La fine non è che l'inizio
Dopo
Forse, avevo sempre saputo che sarebbe andata a finire così. Forse sin da quando avevo incrociato i micidiali occhi di topazio di quella pantera sotto forma di uomo, seduto sulla mia sedia a darmi delle arie davanti a degli spettatori venuti per comprare la mia verginità. Lo sapevo dalla Cerimonia dell'Offerta. No, lo sapevo da molto prima. Da quando avevo scoperto che quell'uomo, il Re degli Assassini, aveva preso sotto la sua ala protettiva il mio amico d'infanzia, il mio primo amore, il mio Helias, rendendolo una delle sue armi più affilate.
Sapevo che sarei scoppiato, prima o poi, esplodendo in tanti pezzi come un delizioso vaso di vetro che si frantuma fino a cancellare la sua esistenza dalla faccia della terra, lasciando dietro di sé soltanto una scia di polvere tagliente. Sapevo che, alla mia esplosione, lui mi avrebbe annientato.
Ma non immaginavo che la fine sarebbe stata questa, non certo in questo modo. Forse pensavo che lasciarmi morire dentro ad un letto dalle meravigliose coperte di seta e di pizzo, sarebbe stata una morte appropriata; patetica ma appropriata. Invece, la realtà mi si sbatteva ancora una volta contro la faccia, ricordandomi che con Alaister Noir nulla era scontato: tutto poteva cambiare in un istante, con uno schiocco di dita.
Schiacciai sotto la suola delle scarpe le foglie secche che scricchiolarono con un rumore sinistro di ossa rotte, manifestando la mia presenza. Non mi fermai, continuando a correre mentre il fiatone mi scuoteva il petto e rivoli di sangue mi rigavano il mento, ricordandomi che per ogni respiro che prendevo una fitta tagliente m'assaliva all'altezza del petto, minacciando di farmi crollare in ginocchio. Ma non sarei crollato. Non ora che conoscevo la verità.
Il suono di passi pesanti non troppo lontani da me mi ricordavano che mi stava seguendo, che mi era alle calcagna, che era molto più veloce di me, molto più letale, e che io non avevo alcuna speranza di salvarmi, ma soltanto qualche minuto in più per ricordarmi di ciò che era importante, per farne tesoro, prima che tutto finisse. Sì, avevo sempre saputo che sarebbe andata a finire così, e al tempo stesso non avrei mai immaginato la dinamica che mi avrebbe portato a quella catastrofica serie di disastri.
Rischiai d'inciampare, incespicai contro un ramo, fermai la corsa. Sollevai il viso verso un frammento di sole che penetrava dai rami rigogliosi degli alberi. Meravigliose querce imponenti frastagliavano quella foresta, ombreggiando il mio disperato cammino verso una fuga che semplicemente non esisteva. Con le orecchie percepii il rumore della sua corsa farsi più vicino, minacciosamente. Il mio cuore prese a battere furiosamente, martellandomi dall'interno come se avesse voluto fuggire dal petto, scivolando fra la gabbia di costole. Ma con gli occhi restai a guardare quel frammento di cielo che s'intravedeva fra le foglie.
La volta era azzurra, il sole talmente sfavillante da farmi ricordare i capelli d'oro di Helias. Fu allora che abbozzai le labbra in una specie di sorriso mesto, lasciando andare un lungo, profondo sospiro. Era una bellissima giornata. Una bellissima giornata per morire.
Prima
Ci sono quei momenti in cui ti dondoli su una sedia, momenti in cui resti su due gambe, ti lasci andare indietro e poi capisci che stai per cadere e non riesci più a fermarti prima della rovinosa botta. Ma nella frazione di secondo di quell'equilibrio precario ancora speri di poterti riprendere. Precario, sì, ma è pur sempre equilibrio. D'altronde, se si vuol fare un passo avanti bisogna per un attimo perdere l'equilibrio.
Ed era così che mi sentivo io: in una costante perdita di equilibrio. Provavo a fare un passo avanti, provavo ad avvelenare l'acqua di Alaister, provavo ad allungare un coltello verso la sua gola e nell'attimo prima che lui capisse i miei intenti io mi sentivo quasi cadere. Precipitare in un attimo in cui il mio essere vacillava per la meravigliosa adrenalina scatenata dall'eventualità di ucciderlo davvero. O di venir scoperto.
Poi, quando si gettava l'acqua alle spalle, quando fermava la mia mano a mezz'aria, quando sorrideva di me con quell'aria micidiale e al tempo stesso ilare, come se fosse assolutamente impossibile ucciderlo, io sentivo il suono della rovinosa botta contro il pavimento, proprio come se alla fine mi fossi schiantato a terra.
Però riuscivo a rialzarmi. Anche se la malattia mi corrodeva giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, in qualche modo mi rialzavo sempre. Avevo perso la cognizione del tempo: mesi prima era ottobre, mesi dopo era già estate, ed io sentivo le lenzuola di seta bianca appiccicarmisi addosso perché avevo sudato troppo, perché lentamente mi stavo sciogliendo nella tubercolosi e sembravo sempre più magro, sempre più pallido, sempre più morto.
Un morto che cammina. Anche se ultimamente avevo smesso di farlo: mi ero trascinato stancamente per un po' di tempo nella sala da pranzo della Fortezza, con una mascherina sul viso e gli occhi di troppi assassini che mi guardavano con aria malignamente incuriosita, come se si chiedessero tacitamente fra quanto sarei morto. Poi avevo smesso di scendere ed ero rimasto nella mia non più nuovissima camera da letto.
Quanto ad Alaister, mi faceva visita sempre meno. Sembrava che avessi perso tutta l'attrattiva iniziale: i giochi erano conclusi, ormai. Helias era ad Ender e forse aveva già perso la vita sotto alla brutalità della violenza di quel campo di lavoro; Yul era morto e mai stato sepolto; ed io non avevo più nulla da perdere, perché ormai avevo già perso tutto. Il mio vecchio amore, il mio amico e stavo perdendo la mia vita.
Certe volte guardavo fuori dalla finestra, fissavo la luce che camminava sulle pareti, che cambiava, che si scuriva; vedevo la notte passare, le candele nei lampioni accendersi, la luna levarsi alta e poi sparire di nuovo per far posto all'alba. Guardavo il mondo che proseguiva nel suo incedere e mi chiedevo che fine avesse fatto lui. Axe.
Non avevo mai smesso di pensare a lui, neanche una volta. Mi capitava di sognarlo spesso, mi capitava di vedere i suoi brillanti occhi color cioccolata screziati da quelle pagliuzze verde giada, mi capitava d'accarezzare quella pelle dorata con la punta delle dita e sentire il sapore delle sue labbra. Poi mi svegliavo e capivo che si trattava soltanto di un puro e semplice sogno. E mi chiedevo se anche lui pensava a me come io pensavo a lui. No, probabilmente no. Non dopo le ultime cose che avevo detto.
Nel rendermi conto di quella consapevolezza mi ritrovavo le guance bagnate, rigate di lacrime piccole e trasparenti. Avevo sbagliato tutto, avevo fallito in tutto. Certe volte avrei voluto possedere il potere di tornare indietro, di riavvolgere il tempo, di sistemare le cose. Forse avrei potuto evitare la cattura di Helias, salvare Yul. Forse avrei potuto dire ad Axe cosa provavo veramente per lui. Forse avrei potuto sottrarmi alla Cerimonia dell'Offerta.
Forse avrei potuto evitare che Sophia mi prendesse, quel giorno, rendendomi un cortigiano del suo maledetto bordello. E forse avrei potuto fermare Helias prima che provasse a rubare in quella gioielleria. Non avrebbe incontrato Alaister e il nostro destino sarebbe cambiato.
Maledicevo tanto il duro destino che avevo avuto durante l'infanzia, senza accorgermi che allora eravamo liberi e l'orizzonte delle possibilità si distendeva ampio nel nostro futuro.
Mi fissai le mani, i palmi rivolti verso il viso; percorsi con gli occhi le linee sopra la pelle, le vene violacee che si intravedevano a causa del pallore appena grigiastro della malattia.
Ero così debole. Perfino l'idea che il Re degli Assassini morisse, se prima mi sembrava inaccessibile ma ancora fioca come una lontana speranza, adesso mi sembrava più che impossibile.
Strinsi i denti e prima che potessi lanciare uno dei miei soffici cuscini di piume d'oca dall'altra parte della stanza in un moto improvviso di rabbia amara, il filo dei miei pensieri e il dolore della mia collera si spezzarono: un paio di colpi alla porta, il bussare leggero di chi ha la mano delicata, e poi si aprì.
Lanciai un'occhiata silenziosa e quasi stizzita alla donna appena arrivata: i capelli rossi acconciati con una crocchia morbida e appuntati da scintillanti spille d'argento e d'osso di un lucido bianco, con fiori freschi fra le ciocche; un abito con le spalline cadenti che mostravano pelle eccessiva, un corpetto d'un fresco azzurro, un'ampia gonna celestina. Sembra quasi una sposa pur nella veneranda età. Dopo essersi chiusa la porta alle spalle, aprì con uno schiocco sordo un ventaglio di finissimo pizzo bianco e prese a sventolarsi come un'ossessa.
- Sophia. Che... - Non riuscii a concludere la frase senza mentire. Ormai non aveva neanche più senso farlo. Piacere? Sorpresa? No, nessuno dei due. - ... Cosa sei venuta a fare, qui? - Le mie parole risultavano stranamente minacciose, pur restando calme, impassibili.
Lei cercò malamente di trascinare una poltroncina accanto al mio letto, accigliandosi per la fatica che richiedeva l'azione e togliendosi il sudore dalla fronte con la punta delle dita ornate da unghie curatissime. Finalmente riuscì a trascinarsi al mio fianco e si sedette assumendo una posa da quadro, come se si aspettasse di venir ritratta da un momento all'altro, con il volto girato di qualche centimetro di profilo e il petto all'infuori.
- Non potevo venire a salutare il mio protetto? - disse, con le labbra corrucciate in una specie di sorriso infastidito, che spiegazzò ancora di più quando continuò a far svolazzare il ventaglio a pochi centimetri dalla faccia. - Certo che fa proprio caldo. -
Lo sguardo che le rivolsi doveva essere stizzito, o raggelante, a seconda delle impressioni. Del resto, avevo imparato dal migliore: Alaister.
- Ho smesso di essere il tuo protetto da un bel pezzo. - replicai, con il sopracciglio alzato e un'espressione di sufficienza che doveva farmi sembrare più disgustato, che altro. Mi aspettai che rispondesse per le rime con un'espressione irritata da prima donna che non sopporta d'essere messa da parte, invece aggrottò per un momento le sopracciglia, prima di sventolare la mano libera dal ventaglio con un fare liquidatorio.
- In verità... - Guardò per un attimo in aria, come se per lei fosse difficile trovare le parole giusto con cui esprimersi, o forse con cui iniziare il discorso. Poi assunse un'espressione che non le avevo mai visto sul viso e bastò per farmi sgranare negli occhi. - ... Sono venuta per fare ammenda. - concluse, con una faccia dispiaciuta.
Dispiaciuta. Lei era dispiaciuta. Mi aveva reso un cortigiano, aveva fatto di me uno strumento per il piacere altrui rendendo ogni suo disprezzabile insegnamento una specie di debito che avrei persino dovuto ripagare, ed ora era dispiaciuta. Non so come riuscii a trattenermi dal darle un pugno. Forse era a causa delle debolezza.
- Spiegati. - dissi, asciutto.
- Informazioni. - rispose, semplicemente, mentre si guardava intorno, con gli occhi che guizzavano da una parte e dall'altra con un fare circospetto, come se temesse di veder spuntare qualcuno da sotto al letto. Inclinai la testa di lato, con fare interrogativo. - Sono venuta a parlarti di Alaister. -
Mi feci all'improvviso più attento. - Continua. -
- Io non ti ho raccolto casualmente dalla strada per fare un'opera di carità. - Le mani si strinsero sulla gonna, abbandonando per un momento l'atto nervoso di sventolarsi, mentre si torturava il tessuto morbido del vestito. Per qualche strana ragione, avevo l'oscuro presentimento di ciò che stava per dire. - L'ho fatto perché me l'ha chiesto lui. - Gliel'aveva chiesto il Re degli Assassini. Ecco perché conosceva la mia vera identità. Ciò che era strano, però, era capire perché avesse preso una tale decisione. - Ascoltami, Lysandro. -
Deglutì e sentii il rumore della sua gola che ingoiava nel silenzio. Richiuse il ventaglio con uno scatto rumoroso, poggiandolo sulle gambe mentre cercava di avvicinare la poltrona al bordo del letto. Si inclinò verso di me, avvicinando il viso al mio volto, quasi come se avesse voluto sussurrarmi un segreto. E forse era proprio così.
- Alaister non è quello che dice di essere. Sono sicura che nasconda... -
Il rumore secco di nocche contro la porta ci fece sobbalzare entrambi e lei afferrò velocemente il ventaglio, stringendolo come se avesse pensato che fosse un'arma con cui proteggersi. Un servo aprì la porta e comunicò che Alaister attendeva Sophia nel suo ufficio e non ammetteva ritardi. Un tempismo perfetto, pensai, mentre la tenutaria del mio vecchio bordello s'inclinava per darmi un bacio sulla guancia. Interpretai quel saluto come un addio.
❃ ❃ ❃ ❃ ❃
Passarono giorni senza significato. Mangiavo in un letto osservando silenziosamente il mondo fuori dalla finestra, ogni tanto qualche servo silenzioso veniva a cambiare le lenzuola e con lo stesso alone di mutismo lasciava la stanza. La mia mente vagava verso le ultime parole di Sophia senza capirne il senso, o forse chiedendomi a cosa sarebbe servito. Ogni tanto le lacrime mi scivolavano insensate lungo gli occhi, mentre la malinconia per ciò che avevo perso e che ancora stavo per perdere mi distruggeva il petto, singhiozzando tanto forte da togliermi il fiato dal petto, da sputare sangue contro i polsini di seta della mia camicia da notte.
Poi, un giorno, qualcuno bussò alla mia porta e mi chiesi se non fosse di nuovo Sophia, venuta per concludere quel discorso. Invece, quando l'ingresso si aprì cigolando piano, rivelando una figura a me estremamente familiare, il mio cuore per un attimo si fermò. Tre battiti, due battiti, un battito... E poi zero. Si fermò ed io spalancai la bocca, con gli occhi che si inumidivano dalla gioia, dallo stupore, dalla tristezza.
- Axel! - Non sapevo se il mio era un sospiro rotto o un sussurro speranzoso, eppure bastò per farmi scattare a sedere. Dovevo essere tremendo: la faccia grigia quasi quanto quella di un cadavere, le occhiaie bluastre sotto gli occhi, i capelli terribilmente scompigliati. Non mi ero mai visto allo specchio da quando avevo smesso di uscire dalla Fortezza, del resto curare il mio aspetto non mi serviva più. Avevo perfino concluso di svolgere il mio ruolo di cortigiano: ad Alaister non interessavo più. Ero malato, come un giocattolo rotto.
Invece, lui era bellissimo. Molto più bello di prima. Guardandolo adesso, mi resi conto di quanto tempo era passato dall'ultima volta che lo avevo visto. La pelle era ancora più abbronzata grazie al sole cocente di quell'estate, assumendo un colorito deliziosamente dorato; i capelli castano chiaro si erano schiariti un poco, mettendo in evidenza quei riflessi biondi, e gli erano anche cresciuti tanto da arrivare all'altezza del mento, seguendo un movimento morbidamente ondulato. Ed era più muscoloso di quanto mi ricordassi, o forse ero io quello ad essere diventato minuto, magro tanto da scomparire. La malattia mi stava mangiando.
Mi guardò, rimanendo sulla soglia della porta per un attimo spaesato, come se non mi riconoscesse, o non volesse farlo. Ma poi se la richiuse alle spalle e quasi mi corse incontro, inginocchiandosi accanto al mio letto e poggiando le mani sul materasso.
- Lyse... -
Il tono che mi rivolse mi colpì come un pugno allo stomaco: suonava in modo stranamente triste. Scordato, come se parlasse con una corda vocale rotta. Eppure, il timbro di voce era come lo ricordavo: forte, come quella di una specie di divinità; di celebrità ammirata da tutti. Era impossibile non restare abbagliati dalla sua possente bellezza: ed io rimasi a guardarlo come se fosse la prima volta e al tempo stesso come se fosse l'ultima volta. Perché, lo sapevo, quella era l'ultima.
Aprii le labbra e mi accorsi che erano attraversate da un forte tremito: presto sarei scoppiato a piangere e, forse, non sarei riuscito a trattenermi in alcun modo. Perché guardando all'interno dei suoi occhi, nonostante il suo aspetto esteriore fosse cambiato, ritrovavo lo stesso sguardo di sempre. Le stesse pagliuzze verde giada che vorticavano, lo stesso nocciola morbido pronto ad accogliermi in un abbraccio di cioccolato, lo stesso sentimento di nostalgia per una libertà che non ci era permessa. Come potevo non piangere, se ad ogni piccolo sguardo mi ricordavo delle parole che mi aveva rivolto il nostro primo incontro?
"Perciò tu vivi, Lysandro".
Come potevo mantenere la promessa se stavo morendo?
- Lyle. - sussurrai, con la voce ridotta ad un pezzo di vetro che, cadendo a terra, s'infrange in ancora più pezzi, facendo un rumore graffiante ma leggero, quasi inesistente. - E' il mio nome. - continuai, socchiudendo gli occhi come se avessi voluto intrappolare un pezzo di lui fra le mie ciglia. Avrebbe dovuto saperlo molto prima.
- Lyle... - pronunciò, di nuovo, ripetendo le sillabe con una lentezza estenuante, come se avesse voluto assaporare il gusto di ogni lettera, mentre scivolavano sulla sua lingua. La sua mano si poggiò sulla mia, nascosta sotto alle lenzuola, con il tessuto leggero a separarci. - Sarei dovuto venire prima. Sarei dovuto correre da te. - Appoggiò la testa sul letto, la tempia contro la mia gamba, le ciglia che s'abbassavano. - Ero così arrabbiato... Alaister poteva averti ed io, che avevo passato tutto il tempo ad osservarti e a desiderarti, dovevo rimanere a guardare mentre lui... - Le palpebre tremolavano, mentre le labbra si stringevano come se avesse voluto impedirsi di respirare. - Pensavo che se ti avessi evitato, che se non ti avessi incontrato, allora sarebbe stato semplice dimenticarti. Avevo chiesto che nessuno mi parlasse più di te. Non volevo più saperne, volevo cancellare il tuo nome. - Per ogni parola, le labbra sfioravano il lenzuolo contro la mia gamba. Sentivo il suo respiro caldo attraverso di esso. Provai una profonda fitta di dolore al petto: lui voleva davvero cancellarmi dalla sua vita, ed era solo colpa mia, delle mie scelte. - Invece più il tempo passava, più io pensavo a te. E poi l'ho scoperto. - Tenne gli occhi chiusi per una serie di minuti che mi sembrò infinita. - Che sei malato. -
Sollevò il capo e si alzò dal pavimento, sedendosi sul bordo del letto di fronte a me. Ora, gli occhi gli si riempirono di lacrime ed io rimasi a guardare quell'unica goccia trasparente che gli solcava la guancia dorata. Ne fui così stupito che allungai la mano verso di lui, accarezzando con la punta delle dita le ciglia dorate, bagnate. Contro i polpastrelli mi rimase una dolce sensazione umida.
- E so che avrei dovuto dirtelo prima. - Feci per ritrarre la mano ma lui, prontamente, la prese fra le sue. La mia era così piccola, così ossuta in confronto. - So che ora è troppo tardi e mi odio per questo. Ma io ti amo, Lysandro. - Il mio cuore stanco, di nuovo, si fermò per un momento. - Ti amo, Lyle. E... - scosse la testa. - ... Non posso immaginare di stare senza di te. - Posò le labbra sulle mie nocche, baciandole con delicatezza, una ad una.
Mi amava? Da quanto mi amava? Mi amava perfino in quello stato?
Poi mi accorsi che non erano quelle le domande giuste. Mi accorsi che provava dei sentimenti per me e che li provavo anche io. Mi accorsi che io ero malato e ormai non c'era più alcuna speranza per avere un futuro insieme, o anche un futuro in generale.
Era troppo tardi.
- Non posso pensare che tu... - Non completò la frase, mentre, con la mano libera, si copriva il volto. Aveva l'aria sconvolta di chi non vuole sapere, non vuole sentire, non vuol vedere, non vuol credere. La vita umana poteva essere così effimera? Ora ero qui, ma fra qualche mese di me non sarebbe rimasto che un cadavere. Fra qualche anno, semplici ossa. Fra qualche decennio, polvere. E poi più nulla. Di me non sarebbe rimasto più nulla.
Non posso pensare che tu morirai. Era questo che voleva dire. Ma non aveva il coraggio di farlo.
- Dimenticami, Axel. Vattene via, lontano da Skys Hollow. Lontano da Sophia, da Alaister, da tutto quello che potrebbe nuocerti. - Chiusi gli occhi, imponendomi di non piangere, perché se avessi iniziato non sarei riuscito a smettere. E poi, il calore delle sue mani, che ora tornavano a stringere la mia, era così soave che, se avessi dovuto scegliere un posto in cui morire, avrei scelto fra le sue braccia.
Il suo viso, bellissimo, dalla pelle bronzea come l'oro, si voltò a guardare per un istante la finestra: i raggi entravano dall'interno, facendo scintillare le pagliuzze verdi nei suoi occhi come gemme di inestimabile valore.
- In questo periodo mi sono impegnato molto. Ho fatto lavori pesanti e... Adulato le clienti... Ho accumulato denaro. - Deglutì, voltandosi a guardarmi. Una mano s'allungò verso di me, sfiorandomi la guancia con la punta delle dita. - Sono libero ora. Il mio debito è ripagato e ho acquistato un biglietto per il Continente Meridionale. -
Il fiume in piena che avevo tentanto di arginare fino ad allora, adesso, scoppiò del tutto, e così sentii le lacrime scorrermi copiose sulle guance. Lacrime di gioia: lui era riuscito dove io avevo fallito. Lacrime di dolore: lui avrebbe avuto il futuro che a me era stato strappato dalla malattia. Lacrime di rimpianto: lui mi avrebbe davvero dimenticato, avrebbe davvero finito per amare qualcun altro.
Furono lacrime che non riuscii a fermare in alcun modo.
- Io... Vorrei solo che... - cominciò, aggrottando le sopracciglia con un'aria così addolorata che mi straziò il cuore e, istintivamente, gli strinsi la mano, intrecciando le dita alle sue. Scosse la testa. - Non è giusto. - sussurrò, stringendomi all'improvviso, forte. Ero minuscolo fra le sue braccia e il suo calore, per quell'estate, era quasi asfissiante. Eppure mi ritrovai lieto di quel contatto, emozionato a tal punto che le lacrime smisero all'improvviso di scendere. Appoggiai la testa alla sua spalla, sospirando piano.
Se avessi dovuto scegliere un momento in cui morire, avrei scelto questo momento.
- Vorrei anche io che tu non te ne andassi. Vorrei anche io stare con te, vorrei che esistesse una possibilità per noi due. - Mi allontanai, poggiandogli una mano sul petto per spingerlo via, con quanta poca forza mi era possibile. - Ma non c'è. - Poi mi stesi sul fianco, rivolgendogli la schiena per non vederlo in viso. Non sapevo come ero davvero riuscito a dire quelle parole: ammettere che non c'era alcuna possibilità, ammettere che non avrei avuto alcuna possibilità futura, era più difficile del previsto. Eppure, in quel momento mi sembrò facilissimo spezzare ogni mio piccolo frammento di speranza: dentro di me ancora speravo che esistesse una cura miracolosa.
Che il cielo si aprisse per magia facendomi diventare una divinità immortale. Che Alaister conoscesse un vecchio antidoto tramandato da assassino ad assassino contro le malattie. Che Axel potesse guarirmi con il bacio del vero amore.
Ma era finita. Per me era finita.
- Adesso vattene via, Axel. Va' a prendere quella nave, costruisciti una nuova vita nel Continente Meridionale. - Dal tono di voce, sembravo quasi arrabbiato. Eppure, non lo ero con lui, ma con me stesso. Se avessi saputo di avere i giorni contati, mi sarei impegnato per fare della mia vita qualcosa di diverso. Lui si meritava di ricominciare.
- Lysan... Lyle. - La sua voce suonava piena di tristezza. Di disperazione. Ero certo che anche lui sperava che un qualche dio mi regalasse una seconda opportunità. Ma sbagliava, perché io avevo finito tutte le opportunità disponibili.
- Vattene via! - gridai, ostinandomi a non guardarlo, a rimanere di spalle, mentre mi premevo una mano contro la bocca per non far sentire il singhiozzo che minacciava di salirmi dalla gola. Le lacrime, però, uscirono lo stesso. Sentii il peso del suo corpo che s'alzava, alleggerendo il materasso che cigolò per un istante soltanto. Poi i suoi passi che si allontanavano, piano; la sua mano che si fermava sulla maniglia, lo stridere impercettibile della porta che si apriva.
- Addio, Ly. -
Non Lysandro, non Lyle, semplicemente Ly. Mi fissò per un un'ultima volta, ed io sapevo che lo stava facendo anche senza voltarmi verso di lui perché percepii quella sensazione, quel brivido di rimpianto lungo la colonna vertebrale. Poi, mentre la porta si richiudeva, sussurrai, piano: - Ti amo anche io. -
Ma sapevo che non aveva sentito ed era meglio così.
❃ ❃ ❃ ❃ ❃
Il paesaggio era spettacolare e brutale al tempo stesso: le montagne graffiavano il cielo come delle mani nere piene d'artigli ricurvi; non una singola macchia di verde su quelle cime nerastre, tanto scure da sembrar fatte semplicemente di carbone. Così era Bellhaven, così era Ender. Perché poco lontano da lì si distendeva il paesaggio che circondava quella prigione, il campo di lavoro più spietato e temuto di tutti i tempi, da cui nessuno riusciva ad uscire vivo.
Appoggiai una mano sul vetro freddo, avvertendo il fresco dell'autunno attraverso i polpastrelli, mentre levavo lo sguardo allo spietato orizzonte e il mio cuore si stringeva in una morsa d'acciaio. Helias era lì? Lavorava duro sotto a quelle cime aguzze? O forse qualche soldato l'aveva già ucciso? O forse era già morto di fame? O forse... Forse. Non volevo saperlo, non volevo immaginarlo.
Non volevo neanche essere lì. Alaister mi aveva piazzato su una carrozza senza darmi risposte ed entrando all'interno senza dire una parola. Nel corso del viaggio mi aveva detto "L'aria di montagna farà bene alla malattia." Forse sarebbe stato molto meglio rimanere nel mio letto per lasciarmi morire. Invece l'idea di lasciare quel bozzolo di lenzuola chiazzate qua e là di sangue mi aveva fatto piacere.
E ora mi ritrovavo in una tenuta di montagna fra Bellhaven e la silenziosa e lugubre strada che portava i prigionieri ad Ender. Forse avevo percorso lo stesso pezzo di strada del carro che aveva portato i prigionieri al campo di sale. Un bellissimo campo di non ti scordar di me, nel bel mezzo del viaggio, avevano attirato la mia attenzione: mi ricordava la sfumatura blu degli occhi di Yul. Yul.
Una terribile voglia di piangere mi invase tutta insieme e deglutii velocemente il groppo nella gola, appoggiando la fronte alla finestra, per continuare a guardare quel paesaggio spoglio, a fantasticare. Axe aveva già superato quelle montagne.
La sua nave era arrivata nel Continente Meridionale? Aveva già trovato un lavoro? E degli amici? In fondo era passato quasi un mese da quel viaggio. Un mese che gli avevo detto addio. Un mese che pensavo di non riuscire a superare, e invece ero ancora qui. Le mie condizioni, stranamente, non stavano ancora peggiorando. Probabilmente era la medicina, che mi lasciava congelato in una situazione di stallo, almeno per un poco. O forse, l'anima di Yul che vegliava silenziosamente su di me.
Non stavo peggiorando, no. Non ero ancora morto.
- Sono ancora qui... - sussurrai, mentre i miei occhi verdi catturarono il movimento di un destriero bruno che s'avvicinava a trotto: la divisa spenta dei soldati del regno catturarono la mia attenzione. Ma no, non erano soldati: erano guardie.
La porta della tenuta si aprì ed io fissai il modo in cui Alaister, con il suo passo fiero e il sguardo di gelido topazio, si avvicinava al cavallo, fermatosi poco vicino all'ingresso, con quell'uomo in sella che si chinava per prendere qualcosa che ora il Re degli Assassini gli stava porgendo. Una busta. Che si trattasse di una lettera?
Mi ero accorto che in quei pochi giorni non faceva che passare il tempo chiuso nel suo studio che profumava di muschio, con un bel tavolo da biliardo e un caminetto di marmo verde che però non aveva ancora intenzione d'accendere. Mi ero fermato sulla porta più volte, cercando di capire cosa facesse: passava giornate a scrivere fogli, riempiendo la carta d'inchiostro, mentre la piuma d'oca volava fra le sue dita abili a maneggiare le armi, a far male alla gente, ad accarezzare corpi senza amore ma con estrema possessività.
Non avevo idea di chi fosse il destinatario, non immaginavo che potesse davvero impegnarsi per scrivere a qualcuno che non fosse un socio d'affari, che si trattasse di soldi o di missioni losche, come quella che aveva compreso l'omicidio di Yul.
Una sorta di fastidiosa rabbia mi corrose dall'interno e decisi di commettere un gesto azzardato: mi allontanai dalla finestra, indossai velocemente le mie pantofole di seta color crema e la mia vestaglia verde foresta e sgattaiolai fuori dalla mia camera, camminando a passo svelto tanto da scendere le vecchie scale di legno a due a due, intravedendo con la coda dell'occhio una serie di trofei di caccia e corna d'alce appese grottescamente per tutti i corridoi. Mi fermai per un attimo, portandomi una mano al petto per cercare di controllare quel malore che m'assaliva. Tossii, raccogliendo sul palmo della mano qualche goccia cremisi, prima di riprendere a camminare.
Non avevo molto tempo: non sapevo quanto Alaister si sarebbe trattenuto con quella guardia, dovevo arrivare nel suo studio in fretta, il prima possibile, per poter frugare fra le sue carte senza essere scoperto. Trovai subito la porta: di mogano imponente come tutte le altre, per fortuna non chiusa a chiave, quasi pregasse di essere aperta. Non cigolò, ed io scivolai all'interno come un'ombra passeggera, facendo risuonare piano lo scalpiccio di pantofole contro il parquet talmente scuro da sembrar nero. C'era un profondo odore di muschio, di pelle vecchia, di carta ingiallita, così come puzza di legno appena bruciato che veniva dal camino. Ma il tutto assomigliava più ad un profumo.
Mi fermai davanti alla scrivania sgombra, senza farmi pregare dal curiosare all'interno di cassetti e cassettini. Era tutto lì: carte, penne, piccoli pugnali, alcune monete d'oro. Non aveva preso alcuna precauzione; forse non gli importava che potessi leggere. O magari pensava che non avessi abbastanza forze per arrivare sino a lì. Ma c'ero arrivato eccome, pensai, mentre infilavo le mani nel primo cassetto.
C'erano pergamene arrotolate, perfettamente ordinate in ordine di scrittura. Quelle più recenti dovevano essere le prime del cumulo, quelle più vecchie invece ipotizzai fossero quelle nascoste dalle altre in cima, quindi quelle a fondo del cassetto. Mi chiesi perché le tenesse tutte lì senza inviarle ancora: magari aspettava che arrivasse un messaggero per prenderle tutte. O forse voleva affidarsi ad un piccione viaggiatore?
Scossi la testa, mentre prendevo proprio quella in cima, sciogliendo il fiocco che la legava e aiutandomi con entrambe le mani per poter tendere il foglio di carta, cercando di decifrare l'arzigogolata scrittura di Alaister. Non fu troppo difficile. Quello che sembrò più arduo, fu comprendere il significato della missiva.
"Presto incontrerò la guardia che mi hai nominato, a cui invierò una somma di denaro abbastanza generosa da desisterli alla tentazione di stuzzicarlo. Non gli accadrà nulla di troppo violento, dobbiamo farlo vivere il più a lungo possibile. Lui ti serve, non è vero? L'importante è che Helias Bloomwood rimanga sotto il nostro controllo. Il sig. Pevensie stava per tirarci un brutto scherzo. Non ti allarmare, sono sicuro che presto qualcosa accadrà ed è in quel momento che interverremo."
L'unica cosa che riuscii a capire fu che quella busta che Alaister aveva consegnato al soldato non conteneva affatto una lettera, ma soldi. Soldi per corrompere le guardie in modo che non facessero del male ad Helias.
Girai il foglio: il destinatario, a quanto pareva, era un certo sig. Kavendish. Il nome mi sembrò, chissà perché, stranamente familiare. Scossi di nuovo la testa e presi la seconda pergamena. La lettura fu ancor meno chiara, ma non mi lasciai scoraggiare dalla cosa. Dovevo continuare a leggere. Nonostante ciò, ebbi la strana impressione di star trascurando un dettaglio d'importanza quasi vitale. Presi la terza pergamena, poi la quarta, continuando a leggere finché tutto non iniziò ad assumere un senso. Finché Alaister non incominciò a sembrar più chiaro, a parlare in maniera più esplicita. Ed io inorridii, perché quello che diceva non poteva essere vero.
Poi all'improvviso capii dove avevo sentito il nome Kavendish. Ero stato così sciocco a non pensarci. Certe volte, si trascura proprio ciò che si ha sempre sotto al naso: quell'enorme castello di cristallo che getta una lugubre luce azzurra per tutta Skys Hollow. Ai cittadini però non importava che lui avesse un cognome o un nome, tutti lo chiamavano Re. Il Re di Darlan era il signor Kavendish. Colui a cui Alaister scriveva, collegati in quel serrato rapporto epistolare.
La nausea mi assalì tutta insieme, quando i miei occhi si fermarono sulle righe di quell'ultima pergamena, la più vecchia, apprendendo l'inquietante verità. Ora capivo perché Alaister, con quegli occhi così surreali, non fosse mai stato ucciso dal Re, che aveva iniziato una vera e propria persecuzione verso qualsiasi cosa o persona fosse collegata alla magia. Ora capivo perché Alaister fosse così tremendamente sicuro di sé. Perché fosse così ossessionato da Helias. E perché il Re fosse ritenuto così terrificante.
La verità era terribilmente assurda e, al tempo stesso, era stata in grado di chiarire tutto con micidiale precisione.
La verità è che Alaister è...
La porta cigolò, piano. Quel singolo rumore gettò un tale panico dentro di me che sobbalzai, facendo cadere a terra una cascata di pergamene, che io mi affannai a raccogliere cadendo miseramente in ginocchio. Però, poi, il suono di un passo contro il parquet bastò per farmi gelare il sangue nelle vene. Non mossi un solo muscolo, ben consapevole che nascondermi non sarebbe servito a nulla. Ero stato scoperto. Ero stato scoperto e ora non potevo far altro che raccogliere il coraggio per affrontare le conseguenze.
Ma come potevo farlo, dopo quello che avevo appreso?
In un attimo vidi le scarpe di Alaister davanti alla visuale e, con il panico che mi devastava dall'interno come un tornado in un villaggio di capanne di paglia, alzai la testa verso di lui, che mi guardava fisso, tenendo la testa inclinata per scrutare gelidamente i miei occhi.
- Hai letto. -
Non sapevo se si trattasse di una domanda o di una affermazione. Nonostante ciò, pur tremando come una foglia dalla testa ai piedi, mi rialzai ignorando tutta quella carta arrotolata, tutti quei nastri di velluto. Restai dritto, preparandomi a fronteggiarlo.
- So cosa sei. Cosa siete. -
Non chi, ma cosa. Cercai di sfoggiare un tono colmo di determinazione, uno sguardo combattivo che Helias avrebbe ostentato molto meglio di me. Strinsi i pugni. Eppure, quando quella micidiale risata lugubre risuonò per lo studio, mi venne voglia di nascondermi sotto alla scrivania. La mia bocca si fece secca all'improvviso, reclamando una sola goccia d'acqua fresca che lì, davanti a quell'uomo, non avrei trovato.
- Accidenti. Ora dovrò ucciderti. - rispose, con un tono quieto e ghiacciato che ricordava il freddo silenzioso dell'inverno, che uccide senza farsi sentire.
Per un momento pensai quasi che stesse scherzando. O forse sperai. Ma quando scrutai nel fondo di quello sguardo giallo topazio, trovando irrimediabile e spietatissima serietà, capii che quella era una terribile verità.
Il respiro mi si bloccò in gola e, per la prima volta nella mia vita, capii come si dovevano sentire tutti gli obiettivi di Helias il momento esatto in cui comprendevano che la persona che avevano di fronte era stata mandata per ucciderli. Una sorta di strano singhiozzo mi nacque sulle labbra e sparì nello stesso istante, mentre le gambe tremavano un attimo prima di slanciarsi per iniziare la fuga.
Poi, iniziai a correre.
Guizzai accanto alla scrivania e incespicai sul tappeto persiano, quasi cadendo di faccia a terra. Ma mi rimisi in piedi all'istante, aggrappandomi alla porta dello studio che si spalancò con un rumore devastante, le pantofole contro il parquet minacciavano di farmi scivolare ed io mi aggrappavo alle pareti per non cadere, correndo sempre più velocemente. Con il fiato che si alzava e abbassava, la risata del Re degli Assassini che mi si ripercuoteva nelle orecchie e lo schiocco della porta d'ingresso che si apriva e poi richiudeva alle mie spalle, persi la pantofole e proseguii scalzo sulla terra, ansimando così forte che temevo di perdere i polmoni. Qualche rivolo di sangue mi scivolò dalle labbra e io continuai a fuggire, senza sapere realmente dove andare, senza guardarmi indietro.
Ero perso. Non avevo posto in cui rifugiarmi: il bosco si diradava davanti a me ed io mi infiltrai all'interno cercando di non gridare dal dolore ogni volta che calpestavo qualcosa di appuntito.
Poi, dopo quegli attimi interminabili di irragionevole fuga, scrutai quel frammento di sole fra gli alberi e capii che quella era l'ultima volta che l'avrei visto. Era l'ultima che mi sarei ricordato di Helias, che mi sarei ricordato di Yul. L'ultima volta che avrei pianto per loro, l'ultima volta che mi sarei opposto ad Alaister, l'ultima volta che avrei sperato per un futuro di libertà. Un orizzonte di ultime volte mi si spalancò davanti e mi venne voglia di impugnare una pietra, di voltarmi per combattere.
Non volevo morire.
Mi resi conto che non volevo morire. Dio, non volevo.
Mi rialzai in piedi, con un grido di frustrazione, mentre pensavo alla verità. Alaister ci aveva ingannato tutti. Eppure, nessuno sarebbe mai arrivato ad una tale conclusione, poiché talmente assurda che avrei preferito credermi pazzo, piuttosto che accettare quella storia. Ma tutto combaciava. Ed io stavo per morire.
E i passi di Alaister incombevano.
- No... No. - sussurrai, riprendendo a correre, sperando che una carrozza, un cavallo, qualsiasi cosa spuntasse in mio soccorso per aiutarmi. Per darmi una via di fuga. Poi, però, gli alberi si scostarono, il bosco sembrò giungere al suo tragico finale ed io lo vidi.
Spalancai le labbra, scuotendo la testa, incredulo, sbigottito. Sbiancai.
- La corsa è finita, Lysandro? - disse una voce alle mie spalle, con un'aria d'allegra inquietudine, macabra, così oscura che mi fece accapponare la pelle.
Non mi voltai. No, perché anche guardando avanti non avevo via d'uscita: alla fine del bosco, c'era un profondo crepaccio che si spalancava su una voragine così profonda che, se avessi urlato, la mia voce sarebbe riecheggiata verso il fondo fino a sparire del tutto.
Fra il crepaccio e Alaister, ovviamente, c'ero io. Dovevo soltanto scegliere che cos'era peggio e affrontarlo.
E morire.
Così mi voltai verso di lui, stringendo i denti, asciugandomi la bocca insanguinata con il lembo della manica e fissandolo, fissandolo per la prima volta senza avere paura. Anche se stavo per morire, la paura non sarebbe mai stata l'ultima sensazione provata. Non lo avrei permesso. No. Mai.
- No. Non è finita qui, Alaister. - sibilai, indietreggiando poiché lui non faceva che camminare, sempre più avanti, come se avesse voluto inglobarmi nella sua ombra scura e sporca. Non sarebbe mai finita, neanche dopo la mia morte. Perché io sapevo che cos'era e non l'avrei dimenticato.
- Lyle, non immaginavo potessi mostrarmi quello sguardo. - sussurrò, con uno di quei sorrisi agghiaccianti che ti inducevano a scappare, o per quelli come Helias, a sfidarlo. Strinsi le palpebre, come se avessi voluto metterlo a fuoco, o magari dagli fuoco. Indietreggiai talmente tanto che sentii il tallone toccare l'orlo del dirupo.
L'orlo della fine.
- No. Perché ora che conosco la verità, so che ho ancora speranza. - Strinsi i pugni, fino a conficcarmi le unghie nei palmi delle mani. Voltai il viso da sopra ad una spalla, sbirciando la profondità della voragine dietro di me. La morte non mi avrebbe fatto perdere quella speranza.
Sollevai lo sguardo sul Re degli Assassini e lo guardai per la prima volta negli occhi con la sicurezza che, prima o poi, l'avrebbe pagata. Avrebbe pagato la morte di Yul. Avrebbe pagato per il male che aveva fatto ad Helias. Avrebbe pagato per le mie sofferenze.
Poi, le mie ultime parole, furono: - Perché la mia fine sarà l'inizio della tua. -
E mi buttai nel vuoto.
❃ ❃ ❃ ❃ ❃
Epilogo
Per Trill, la guarda del corpo del Re degli Assassini, era una giornata assolutamente uguale alle altre. Nessuno si era chiesto perché il loro padrone fosse tornato senza il suo giocattolino a Skys Hollow, a nessuno importava. Perché le cose andavano avanti lo stesso: Alaister Noir aveva incontrato uno dei suoi soci poco prima dell'ora di pranzo, aveva spedito un plico di lettere e diverse pergamene per mezzo di un messaggero e, dopo la consumazione del suo pasto, aveva incontrato nel suo ufficio un mercante che stava iniziando a far circolare un nuovo tipo d'arma che aveva affascinato quell'assassino sin da subito: armi da fuoco, pistole, fucili. Così le avevano chiamate.
Adesso, a quanto sapeva, doveva essere solo davanti alla sua scrivania, a controllare documenti mentre sorseggiava il tè pomeridiano fra una missiva e l'altra. Forse era meglio che non ci fosse nessuno, assieme a lui, perché quando Trill lesse il titolo ben stampato sulla prima pagina del quotidiano che gli consegnò un messaggero trafelato, già immaginò la sua reazione.
Invece, la propria reazione fu un intrico di meravigliosa incredulità e una gioia così grande che per la prima volta, nella sua vita, si ritrovò a sperare che un nemico del suo padrone vincesse e ottenesse la sua vendetta. Il grande omaccione con una smorfia in faccia e troppe cicatrici per contarle, si ritrovò ad avere gli occhi lucidi per una persona che l'aveva sempre odiato.
Ma si costrinse a ritornare alla sua solita espressione dura, sbattendo gli occhi mentre bussava una sola volta all'ufficio del Re degli Assassini, aprendo piano, lentamente, quasi volesse gustarsi il cambio d'espressione che presto ci sarebbe stato.
- Signore, il giornale di oggi. -
I suoi passi pesanti risuonarono piano, accorciando fatalmente il tempo che si esauriva fra la calma e la furia che Alaister avrebbe provato. Un passo. Due passi. E poi tre, mentre posava il giornale sulla scrivania, sopra a tutti i documenti, con la prima pagina in bella vista.
- Con permesso. -
E si voltò, con un sorriso stampato sul viso, quando il Re degli Assassini prese con la mano sinistra il giornale, rivolgendo la sua attenzione al titolo, mentre sorreggeva con la destra la tazzina di porcellana. Ci furono cinque secondi di silenzio.
Cinque secondi di silenzio in cui lui lesse il titolo in grassetto, ad enormi caratteri, in cima alla pagina. Cinque secondi di silenzio in cui cercò di rileggere, sperando d'aver preso un abbaglio. Cinque secondi di silenzio per assumere la consapevolezza che quello che c'era scritto equivaleva alla realtà. Ed un solo secondo in cui Trill si richiuse la porta alle spalle, appena in tempo per sentire la tazzina infrangersi rabbiosamente contro quella stessa porta.
Sorrise.
Sì, sorrise, perché sulla prima pagina di quel giornale, in caratteri cubitali, c'era scritto:
"SFAVILLO FUGGE DA ENDER: LA FINE DELLA LEGGENDA O SOLO L'INIZIO?"
❃ ❃ ❃ ❃ ❃
L'ultimo angolino di questa storia ~
Hola a tutti, cari lettori!
Quando finisco una storia mi sento un po' triste, come se salutassi una parte di me, ma anche questa doveva incontrare la sua conclusione! Lo so, come sempre avete confermato il mio sadismo. Che dire? Ve lo aspettavate oppure no? Mi volete uccidere o siete contenti? Volete formulare qualche teoria o non avete la più pallida idea di quale sia la verità che coinvolge Alaister&co? In questo capitolo finale vorrei ringraziare giuli_milani che mi ha fatto da beta per questa volta e perché mi ha tirato maledizioni tutte le volte! Grazie! <3 Comunque, dopo ciò ci sarà la continuazione di Sfavillo - presto spero - e se volete vi avviserò per messaggio, per cui scrivetemi se volete che lo faccia! Avviserò anche i lettori storici di Sfavillo, così farò la brava per tutti. Che altro?
Spero che la storia vi sia piaciuta, ci si vede con il seguito delle Cronache dell'Assassino! ^_^
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