Giorno Novantatré
Era pieno pomeriggio, il sole era alto nel cielo e faceva davvero caldo. Sembrava quasi che l'estate fosse arrivata tutta d'un colpo e senza preavviso.
Mia madre aveva lasciato aperto le porte del balcone, in modo che potessero fare un po' di corrente e portare un po' di brezza dentro l'appartamento.
Papà era da tutta la mattina che si stava lamentando per quel caldo anomalo.
«Quest'estate cuoceremo come dei polli alla griglia, se continua così», borbottava seduto davanti alla televisione.
«Smettila di lamentarti», continuava a ripetergli la mamma.
Io ero seduta al tavolo e stavo controllando i danni che avevo causato al mio cellulare quando l'avevo lanciato due sere prima.
«Cosa hai combinato con quello?», mi chiese la mamma entrando in cucina.
«Niente.»
«Le hai prese le medicine?»
«Sì.»
«Sicura?»
«Mmh mmh», risposi senza alzare lo sguardo su di lei e limitandomi ad annuire.
La sentii sospirare, probabilmente si era accorta che le buttavo sempre via, ma non mi disse nulla a riguardo.
«Perché non ti metti fuori a fare un po' di esercizio fisico?»
«No», risposi lapidaria.
«Dai, come eri solita a fare una volta... Tu e Elis –»
«HO DETTO DI NO. NON MI METTERO' A FARE DELLO STUPIDO YOGA SOLO PERCHE' UNA VOLTA LO FACEVO CON QUELLA STUPIDA DI ELISA», urlai alzandomi in piedi di scatto e andando in camera.
«Olivia!», mi chiamò mia madre correndomi dietro.
Chiusi la porta a chiave e emisi un urlo di frustrazione.
«Olivia, ti prego», mia madre disse bussando alla porta. «Non volevo farti arrabbiare... Scusami.»
«VATTENE», tirai un calcio alla porta e poi mi lasciai cadere sul letto.
Odiavo tutti loro.
Perché non volevano capirlo che la ragazza che ero un tempo non esisteva più? Che l'avevano uccisa tutto ciò che aveva dovuto sopportare nell'ultimo mezzo anno?
Incredibile come si possa passare da amare alla follia qualcosa ad odiarla con ogni singolo pezzettino si sé stessi.
Io avevo amato Marco. Avevo amato Elisa, lo yoga, l'inglese, il colore del cielo al tramonto, il cinguettio degli uccellini all'alba dei giorni primaverili, il sale che ti rimane sulla pelle e te la fa tirare dopo aver fatto il bagno nel mare. Avevo amato camminare senza meta per Roma, i turisti che si meravigliavano della mia città con il naso rivolto verso l'alto e la bocca aperta per lo stupore. Avevo amato la vita così tanto, e così intensamente che adesso non sapevo più a che cosa aggrapparmi.
Tutto mi si era rivoltato contro. Tutto.
Ma sono stata io la stupida, me lo sentivo, era nell'aria. Per settimane avevo tirato avanti continuando a ridere anche se l'unica cosa che volevo fare era piangere. Fingevo di essere felice, ma sapevo che c'era qualcosa che non andava, e poi è successo.
È bastata una stupidissima notte e una ancora più stupida festa per farmi capire che niente della mia vita era reale.
E quella maledetta foto di Elisa su instagram ha aggiunto dolore al dolore.
Non sono mai stata la priorità per nessuno.
Ci pensate mai? Avere amici eppure sapere allo stesso tempo che se mai loro dovessero scegliere una persona da salvare nell'apocalisse, sicuramente non sareste voi.
Fa male. Un sacco.
Un rumore di qualcosa che viene trascinato a terra mi fece tornare con la mente alla mia stanza.
Guardai fuori dalla finestra e vidi Federico in pantaloncini corti e maglietta spostare una panca per fare pesi da dentro casa a fuori sul balcone.
Uscii in terrazza passando dalla finestra e mi avvicinai alla ringhiera.
«Ciao», dissi.
«Ciao Olivia!», rispose lui continuando ad armeggiare con un bilanciere.
Non parlai per un po'. Mi limitai ad osservarlo e a cercare di capire che cosa stesse facendo.
Sul tavolo aveva una borraccia, dei pesi, una corda e una scatola blu.
«Sei pronta?», mi chiese con un sorriso, afferrando la scatola blu.
«A far cosa?», chiesi aggrottando la fronte.
«Ad allenarci.»
«Scordatelo.» Ci mancava solo lui.
«Ok...», disse senza perdere il sorriso. «Allora ti promuovo a dj per la mia sessione di allenamento.»
Alzai un sopracciglio. «E cosa dovrei fare?»
«Collega il tuo telefono a questa», rispose indicandomi la scatola blu.
«Cos'è?»
«Una bomba», rispose serio.
Lo guardai interdetta e lui scoppiò a ridere. «È una cassa Bluetooth, ti stavo prendendo in giro.»
«L'avevo immaginato, genio», ribattei facendogli la linguaccia. «Aspetta, vado a prendere il telefono.»
Scavalcai la finestra e andai a cercare il mio cellulare. Quando lo trovai tornai fuori sul balcone: Federico si era seduto sulla panca e si stava accendendo una sigaretta.
«Cosa fai?!», gli gridai. «Non puoi fumare adesso!»
«Pensavo ti fossi persa là dentro», disse lui scrollando le spalle e poi posando la sigaretta nel posa cenere.
«Come si chiama la cassa?»
«ChargeIntel», rispose lui accendendola e posandola sul tavolo.
Quando il mio telefono si connesse, mi sedetti a terra, entrai su Spotify e urlai: «Sei pronto?»
«Son nato pronto», esclamò lui iniziando a fare un po' di stretching con le braccia.
Io cercai una delle canzoni che più mi caricavano e la feci partire. La musica si sentiva forte e chiara, segno che la sua cassa portatile doveva essere davvero buona.
«Non ti facevo tipa da Kanye West», rise lui prendendo la corda.
«Stronger è la canzone migliore per riscaldarsi», dissi. «Adesso però basta perdere tempo. Su!»
Lui rise di nuovo e iniziò a saltare. La corda girava talmente veloce che faticavo quasi a vederla, e lui continuava a saltare come se nulla fosse. Sarebbe stato divertente vederlo inciampare, mi sarei fatta una grossa risata.
Eravamo già a metà della seconda canzone quando posò la corda e si avvicinò alla panca con i pesi.
«Olivia, mi serve una canzone nuova per fare questo.»
«Ho giusto quella che fa per te», ghignai, iniziando a scrivere il titolo nella barra della ricerca.
Lui si sistemò, sdraiandosi e controllando che tutto fosse a posto.
Girls Just Want to Have Fun iniziò a diffondersi nell'aria proprio mentre Federico iniziava ad alzare i pesi, e nonostante la distanza notai l'espressione di disgusto sul suo viso.
«Ma che roba è?», si lamentò, senza però fermarsi.
«È un capolavoro», ribattei con un sorriso. «Zitto e continua ad allenarti.»
Lui non rispose, probabilmente troppo concentrato a tirare su i pesi.
«Uno...», iniziai a contare.
«Ehi, ehi... sarò già... a... 10!», disse tra uno sforzo e l'altro.
«Non li stai facendo bene e non fai altro che lamentarti, per questo si ricomincia», mi alzai in piedi. «Uno...»
«Ma –»
«Uno...», ripetei per fargli capire che avrei cominciato da uno anche all'infinito se necessario.
Lui capì, non disse più nulla e si concentrò su quello che stava facendo.
«Due... Tre... Quattro... Forza non mollare... Cinque...»
Continuai a contare, a scegliere canzoni e a seguire l'allenamento di Federico fino a quando lui non decise che per quel giorno poteva bastare.
«Penso di non aver mai sudato così tanto», si lamentò lui passandosi un asciugamano sul viso e bevendo dalla borraccia.
«Perché non hai mai avuto un'allenatrice brava quanto me», sentenziai.
Lui sorrise. «Può essere», fece di nuovo un sorso d'acqua. «La prossima volta ti alleni con me.»
«Scordatelo.»
Lui si alzò in piedi e cercò di bagnarmi con l'acqua dentro la borraccia, con scarsi risultati però.
«Dai, è triste da solo altrimenti.»
«Non è un problema mio», risposi ferma sulla mia decisione.
«Vedremo», e così dicendo tornò a sedersi sulla panca.
Io mi sedetti per terra e rivolsi lo sguardo verso il cielo. Non so quanto tempo fosse passato, ma il sole era calato e stava diventando buio.
«Chi è Elisa?»
A quelle parole abbassai lo sguardo di scatto verso il ragazzo di fronte a me. «Cosa hai detto?»
«Elisa...», ripeté lui. «Ho sentito tu che le davi della stupida, questo pomeriggio.»
Assottigliai gli occhi. «Non sono affari tuoi», risposi.
«È una tua amica?»
Mi alzai in piedi e con rabbia sbottai: «Quale parte della frase "non sono affari tuoi" non hai capito?»
Lui alzò le mani in segno di difesa. «Scusami non volevo –»
«Non mi interessa», tagliai corto io, entrando in casa e chiudendomi con forza la porta alle spalle.
***
Ero seduta alla scrivania e davanti a me avevo il mio "giornale di bordo", aperto e completamente immacolato, se non per le prime due righe, in cima alla pagina.
28esimo giorno di quarantena. Ore 23:45.
E con questo fanno 93 giorni che non esco.
Non riuscivo a capire il perché continuassi a pensare così tanto a cosa scrivere, cosa me ne importava dopo tutto? Il Dottor Cometisentioggi non sarebbe mai venuto a dirmi che il contenuto non era abbastanza.
E anche se avesse voluto, non avrebbe potuto.
Quella mattina, quando mi aveva telefonato si era di nuovo raccomandato di continuare a mettere su carta i miei pensieri.
E adesso eccomi qui, non sicura del perché lo stessi facendo, ma estremamente certa che di pensieri ne avevo persin troppi quella sera.
Non so da dove iniziare.
Forse come prima cosa dovrei cancellare Instagram, non solo dal cellulare, ma dalla mia vita. Ancora una volta quello che gli altri pubblicano su quella maledetta applicazione mi sta facendo perdere il contatto con la realtà. Mi porta in una dimensione dove i "se" continuano a vorticarmi veloci davanti agli occhi, mostrandomi sprazzi di vita che non è stata vissuta: "Se non avessi mai incontrato Marco?" o "Se Elisa non fosse stata mia amica?", o ancora "Se non fossi andata alla festa di Natale della scuola?"
Una cosa che ho imparato però, è che non si può vivere solo di "se". Perché i "se" finiscono per mangiarti l'anima, ti scavano dentro e ti fanno dubitare di tutto e di tutti.
Mi fermai un attimo a pensare. Scriverlo o non scriverlo?
Scriverlo.
Ho incontrato un ragazzo.
Abita nel palazzo di fronte al mio. Ha la stessa sicurezza di Marco e non si fa mai i fatti suoi, e per questo lo odio.
Allo stesso tempo però, mi fa ridere. Non è ancora una risata di cuore, per quelle ci vuole tempo e il mio odio nei suoi confronti me lo impedisce.
Mi fa ridere con gli occhi però. Lo so perché quando sono con lui qualche volta li sento lucidi, come quando cantava Good Riddance completamente sbagliata. Lì hanno iniziato a lacrimarmi.
E una cosa buona no? Il Dottor Cometisentioggi ha detto che anche piangere mi farebbe bene. Almeno riuscirei a buttare fuori il dolore che ho dentro. Il ridere che porta le lacrime è la stessa cosa no?
Guardai l'ora sul cellulare e mi accorsi di essere già in ritardo. Dovevo muovermi.
Aprii la finestra e uscii sul balcone. Scavalcai la ringhiera in ferro e, esattamente come tre sere prima, mi ci sedetti sopra, lasciando vagare i piedi nel vuoto.
«Mi chiedevo quando saresti uscita.» La voce di Federico arrivò chiara alle mie orecchie.
Era davanti a me, con una sigaretta in mano, intento ad osservarmi.
Puntai di nuovo lo sguardo verso il basso, stringendo con forza la ringhiera tra le mie mani.
Sentii Federico affannarsi a fare qualcosa, quando, curiosa, controllai cosa stesse facendo, lo trovai seduto sulla ringhiera come me, con i piedi che penzolavano, sbattendo di tanto in tanto sul ferro e creando un rumore metallico che mi dava alla testa.
«Che diavolo stai facendo?», sibilai preoccupata. «Torna subito indietro!»
«Però... è alto qua», fu tutto quello che disse, stringendo la sigaretta tra le labbra.
Vederlo seduto così sul bordo, con le gambe che dondolavano mi faceva stringere lo stomaco. «Federico, stai fermo, ti prego.»
«Potrei quasi abituarmici a questa sensazione», commentò, senza mai staccare gli occhi da me.
«No, non puoi», dissi con voce tremante. «E ora torna indietro.»
«Torno indietro quando torni indietro tu», disse testardo. «Se continui a rimanere seduta lì allora vuol dire che posso farlo anche io.»
La sua espressione era mortalmente seria. Voltai lo sguardo di lato, facendolo perdere tra le luci delle strade in lontananza, abbassai poi lo sguardo sull'orologio da polso.
00: 23.
Sospirai. «Va bene», risposi. «Va bene.»
Con attenzione scavalcai di nuovo la ringhiera e atterrai con un balzo sulle piastrelle fredde. Poi controllai che Federico facesse lo stesso. E solo quando vidi che entrambi i suoi piedi avevano di nuovo toccato terra allora tirai un sospiro di sollievo.
«È strano», iniziò lui facendo un tiro, «come tu sembra essere preoccupata così tanto per gli altri, ma così poco per te stessa.»
Non dissi nulla. Se l'avessi fatto avrei dovuto spiegargli tante cose.
Lui però non sembrò turbato dal mio silenzio. «Che scuola fai?», chiese.
«Il classico. Al Petrarca.»
Lui emise un fischiò di ammirazione. «La scuola dei piani alti.»
Feci una smorfia. «Non la definirei così.»
«Uscivo con una ragazza che andava al Petrarca, un po' di tempo fa.»
«Chi era?»
«Una snob figlia di papà. Ho odiato ogni singolo istante passato con lei.»
«Siete usciti per molto insieme?»
«No», scosse la testa. «Non fanno per me le persone come lei.»
«Come lei come?»
Lui sembrò pensarci un po' su. «Materialiste.»
«Chi è?»
«Lucrezia Monsanto», rispose lui quasi con una smorfia.
«Lucrezia Monsanto?!», risposi sorpresa. «Mi pigli per il culo.»
«Perché dovrei?»
«Era una dea nel nostro liceo!», esclamai, «I pochi ragazzi che c'erano la idolatravano e Elisa –», mi fermai di botto. Perché avevo tirato in ballo lei? Forse perché avevo ancora stampato nella memoria le sue parole: "Un giorno sarò come Lucrezia, te lo prometto Olli."
Federico si limitò ad annuire. «Non era poi tutto questo granché.»
Finì la sigaretta e la buttò nel posa cenere.
«Sai come mi chiamano tutti?», mi chiese ad un tratto.
Scossi la testa.
«Frankenstein.»
Quel nome mi fece riaffiorare dei ricordi, che sembravano quasi appartenere ad un'altra vita, ad un'altra Olivia. Girava voce, al Petrarca, di un ragazzo dello scientifico che aveva talmente tante cicatrici sul corpo da essere chiamato Frankenstein, come il mostro del romanzo. Leggenda narrava che se le fosse procurate facendo risse con ragazzi di altri Istituti. La storia era scoppiata quando appunto Lucrezia aveva iniziato a dire in giro di conoscere personalmente quel ragazzo.
«Tu sei Frankenstein?», chiesi stupita.
«Ho sempre odiato quel soprannome», disse lui reprimendo un sorriso. «Me l'aveva affibbiato un mio compagno di classe in prima media, dopo che aveva visto le numerose cicatrici che ho sul corpo.»
«Prima media? Ma non eri un po' giovane per attaccare rissa?»
Lui scoppiò a ridere. «Così la sai anche tu quella storia eh?»
«Al Petrarca la sapevano tutti.»
«Quando son nato sono stato molto male. I medici hanno detto ai miei che le mie chances di sopravvivere erano molto, molto basse», si fermò a fissare per un attimo il cielo scuro. «Le avrebbero provate tutte per salvarmi, ma questo implicava un sacco di operazioni.»
«Quindi...»
«La storia della rissa me la sono inventata io un giorno, dopo l'ennesima volta che qualcuno mi aveva preso in giro per via delle cicatrici, l'unico ricordo che mi resta del periodo in cui sono stato più vicino alla morte che alla vita», mi sorrise. «Nessuno mi ha più detto niente da allora, e Frankenstein è diventato famoso per la sua brutalità nel rompere bottiglie di birra sulla testa dei suoi nemici», concluse con un ghigno.
«Frankenstein», mormorai.
«Preferisco ancora Federico però», disse lui.
«Perché mi hai raccontato questa storia?»
Lui mi fissò a lungo senza dire nulla, e quando infine parlò, le sue parole fecero più effetto di quanto potessi mai immaginare.
«Perché il dolore tira fuori il nostro istinto di sopravvivenza più primitivo e allo stesso tempo più distruttivo. Combattiamo contro noi stessi per continuare a vivere e allo stesso tempo cerchiamo di uccidere quella parte di noi che non ci piace, che ci fa star male.» Fece una pausa. «Il difficile non è sopravvivere, ma convivere con quello con cui si è sopravvissuti.»
Io non risposi e così lui mi chiese: «Vuoi un consiglio?»
Annuii, non riuscendo ancora a dar voce ai miei pensieri.
«Lotta per sopravvivere, e racconta poi la tua storia, con sincerità o aggiungendo dettagli e poesia e ricamandoci sopra come solo Omero saprebbe fare. Non importa in che cosa la trasformi. L'importante è che ti faccia tornare a star bene.»
•••
Ciao amici:)
Visto che il capitolo di ieri era corto ho pensato di pubblicarne subito un altro, decisamente più lungo!
Non dimenticatevi di dirmi cosa ne pensate e di schiacciare quella stellina se vi è piaciuto!
Lots of love,
Raumalainen.
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