Il primo cliente
Ogni volta che facevo il mio ingresso nel bordello, mi sentivo come se stessi varcando i cancelli di un cimitero. Arricciai il naso in un moto di disgusto, mentre l'intensa fragranza di rose pervadeva l'aria con violenza.
Posai lo sguardo sui tavolini di legno intarsiato, sui quali erano adagiati vasi in porcellana contenenti diversi mazzi di rose rosse. Pareva il matrimonio di qualcuno, o, a seconda dei pareri, anche il funerale. Ma in realtà si trattava di un giorno comune. Solo sapere quanto Sophia spendesse ogni giorno in fiori, rendeva una minima idea dello sfarzo del bordello.
Camminai silenzioso sulla moquette rossa, con le mani lungo i fianchi che sfioravano gli aderenti pantaloni di cuoio, di un tenue colo kaki, abbinati ad un panciotto color crema e ad una camicia di seta di un pallido azzurro.
Alcune cortigiane stravaccate su poltroncine in pelle rossa, colore ricorrente nel bordello, mi fecero un cenno della mano mentre, con le gambe accavallate e scoperte dagli spacchi dei vestiti, fumavano lunghi sigari. Altra roba costosa.
Ricambiai il gesto con molta noncuranza. Non è che non avessi un bel rapporto con loro, ma ognuno pensava ai propri affari, e si andava avanti secondo il sano principio del "vivi e lascia vivere".
Chiaramente c'era chi preferivo e chi meno. Alcuni mi istruivano e mi educavano, con altri invece si creava grande competizione.
Un esempio lampante era quello del ragazzo che se ne stava con le spalle ampie appoggiate contro la porta della mia camera da letto, a braccia conserte, ad osservare un punto indefinito del corridoio con un cipiglio corrucciato. Era uno dei cortigiani più famosi e più richiesti del mio bordello. Ed era assolutamente un bel tipo: carnagione bronzea, di una particolare sfumatura dorata, come una di quelle persone che passano l'intera vita a prendere il sole, caldi occhi nocciola screziati di una strana tonalità di verde-azzurro simile ad una pietra di giada, corti capelli biondo cenere e un neo al lato della bocca a dargli un aspetto sofisticato. A completare il tutto, il corpo muscoloso al punto giusto gli conferiva un'aria di perfezione assoluta.
Ecco, con lui non scorreva esattamente buon sangue. C'era certamente spirito di competizione, ma non si trattava di clienti. Anzi, in quell'ambito eravamo piuttosto distanti: lui era nel mirino delle signore di una certa età, affamate di giovani avvenenti da cui poter essere violate ripetutamente; io invece in quello di vecchi depravati, alla ricerca di gracili fanciulli da violare ripetutamente. Non si poteva certo dire che ci calpestassimo i piedi a vicenda. Tuttavia, il motivo della nostra competizione altri non era che Sophia. Quella donna egoista, cinica ed egocentrica, colei che decideva se trattarci come re o buttarci in qualche orgia fra animali, era la sola persona che faceva la differenza fra la nostra vita e la nostra morte. Accattivarci i suoi favori era il nostro principale obiettivo.
Quando mi avvicinai alla porta, lui fece pressione con una mano sulla superficie di legno, per impedirmi di aprirla.
- Che vuoi, Axe? - chiesi, mentre afferravo la maniglia e la giravo. Il mio tono non era brusco, semplicemente annoiato.
- Proprio niente. - disse, restando appiccicato alla porta con le sopracciglia aggrottate in un'espressione accigliata.
- E allora togliti. - continuai, sospirando. Lui alzò gli occhi al cielo e si scostò, spostando le spalle dalla porta al muro lì accanto.
Entrai senza dire nulla, aprendo la porta per poi sfilare da sotto all'imponente letto a baldacchino un baule piuttosto capiente, che tenevo sempre pronto per quell'evenienza, come se sapessi che presto o tardi qualcuno mi avrebbe comprato e portato via come un pacco postale.
A quel punto, il biondo entrò senza tanti di giri di parole, con le braccia incrociate sul petto muscoloso, gli occhi nocciola stretti in due fessure e la bocca arricciata in una smorfia. Lo ignorai, mentre mi giravo verso il guardaroba e fissavo con espressione indifferente le pile di vestiti lussuosi, senza degnarlo d'uno sguardo. Ma lui rimase in silenzio, a guardarmi con quell'espressione grave.
- E quindi ti sei fatto comprare da Alaister Noir. - disse, il tono che trasudava freddezza. Per alcuni minuti non risposi, mi limitai semplicemente a far scorrere le mani fra i vestiti, per giudicare quali fossero più adatti.
- Sì, è così. - risposi, secco, prendendo una camicia e gettandola senza molte cerimonie nel baule. Mi diressi nuovamente verso gli abiti, prendendo a sfiorare con la punta delle dita i tessuti e le forme, come se avessi potuto entrare nei colori stessi, capire quando furono stati confezionati e da chi. Rimasi a fissarli con uno sguardo assente, forse un po' assorto, come se avessi voluto contare ogni singola fibra di ogni singolo abito.
Volevo che la smettesse di guardarmi in quel modo. Come se il fatto che Alaister mi avesse comprato fosse colpa mia. Come se non fosse già tutto abbastanza disgustoso. A me non importava cosa pensava. Eppure, mentre mi guardava con quella strana forma di disappunto, io mi sentivo terribilmente sporco.
All'improvviso, chiusi gli occhi, presi un respiro e mi girai verso di lui. Averlo davanti mi faceva capire che dovevo affrontare la realtà. Anzi, mi sembrava quasi che quel ragazzo stesso incarnasse la realtà da affrontare, maggior ragione se mi rivolgeva quello sguardo. E, mentre mi voltavo, i miei occhi intravidero oltre la curva sinuosa del letto, la porta, la maniglia dorata, la moquette rossastra un po' più scura in un punto preciso del pavimento. Poi, nel soffermarmi sui suoi occhi, nell'immergermi in quella screziatura color giada, sorrisi e ricordai.
La donna dalla manicure perfetta mi posò le mani sulle spalle, apparentemente con cortesia, quando in realtà mi stava conficcando le sue maledette unghie nella carne. Ce ne stavamo davanti ad un lungo specchio, lei con un perfetto sorriso ammantato da una falsa eleganza e cortesia su quelle labbra dipinte di rosso carminio, io con una linea spiegazzata all'insù che pareva tutto fuorché appunto, un sorriso. Una linea che presto andò ad aprirsi in un'espressione di completo stupore, davanti alla mia figura. Mentre Sophia mi conficcava le sue graziose unghie laccate di rosso nelle spalle, inclinata su di me a fissare con un ghigno di trionfo i nostri riflessi, io faticavo a riconoscermi.
Dove diavolo era finito il ragazzino sporco di fuliggine e immondizia? Di fango e polvere? Dove il ragazzino puzzolente e magro come un fantasma? Dove le ginocchia sbucciate? Dove i capelli sporchi e aggrovigliati in una matassa scomposta? E le ossa sporgenti?
Quello non ero più io.
I miei capelli erano ordinatamente pettinati in una linea al lato, lisci e morbidi come seta, tanto puliti da scintillare alla luce delle candele; la pelle, i denti e le unghie avevano assunto un colore madreperlaceo che credevo di non possedere neanche; i vestiti avevano un'aria così costosa e perfetta che temevo di strapparli ad ogni singolo movimento. L'unica cosa che rimaneva la stessa erano gli occhi. Anzi, mentre sotto lo strato di lerciume il verde del mio sguardo sembrava scintillare di furbizia, con questo "stile" sembravano piatti e mediocri. Come se, ad interpretare quella parte, quasi si stufassero e non mostrassero tutto il loro splendore.
Dal canto mio, non ero felice di come stavano andando le cose. Ero in un'ambiente totalmente immerso nell'opulenza, circondato da cibi pregiati e gustosi e vestiti sfarzosi e colorati, e tutto pareva perfetto e paradisiaco. Ma sapevo perfettamente dove ero capitato. Lo vedevo dalle espressioni delle donne che camminavano con la testa china, coperte di vestiti pregiati ed espressioni amare. Lo vedevo dalle facce sporche e lascive di chi entrava e, dopo ore e grossi sorrisi di soddisfazione, usciva.
Sophia si insinuò nei miei pensieri, distruggendoli con una passata leggera di mani lungo le mie spalle, a lisciare la seta del mio panciotto formato undicenne. Ritornai a guardarmi con espressione grave, la stessa espressione di chi si guarda le mani dopo aver commesso un delitto.
Indossavo una camiciola leggera, le maniche a sbuffo, il fiocchetto di seta rossa intorno al collo; sopra di esso un panciotto della stessa seta rossa che insisteva sulla moquette e sulle rose, sui capelli e sulle labbra di Sophia; un paio di pantaloncini neri di un bel tessuto, ma di cui non conoscevo il nome, sempre leggermente a sbuffo; i calzettoni neri di lanetta morbidissima alti fino ai pantaloncini, a lasciare giusto un filino di pelle delle gambe scoperta; ed infine degli stivaletti di una vernice nera così lucida da brillare, con i laccetti di seta rigorosamente rossa.
- Sei davvero molto bello, Lysandro. - disse, la bocca appena increspata in un sorriso di fintissima felicità, come se non fosse abbastanza palese la sua sensazione di trionfo nell'aver trasformato un sudicio topino di strada in uno dei suoi schifosi sgherri.
- Ti ho già detto di non chiamarmi con quel nome di merda, stronza. -risposi, con molta tranquillità, mentre continuavo a studiarmi nello specchio.
All'improvviso, mi ritrovai con la testa tirata all'indietro, le sue mani che mi strattonavano i capelli, le unghie che mi graffiavano.
- Signorina Sophia, sudicio... - iniziò, ma poi si zittì e si raddrizzò dalla posizione troneggiante su di me, per poi spolverarsi le mani sulla grande gonna di scintillante raso rosso sangue. - Hai bisogno di tempo per ambientarti, Lysandro. - Ripeté quel nome per l'ennesima volta, per poi iniziare ad allisciarmi i capelli con movimenti vigorosi e quasi violenti, accorgendosi del pasticcio che aveva fatto alla mia "fantastica" acconciatura.
- Oggi hai il tuo primo cliente. - riprese, dopo lunghi attimi di pesante silenzio. A quel punto, il panico mi si insinuò dentro prima in modo leggermente sottile, come se avesse voluto sibilarmi alle orecchie "il tuo primo cliente, il tuo primo cliente!" in una cantilena ripetuta mille e mille volte, come una canzoncina per bambini piccoli o un rito dalla dubbia religiosità. Dopo però, iniziai a sentirmi le viscere annodarsi e attorcigliarsi in un vero e proprio valzer di budella. Solo a quel punto, alzai gli occhi in quelli scaltri di lei.
- Non avevi detto che... che sarei stato... puro... fino ai diciotto anni? - La mia non era una domanda, era più un balbettio strascicato. Tutta la strafottenza di prima era andata a fare un balletto insieme alle mie budella.
E lei, di rimando, mi sorrise.
- Certo, Lysandro, la signorina Sophia mantiene sempre le promesse. - disse, la bocca rossa a sfoggiare quel sorriso di cattiveria pura. Si diceva che fosse una delle più care amiche del Re degli Assassini e, in quell'istante, non stentai neppure per un momento a crederci. Le mani presero a tremarmi senza che io neppure mi muovessi. Non mi muovevo perché ero assolutamente congelato. Sì allontanò con un fruscio di gonne, avanzando fino alla porta. - Vedi di fare il bravo, altrimenti... - non continuò la frase, mentre il sorriso le rimaneva sulle labbra piene e dipinte di rosso. - Sarà qui fra mezz'ora. - mi informò. Sbiancai.
- Mezz'ora. - Non lo dicevo a lei, era più un sussurro involontario uscito dalle mie labbra. Poi posò una mano sullo stipite della porta e solo allora disse la sua ultima, fatale frase.
- Caro, ci sono tante cose che si possono fare rimanendo puri lo stesso. - esclamò, appena prima di uscire dalla stanza canticchiando sottovoce.
Rimasto solo, resistetti al cadere sulle mie ginocchia solo perché ero troppo pietrificato. Aprii la bocca. Volevo urlarle qualcosa, magari dirle che era proprio una zoccola. Il che era vero, per altro. Però le parole non mi uscivano neanche, avevo la bocca secca, e sembrava che dalla gola mi uscissero rantolii confusi, piuttosto che suoni.
Il mio primo cliente. Primo.
Ma avevo solo undici anni! Che mi volevano fare? Cosa voleva dire, con "tante cose"? Iniziai a sentire un brutto rumore nella stanza, poi mi accorsi che erano i miei denti che battevano. A quel punto, come risvegliato da quel suono, sentii nella testa come una specie di miccia che faceva "buuuum". Un'esplosione.
Iniziai a rovesciare tutto quello che trovavo. Buttavo i tavolini all'aria, fracassavo i vasi ricolmi di rose rosse distruggendoli in minuscoli pezzi, disfacevo il letto gettando a terra le lenzuola, spargevo in giro le piume dei cuscini, e cercavo di ridurre qualsiasi cosa si trovasse fra le mie mani in poltiglia. Mi andava bene tutto, ma non un cliente.
Mi andava bene che mi vestissero come un damerino del cavolo, che mi cambiassero nome, mi dicessero come comportarmi e come esprimermi, che mi allontanassero dai miei amici.
Ma non ammettevo il fatto di avere un cliente. Di avere qualcuno che, fra mezz'ora, mi avrebbe toccato.
Sapevo di essere in un bordello, sì, ma speravo che, aspettando fino ai diciotto anni, qualcuno mi avrebbe liberato, portato via. Speravo di riuscire a fuggire in tempo. Magari speravo pian piano di farci l'abitudine e arrivare preparato per quel momento.
E invece, i miei piani crollavano in pezzi come quell'orrenda stanza di quell'orrendo posto. Il mondo crollava in pezzi e le macerie mi cadevano addosso sempre più velocemente, seppellendomi sotto di esse senza che io riuscissi più a liberarmi.
Girai la testa verso la porta e con la rabbia e la paura che mi montavano dentro corsi velocemente verso di essa, il passo tanto rapido da farmi quasi incespicare nei miei stessi piedi. Spalancai la porta, buttandomi precipitosamente nel corridoio illuminato dalla luce dorata e avvolgente delle candele. E fu così che andai a sbattere contro qualcuno, il viso più o meno all'altezza del suo basso ventre.
Feci un passo indietro, alzando la testa. La prima cosa che vidi fu un paio di occhi color cioccolato e delle pagliuzze di un lievissimo verde acqua, forse una sfumatura meno intensa dell'azzurro ma non per questo meno bella, che quasi vorticavano al suo interno. Un naso non troppo marcato ma elegante, delle labbra sottili ma definite nella forma di un cuore, un piccolo neo proprio lì accanto, all'inizio tranquillamente scambiabile per una lentiggine vagante. E poi la carnagione ambrata, di un bel color caramello, e i capelli di una sfumatura castana ma mielosa, di un biondo scuro che aveva mille sfumature. Doveva avere diciotto anni all'incirca, forse di meno e ne dimostrava di più, forse di più e ne dimostrava di meno.
- Oh, sei tu il famoso novellino? - chiese, le labbra aperte in un sorriso divertito ma non per questo derisorio. Anzi, in un certo senso coinvolgente. - Io sono Axel. Puoi chiamarmi Axe. - Ma non lo ascoltavo. Perché per il residuo di rabbia, per quel senso ancora crescente di paura e per la palpabile sorpresa, iniziai ad indietreggiare, le ginocchia che mi tremavano talmente tanto da sbattere l'una contro l'altra. - Ohi ohi... - Mentre io mi allontanavo rientrando nella mia camera da letto, lui invece faceva piccoli passi in avanti. -... Scommetto che sta arrivando il tuo primo cliente. - disse, alzando appena le sopracciglia, come se non vedesse l'ora di indovinare e ricevere la dovuta ricompensa per aver vinto la scommessa.
Ma io, sentite quelle parole, ricordata la realtà, percependo le budella ancora ballare e il cuore gridare, chinai il busto e vomitai. Sui miei bei stivaletti di vernice lucida ed anche sui suoi bellissimi stivali al ginocchio.
Lui non disse nulla, ma sbatté le palpebre per la sorpresa. Poi si guardò intorno e si rese conto del caos che regnava nella stanza, del caos che avevo prodotto io. E, mentre io ero convinto che fosse sul punto di urlare e prendermi a schiaffi, lui invece scoppiò a ridere.
- Diavoli, tu sì che darai del filo da torcere alla strega. - disse, esibendo un sorrisetto fra il divertito e, questa volta, anche il sardonico. Tuttavia, qualche attimo dopo, sospirò e si avviò nel bagno della mia stanza, riemergendo qualche secondo dopo con due asciugamani puliti. Me ne mise uno fra le mani, per poi chinarsi sulla pozza di vomito. Si sarebbe rovinato i bei vestiti. - Ascolta, non ti sto facendo nessun trattamento di favore. E' solo perché sei un novellino. - parlò, mentre prendeva a strofinare sulla moquette.
Sarebbe rimasta una bella macchia, indubbiamente. Rimase in silenzio per qualche istante, per poi spronarmi con un vigoroso cenno del capo ad aiutarlo con la pulizia. - Anche se non lo vuoi, non puoi sottrartene. - Non si riferiva alla pulizia, ne ero sicuro. - Anche se ti farà schifo, anche se in quel momento la voglia di vomitare sarà ancora più forte... - Alzò gli occhi castani nei miei, e credetti che i frammenti verdi all'interno dei suoi vorticassero.- Tu devi farlo. - Strofinò tanto forte da far sentire il rumore contro la moquette. - E' la vita e tu devi accettarlo e basta, altrimenti le cose peggioreranno soltanto. - Finì di pulire quella che lui doveva ritenere "la sua metà di vomito" e sbatté l'asciugamano a terra, mentre si rialzava - Perciò tu vivi, Lysandro. - concluse ed uscì.
Non gli chiesi come sapeva il mio nome, non ne ebbi il tempo. Lo guardai semplicemente andare via, con le ginocchia chine sul pavimento rosso e morbido, le mani a stringere la presa sull'asciugamano, la pezza nel mio vomito, il caos che dilagava nella stanza e dentro di me. Eppure, dopo quelle sue parole, mi sentii leggermente diverso. Come se avessi assunto l'amara consapevolezza di non avere più alcuna via di uscita in quella terribile realtà, ma al tempo stesso avessi una punta di coraggio in più per affrontarla.
Spostai gli occhi dall'alone rosso scuro della moquette e tornai nuovamente a lui.
- Mi ha comprato. - ripetei. - E' un problema per te? - E strinsi appena gli occhi, guardandolo in cagnesco. Di rimando, lui mi sbatté con forza una mano contro il petto, gesto che mi mandò a cozzare contro l'asse rigida del baldacchino.
- Sì, è un problema. - Mi guardò con una punta di rabbia e, in quel momento, ebbi la stessa ed identica sensazione degli anni prima: sembrava che i frammenti di giada nei suoi occhi vorticassero, mentre mi guardava. Fece un passo in avanti, intrappolandomi con la schiena premuta contro l'asse del letto. Mi prese per il bavero della camicia, mentre accorciava sempre di più la distanza che ci separava. In quel momento, non negai di aver abbassato lo sguardo sulle sue labbra, così come non mi sfuggì che l'avesse fatto anche lui. - Perché se ti hanno comprato dovresti rimanere con chi sei. - disse, sibilandolo quasi contro le mie labbra. E poi mi lasciò andare con uno strattone, allontanandosi. - E non intrattenerti con le clienti degli altri. - aggiunse, stringendo gli occhi. Aggrottai le sopracciglia, confuso.
- Ma di che stai parlando? - chiesi, mentre la confusione lasciava spazio alla rabbia. Mi voltai verso il guardaroba e strappai un vestito dalla gruccia per poi sbatterlo violentemente nel fondo del baule. Poi ritornai a guardarlo, gli occhi iniettati di furia. - Sai, in questo momento sto già facendo fatica a gestire il MIO, di cliente! - Aprii le braccia con foga, come a dare enfasi alle parole. - Non ho proprio il tempo di - Mimai delle virgolette - intrattenermi - le braccia caddero sbattendo contro i fianchi. - con le clienti di chi ti pare! - ringhiai, stringendo i pugni.
- Ah sì, allora perché non parli con la tua adorata Sophia? -
- E' quello che farò. -
- Sai cos'ha fatto? Sai cos'ha intenzione di fare? - chiese, ma non era una domanda, era il suo tentativo di mettermi la pulce nelle orecchie.
- NO! - Mi misi le mani nei capelli e poi le risbattei contro le mie gambe, in un gesto di rabbia. - E non me ne frega niente, io non faccio più parte di questo posto! - Indicai il baule. - Me ne vado! - E lo richiusi con un tonfo fragoroso che doveva far capire tutto il fastidio che provavo in quel momento.
- E invece dovresti sapere in cosa ti coinvolge la tua dannata mammina! - sbottò, afferrandomi i polsi e stringendoli tanto forte da farmi defluire il sangue dalle vene, obbligandomi a guardarlo in faccia. Scossi la testa.
- Non lo voglio sapere, lasciami in pace, ok? - Continuai a scuotere il capo, ma lui mi sbatté contro il muro, sempre con la stessa rabbia precedente. - Tu mi hai detto che non posso sottrarmene, anche se non voglio. - Non mi accorsi che, mentre parlavo, le mie parole sembravano assomigliare sempre di più ad un gorgoglio di pianto. - Anche se mi fa schifo, anche se mi viene voglia di vomitare... - Sentii qualcosa di freddo scendermi dagli occhi. - Io andrò a vivere nella Fortezza di Alaister Noir. E ci resterò. - La sua presa attorno ai miei polsi si indebolì. - E vivrò, come mi hai detto di.. - ma non continuai la frase, perché lui mi afferrò il mento e mi baciò.
Dapprima semplicemente posò le sue labbra sulle mie, ma poi premette forte, le mordicchiò e le leccò, costringendomi a schiuderle. E dopo insinuò la sua lingua dentro la bocca, facendola incontrare con la mia, attorcigliandola. Invece che stringere i miei polsi, si spostò sulle mani e le sbatté contro il muro, quasi intrappolandomi contro di sé. E con quel bacio quasi riuscì a farmi dimenticare cosa eravamo, a chi appartenevo, a quale destino eravamo destinati. Chiusi gli occhi e attorcigliai le dita alle sue, stringendo forte le sue mani, ricambiando con foga il bacio.
Ma poi mi accorsi di quanto era sbagliato e mi divincolai. Lui non oppose resistenza, lasciò che scivolassi via. E, mentre lo facevo, lo guardai per un brevissimo istante, strofinandomi il dorso della mano sulla bocca. Presi il baule dal manico laterale e lo trascinai giù dal letto, dandogli le spalle, pronto ad uscire dalla stanza.
- Non tornerò. - lo informai. E lui non disse nulla, semplicemente rimase a guardare il muro, lasciandomi andare.
Una volta all'esterno, mi dovetti appoggiare alla parete del corridoio per non cadere. Turbato, amareggiato, sconvolto e persino intristito, sentivo che tutte quelle sensazioni mi sovrastavano ed erano pronte a farmi vacillare e cadere. Chiusi gli occhi, mi presi un attimo per respirare, poi mi accorsi delle occhiate confuse delle varie cortigiane che passavano nel corridoio e mi costrinsi a darmi un contegno. Mi raddrizzai, mi riempii i polmoni con un grosso respiro e iniziai a camminare.
Con il baule mezzo vuoto che mi trascinavo dietro, il passo abbastanza veloce da riuscire ad evitare tutte le presenze moleste che non desideravo certo incontrare e il naso irritato dall'odore intenso e nauseabondo di rose, avanzai per il bordello fino alla porta d'entrata, convinto di poter uscire senza incappare in Sophia. Ma, sull'onda di quel pensiero, una voce mi bloccò.
- Mio dolce Lysandro! - esclamò, la voce fastidiosamente civettuola e familiare.
- Sophia! - dissi, mentre mi voltavo, pronto a mettere su quel sorriso e quell'aria da odiosetto che mi era insopportabile e che usavo tutte le volte anche davanti ad Helias. - Che piacere! - continuai a vezzeggiarla, immergendo i miei occhi verdi nei suoi, per poi scrutare gli ampi boccoli rossi.
- Come mai sei qui? - chiese, la voce permeata da quello strato di felicità materna che non poteva essere più finta. Abbassò gli occhi sul baule. - Te ne vai? - Stesso e identico tono di prima, ma c'era una nota stridula in più che non passò inosservata alle mie orecchie.
- Sì, esattamente. Mi trasferisco alla Fortezza, com'è giusto che sia. - Anche per me, stesso tono dolciastro ed odioso di prima, ma con una punta di trionfo.
Lei si avvicinò, l'adorabile gonna di pizzo lilla frusciò contro la moquette. Mi posò una mano sulla spalla, le unghie lunghe e fastidiosamente curate che potevano essere percepite anche attraverso alla camicia.
- Hai assolutamente ragione, mio piccolo tesoro. - disse, il sorriso piegato in un'angolazione sinistra. - Tuttavia, ho delle comunicazioni da farti. -
- Certo, però ti pregherei di raccontarmi rapidamente, dovrei tornare nella mia nuova casa. - Ed indicai con un dito il baule, mentre il mio sorriso si ampliava. Mi faceva senso chiamare la Fortezza dell'Assassino "casa", ma era evidente quanto tutto quello, le parole, i gesti, fosse studiato per provocarla. Eppure lei non si scompose.
- Allora sarò rapidissima. - Anche il suo sorriso si fece più evidente sulle labbra truccate da un abbondante strato di lucido. - Ho una cliente per te. -
Il sorriso mi morì sulle labbra. Ed ecco che il discorso di Axe assumeva un senso.
- Ma... ma io non faccio più parte di questo bordello... -Evidentemente non era la cosa giusta da dire, ma la dissi lo stesso. E lei sbatté le ciglia orlate di mascara molto, molto lentamente.
- Lo so, ma ora fai parte delle proprietà di Alaister Noir. - E sorrise, scaltra, lo stesso sorriso di quella volta, quando mi comunicò dell'imminente arrivo del mio primo cliente. - E per sciogliere il suo debito ed essere definitivamente libero, hai bisogno di soldi. - Si fece di un passo ancora più vicina, posando anche l'altra mano sulla mia spalla. - Ti sto offrendo una possibilità, Lysandro. Non sarai neanche più collegato al bordello, non dovrai darmi nulla. - Si arrotolò un boccolo rosso attorno al dito. - Prendilo come... un modo per ribellarti alla possessività di Alaister. - E qui i suoi occhi andarono ad assottigliarsi, il sorriso a farsi ancora più grande, le mani ad accarezzarmi i punti su cui si posavano.
Non mi colpì tanto il fatto di "non essere collegato al bordello", o il fatto che non le dovessi nulla, così come del pensare ad un futuro libero.
Ciò che rimase nelle mie orecchie era la parola "ribellarti". Il bambino sporco e sudicio che c'era dentro di me moriva dalla voglia di farlo. Anche se, in fondo al mio cuore, lo sapevo che era tutta una trappola di Sophia. Anche se sapevo che ci sarebbero state gravi conseguenze. Anche se sapevo che Alaister Noir me l'avrebbe fatta pagare.
Guardai la tenutaria del bordello e sorrisi.
- Ribellarmi? Dimmi come. -
- Angoli notturni/albeggianti di un'autrice... *censura* -
Non ci sono parole per dire quanto io sia terribile! Per cui andiamo avanti, vi lascio quest'angolino per bestemmiare:
Fatto? Bene! Anche perché sono rimasta sveglia fino alle 4.25 per pubblicarvelo! La paura di riperdere l'imput mi ha spinta a farlo. E ora lo so che chi seguirà l'altra storia dirà: quando aggiornerai? E io vi risponderò: il più presto possibile! (Contate che domani parto per una decina di giorni)
Che dire? Mi siete mancati, mi è mancato scrivere! Spero che il capitolo, anche se dopo mesi, vi sia piaciuto!
Alla prossima ^^
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top