti acquisti, almeno se eri un aristocratico che passeggiava tranquillamente sotto il sole mattutino. Era anche il momento perfetto per dei piccoli ladri per sgraffignare qualcosa. Allungai una manina verso un bellissimo e gigantesco zaffiro.

Rapido ed invisibile.

«Ehi moccioso!» sbraitò una voce nelle mie vicinanze. Cercai di darmela a gambe, ma per qualche strana e terribile ragione, quelle non si muovevano, bloccate al terreno. Il negoziante mi rivolse uno sguardo furioso. Aprì la bocca, pronto ad urlare "al ladro". Poi qualcuno si schiarì la voce, interrompendolo.

«Scusate, questa quanto viene?» disse la voce di un nobile accanto nelle vicinanze, indicando una semplice collanina d'oro, senza fronzoli. Il negoziante cambiò subito temperamento, remissivo come un cucciolo. L'uomo poggiò una mano sulla spalla del figlio, che se ne stava a squadrare i gioielli con fare scocciato proprio accanto a me, senza degnarmi neppure d'uno sguardo. Strinsi gli occhi, riducendoli ad una fessura. Dannati ricconi, pensai.

Il bambino doveva avere qualche anno in più di me ed era incredibilmente bello. I capelli rosso sangue e gli occhi di un profondissimo blu notte lo rendevano elegante ed unico al tempo stesso. Solo dopo averlo squadrato per qualche momento, mi accorsi che c'era qualcosa che non andava. Non era come gli altri nobili. No, lui era diverso.

Notai che le maniche della sua giacca erano un po' troppo corte per le sue braccia, il bordo dei suoi pantaloni era decisamente sfilacciato e gli stivali neri non erano poi così lucidi, anzi, tradivano graffi e buchetti qua e là. Prese il gigantesco zaffiro e se lo rigirò fra le mani, come se fosse annoiato a morte.

E in quell'esatto momento si girò verso di me. Mi sorrise, completamente conscio della mia presenza: era un sorrisetto beffardo con una punta di malizia. Fece scivolare con un gesto naturale lo zaffiro nella tasca del cappotto, mentre mi guardava e si metteva un dito sulle labbra.

Disse solo: «Shh.»

La risatina da sbruffone che seguì i miei ringraziamenti bastò a farmi risvegliare. «Adesso non ti montare la testa, idiota!» esclamai, mettendo su il broncio. Continuò a ridere, ma dopo fece una cosa che mi costò cara: si avvicinò e mi diede un buffetto giocoso al braccio nascosto dal mantello. La mia reazione fu inevitabile. «Nhg..» gemetti, per poi sigillare le labbra in una linea sottile, con gli occhi spalancati. Con la poca forza che avevo nelle braccia, corsi a tapparmi la bocca con le mani.

«Ma cosa...?» Yul aggrottò le sopracciglia. Non appena mi toccai le labbra, il mio corpo fu scosso da tremiti e il mantello mi scivolò di dosso. La prima cosa che mi venne in mente fu: sono completamente nudo. La seconda cosa invece, la peggiore, fu: ho un'erezione.

Dopo un secondo di sbigottimento, Yul sogghignò, malizioso e beffardo allo stesso tempo, con un accenno di seducente perfidia. «Ma tu...» concentrò il suo sguardo proprio al centro delle mie gambe, senza preoccuparsi di nasconderlo. « ...tu sei eretto!» esclamò, ridacchiando divertito, impudente. Cercai invano di coprirmi con le mani, mentre il mio viso diventava di tutte le sfumature del rosso.

«Non dire quella parola! E' colpa della droga!» dissi, cercando in tutti i modi una giustificazione. Ma che diavoleria mi avevano somministrato?

«Immaginavo ti avessero drogato.» commentò, facendosi sempre più vicino, senza smettere di guardare la mia intimità, che invece tentavo di nascondere. «Deve fare male.» mi rivolse un grande sorriso, ammiccando.

«S.. smettila di guardarmi!» biascicai, così pieno di vergogna e di furore da far uscire le parole impastate. Sembrava che più indugiasse su di me con i suoi occhi, più la mia virilità pulsasse.

«Lascia che ti aiuti.» sussurrò, con quel mezzo sorriso perverso, avvicinandosi ancor più pericolosamente.

«No!» urlai. «Non avvicinarti, Yul Pevensie, o te ne pentirai!» lo avvisai con uno sguardo che non ammetteva repliche. Ma lui mi ignorò completamente, leccandosi il labbro superiore con un'espressione sardonica e lasciva al tempo stesso. Una volta vicino, mi sollevò per le braccia aiutandomi ad accorciare le distanze.

Piombai direttamente a cavalcioni sulle sue gambe, mentre il rosso ritornava a sedere con un tonfo sul divanetto della carrozza, sotto di me. Con le distanze azzerate, mi ritrovai a sfiorare l'intimità contro i suoi ruvidi pantaloni, sentendo in sua risposta un piacevole rigonfiamento. Senza aspettare un mio consenso, avvicinò le labbra morbide e rosate alle mie, per poi lasciarsi andare ad un bacio così improvviso e passionale da togliermi il fiato. Le nostre lingue si intrecciarono come se seguissero un ritmo, una danza, la mia che fuggiva e la sua che inseguiva, ed allora sentii premere ancor di più il cavallo dei pantaloni contro la mia nudità. Gli sfiorai l'erezione celata dai vestiti con un'unghia e, quando ci staccammo per riprendere fiato, gli mostrai un ghigno.

«Deve fare male.» lo provocai, usando le sue stesse parole. Ma lui si tuffò sul mio collo, seminando una scia di baci che mi portarono a piegare la gola all'indietro, lasciando che brividi di piacere mi scorressero lungo la spina dorsale. Arrivato ad un leggero succhiotto violaceo si fermò, piantando minacciosamente i suoi occhi blu notte dentro i miei.

«E' qui che quel bastardo ti ha toccato?» Non ebbi il tempo di rispondere, che si gettò su di esso, succhiando violentemente. Chiusi gli occhi e, senza neanche accorgermene, iniziai a muovermi contro di lui, strofinando la nudità sui suoi vestiti.

Con le mani libere, iniziò a stuzzicarmi quei due bottoncini rosei all'altezza del petto. Non capii più nulla. «F-fermo...» biascicai, completamente incapace di formulare frasi di senso compiuto. Con una mano mi avviluppò la virilità, facendomi gemere di piacere, ma soprattutto godendomi le ondate di desiderio che lui emanava. Incredibile quanto il mio nemico e compagno d'allenamenti sembrasse completamente un'altra persona. Ma in quel momento non eravamo più noi: non i nemici e neppure gli assassini. Eravamo solo Yul ed Helias. Sentii il mio mondo rimpicciolirsi fino a racchiudersi in quello scambio di piacere.

Quando iniziò a muovere la mano con cui mi stringeva, cacciai fuori un verso bisognoso che non assomigliava per niente alla mia voce, pieno di desiderio e lussuria. Si sbottonò i pantaloni, senza vergognarsi di liberare la manifestazione pulsante di ciò che io gli avevo provocato. Unì le nostre intimità con una mano, strofinandole l'una contro l'altra.

«Dimmi dove ti ha toccato.» bisbigliò Yul, con la voce ridotta ad un sibilo roco e lussurioso. «Te lo farò dimenticare.» Tornò a baciarmi, questa volta ancora più voracemente di prima, lasciandomi risentire il suo strano e piacevole sapore di menta e di caramello. Mosse entrambe le virilità dal basso verso l'alto, in contemporanea, allo stesso ritmo della nostra lingua. Una parte di me stava lentamente urlando: ricordati con chi è che stai facendo questo genere di cose!

«Helias.» sussurrò, con voce roca. Ansimando in quel modo il mio nome, aveva spazzato via perfino l'ultimo brandello di buon senso che mi era rimasto. Poi, riprese a baciarmi e a muovere le mani più velocemente. Mi staccai solo per respirare.

«Yul... Fermo, sto per...» mormorai, con la voce impastata dalla lussuria. Un piacere talmente intenso mi colse impreparato, facendomi inarcare la schiena all'indietro. Lasciai andare un sonoro sospiro e, inevitabilmente, venni nelle sue mani, schizzando la sua veste elegante. Subito dopo venne anche il rosso, macchiandomi la pelle con la prova evidente di ciò che ci eravamo provocati quella sera. Si lasciò andare ad una sorta di grugnito soddisfatto.

Per fortuna, la carrozza si fermò davanti alla Fortezza dell'Assassino proprio in quel momento. Mi chiesi cosa avesse pensato il cocchiere delle nostre urla, ma quello non era che l'ultimo dei miei pensieri.

Yul mi rivolse un sorriso di trionfo, mentre io gli mostravo invece un'espressione imprevedibile. Ancora a cavalcioni, mi avvicinai a lui, rapido e silenzioso come una vipera: gli piantai i denti nel collo. Urlò di dolore, mentre io gli mostravo un sorriso perfido. I miei occhi color ghiaccio si persero nei suoi, intessuti nella notte, per secondi che parvero ore.

«Me la pagherai, Yul Pevensie.» esclamai, prima di incamminarmi verso la Fortezza dell'Assassino gettandomi il mantello sulle spalle, col mento alzato.

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