CAPITOLO 7 - RUMORI DISPERSI NELLA NOTTE

Guardò la spada di Ferdo nella sua mano. Era sempre stata la spada dei suoi sogni, ma ora la vedeva con occhi diversi: non poteva pensare di dimenticare quello che era appena successo e non riusciva a fare a meno di sentire che la colpa fosse di quella spada. Quella stupida leggenda diceva che l'Erede avrebbe impugnato Vanetar e che il sole lo avrebbe illuminato, cosa che era effettivamente successa con Aren, ma lui non era l'Erede, non poteva esserlo. Però Aren non ne era più così tanto sicuro. In fondo, rifletté, non aveva mai conosciuto suo padre e nessuno gli aveva mai detto nulla di lui. A partire da sua madre, che aveva sempre evitato l'argomento come la peste. Tutto il resto di Saithon non si era mai permesso di andare contro il volere di Adrenea e il massimo che era stato mai detto ad Aren era che suo padre non fosse di Saithon. Perciò, per quanto ne sapesse Aren, la famiglia di suo padre avrebbe potuto essere quella reale. Ma le probabilità andavano contro la possibilità di Aren di discendere dalla famiglia reale: tra tutte le famiglie del regno, proprio la più importante? Era impossibile. Inoltre, nella testa sentiva ancora le voci della gente che lo acclamava, che lo chiamava "re", e il solo pensare che tutto ciò potesse essere vero gli fece girare la testa. C'era qualcosa in lui che negava questo scenario. Se fosse stato veramente l'Erede, probabilmente avrebbe avuto nel sangue la consapevolezza di essere un regnante, ma non era così. Si coprì il viso con le mani e lasciò scivolare la schiena sul muro alle sue spalle. Tremava. Cercò quindi di tranquillizzarsi facendo dei respiri profondi. Piano piano il corpo smise di tremare e Aren si placò. Dopo tutto, ripeté a se stesso, il peggio era passato e poi era stata solo una terribile coincidenza. Il sole in fondo avrebbe potuto illuminare chiunque di fianco a lui ed era già successo molte volte negli ultimi anni. Fece un respiro profondo e si rialzò. Probabilmente la notizia dell'Erede ricomparso si sarebbe diffusa in tutta la città verso sera e nelle settimane successive anche nel resto del regno. Ancora una volta l'attenzione di Aren venne riportata sulla spada che teneva ancora stretto nella mano. Non poteva di certo andare in giro con quella spada in mano senza correre il rischio di essere riconosciuto all'istante. Decise di riportare Vanetar a palazzo quella notte stessa, quando nessuno sarebbe stato in giro per vederlo. Fino a quel momento, però, Vanetar sarebbe rimasta celata nel fodero di Neyrost, mentre Aren avrebbe tenuto quest'ultima legata come meglio poté alla cintura. La lama di Vanetar non si incastrava perfettamente nel fodero di Neyrost, ma Aren dovette accontentarsi. Per nascondere anche l'impugnatura di Vanetar, Aren recise con il pugnale che teneva legato alla cintura dei lembi di pelle dai suoi pantaloni e coprì alla bell'e meglio il pomolo e la guardia in modo da renderla irriconoscibile.

A quel punto, uscì dal vicolo, non dopo essersi guardato in giro accertandosi che nessuno dei presenti durante l'incidente non fosse nei paraggi. Decise di non tornare subito da Merran, non voleva avvicinarsi al Palazzo Reale né tantomeno nella piazza principale della città. Inoltre non se la sentiva di affrontare subito il freddo e logico giudizio dello Stregone. Aveva bisogno di un po' di tempo per riflettere in solitudine, così si incamminò da solo per la città, con la testa bassa e le braccia lungo i fianchi, cercando di sembrare il più anonimo possibile. La via in cui si trovava era deserta, insolito per una strada di centro città. Probabilmente molti di quelli che si erano trovati in zona erano in giro per la città alla ricerca dell'Erede. Giusto qualche persona andava in giro solitaria immersa nei propri affari, ignorando quanto successo solo una mezz'ora prima. Nessuno di loro diede ad Aren la minima occhiata. Questo rassicurò il giovane, perché voleva dire che la notizia non si era diffusa così in fretta, o almeno non così tante persone stavano dando credito ad una diceria popolare.

Stava per incamminarsi quando sentì un rumore di passi affrettati davanti a lui, così alzò la testa per vedere cosa fosse. Un uomo gli veniva incontro con aria trafelata, ma eccitata al tempo stesso. In mano aveva un manifesto. Aren si scompigliò i capelli nel tentativo di nascondere qualche suo tratto riconoscibile, intanto l'uomo lo aveva raggiunto.

‹‹L'Erede è stato avvistato poco fa al Palazzo Reale! Non si sa perché, ma è fuggito perciò adesso sta a noi riportarlo lì. Unisciti anche tu alla sua caccia: stiamo cercando di riunire tutta Freithen per cercarlo dappertutto. Se vuoi anche tu che l'Erede torni a regnare ti condurremo dal nostro leader, così potrai unirti al gruppo di ricercatori che in questo momento setaccia le zone intorno alla cattedrale. Se tutto va bene i tempi bui finiranno per sempre!›› enunciò ad Aren, era molto entusiasta.

‹‹Sì, ma senza Corona nessuno ha il diritto di regnare. Anche se riuscirete a trovarlo, l'Erede non potrà salire al trono...›› mormorò Aren cercando di arrampicarsi sugli specchi, anche se era inutile. Ormai tutti erano convinti che era lui l'Erede e, anche se si fosse opposto, lo avrebbero obbligato a regnare, con o senza Corona di Topazi. Vide gli occhi dell'uomo velarsi di delusione e di un'infinita tristezza, ma anche di forte determinazione.

‹‹Da centinaia d'anni il nostro popolo va avanti senza una guida.›› Esordì l'uomo. ‹‹Non c'è più commercio o scambio d'armi e armature con gli altri Popoli. Non potremo più inviare truppe di sostegno ai Popoli che ne hanno bisogno. Molte persone hanno perso il loro lavoro di commercianti e adesso sono costrette a lavorare illegalmente. Senza il nostro aiuto gli altri Popoli in futuro, nel caso di una grande guerra, soccomberanno. Pensa alle Ninfe, un Popolo pacifico di sole donne, come faranno a difendersi in caso di attacco senza l'aiuto dei Guerrieri? Io ho una famiglia da mantenere e la vita è difficile, ma non perdo la speranza. Un giorno l'Erede si renderà conto che il suo Popolo ha bisogno di una guida e siederà sul trono nel Palazzo Reale. Non serve la Corona di Topazi! Ne forgeremo un'altra, se serve. Io credo in un futuro migliore sotto la guida dell'Erede! Unisciti a noi per aiutarci! Per aiutare gli altri!›› l'uomo era quasi in lacrime, ma levava il pugno destro in aria, vittorioso.

Aren rimase commosso. Quell'uomo era uno come tanti, ma aveva trovato la forza di andare avanti nonostante le avversità. Voleva migliorare la sua precaria situazione, ma lottava anche e soprattutto per tutte le altre persone in difficoltà, perché erano tutti sulla stessa barca. Le sue parole colpirono Aren nel profondo e lo fecero riflettere per qualche secondo. A chi importava se lui non era effettivamente l'Erede? Tutti credevano esattamente quello, e allora perché non assumersi quella responsabilità per il bene di tutti? Per un attimo l'idea di lasciare perdere tutto, la Missione, Merran, per diventare Re e salvare il regno dei Guerrieri dalla miseria gli balenò nella testa. Tutta quella gente disperata aveva bisogno del suo aiuto, per questo sempre più persone si univano alla ricerca di quello che erano convinti fosse la loro salvezza. In fondo al cuore, però, sentiva che non era giusto. Non aveva senso diventare Re di un Popolo, per di più non legittimamente, che sarebbe stato presto annientato dalla forza del Male. Quel trono spettava di diritto al vero Erede, quello il cui nonno era Ferdo. E la spada che in quel momento teneva in mano doveva essere impugnata da colui che veramente doveva diventare Re. Voleva aiutare quell'uomo e tutti i Guerrieri in difficoltà, lo voleva veramente, ma non poteva. Stava per dire all'uomo che non poteva unirsi a loro, ma poi vide l'entusiasmo sul suo volto e le parole gli rimasero incastrate in gola. Non poteva lasciarlo così senza dirgli qualcosa, dopotutto era lui stesso che l'uomo stava cercando.

‹‹Dici parole degne d'Onore, compagno.›› gli disse posandogli una mano sulla spalla, in segno di fratellanza. ‹‹Sì, ho sentito anche io dell'Erede e non so perché sia fuggito, ma ti dico questo: l'uomo che cercate potreste anche non trovarlo mai più e non è nemmeno certo che sia effettivamente lui il nipote di Ferdo. Abbiamo bisogno di una guida che riporti ordine nella nostra terra, ma non possiamo perdere tempo a inseguire una chimera. Se vogliamo che qualcosa cambi, dobbiamo essere noi a farlo. Non perdere il tuo entusiasmo, però, perché sono sicuro che il vero Erede tornerà prima o poi!›› Le parole gli uscirono dalla bocca come un fiume di speranza, mentre gli occhi gli divennero lucidi. L'uomo non mutò il suo spirito.

‹‹Noi continueremo a cercare, ma ti prometto che non dimenticherò le tue parole.›› promise ad Aren guardandolo bene negli occhi. Questi, però, divennero subito confusi non appena si fissarono sul viso di Aren.

‹‹Ehi! Aspetta... mi sembra di averti già visto da qualche parte... ci conosciamo?›› gli chiese osservandolo con gli occhi socchiusi e le sopracciglia corrucciate nello sforzo di pescare immagini dalla sua memoria.

A quel punto Aren si accorse con grande sgomento che l'uomo teneva in mano un manifesto raffigurante il suo stesso volto. Per fortuna non era molto fedele, ma la somiglianza dei tratti poteva essere evidente ad un occhio attento. Si trattava con tutta probabilità della trasposizione grafica della descrizione fornita da uno dei testimoni presenti all'accaduto. Ancora qualche secondo e anche l'uomo si sarebbe reso conto di avere davanti colui che aveva il volto disegnato sulla locandina che aveva in mano, colui che tutti stavano cercando in quello stesso momento. Aren non poteva permettersi di rimanere lì un secondo di più, o sarebbe stato riconosciuto sicuramente.

‹‹Ecco... ora devo proprio partire. Mi dispiace non poterti aiutare più di così.›› disse Aren in tutta fretta, poi si voltò spiccando una corsa forsennata cercando di trovare l'ennesima via di fuga in quell'intricato sistema di vie. Dietro di lui la voce dell'uomo gli intimava di fermarsi, ma Aren lo ignorò. Una lacrima carica di vergogna gli rigava la guancia.

Corse per quello che gli sembrò un secolo fino a quando non sentì i polmoni bruciargli in petto e il cuore battere insistentemente, a quel punto si fermò. Non gli interessava cosa avrebbe potuto pensare una qualsiasi persona che l'avesse visto correre così, ad Aren importava solo mettere più distanza possibile tra lui e la città, isolarsi da tutto quello che era successo e cercare di ritrovare un po' di tranquillità. Era stanco di scappare e comportarsi da vigliacco, ma non gli veniva in mente nessun'altra soluzione e questo lo frustrava immensamente. Ormai era vincolato da una Missione troppo importante per poterla abbandonare, anche se l'alternativa era diventare Re, per non parlare del fatto che il trono non era suo di diritto. Sapeva che la Missione che stava affrontando gli avrebbe permesso di salvare tutta Algorab dalla morte, ma voltare le spalle in quel modo a chi gli stava chiedendo aiuto lo faceva lo stesso sentire un traditore del suo Popolo.

Ci volle qualche momento perché il giovane si convinse di non essere un vile, ma infine riuscì ad allontanare quel pensiero. Sollevando quindi lo sguardo si accorse di essere giunto in prossimità della Porta Occidentale di Freithen, quella che portava al piccolo quartiere dei marinai e al porto. Il Guerriero riusciva a scorgere i merli della sua sommità che imitavano il profilo delle onde, così decise di raggiungerla ed esplorare quella zona. La Porta Occidentale non era un semplice varco nelle mura: si ergeva più in alto delle mura stesse e la pietra di cui era fatta era ampiamente decorata con motivi marini e di vita portuale. Non assomigliava affatto a un lavoro di mano Guerriera, poiché l'attenzione ai dettagli e la cura della semplicità con cui era stato svolto quel lavoro non erano minimamente simili alle semplici, ma imponenti costruzioni che aveva visto Aren quel giorno. Il giovane passò oltre alla porta con il naso per aria in contemplazione di quell'esotica ed estranea opera, e una volta fuori si mise a passeggiare per le viuzze del quartiere, l'unico che si trovava fuori dalle mura e in diretta comunicazione con il porto. Una volta fuori dalle mura, Aren si ritrovò in un ambiente completamente diverso. Quel quartiere era molto particolare: le case non erano in legno e pietra come nel resto della città, ma in mattoni di colore rossiccio e i tetti non erano spioventi e in legno, ma bassi e fatti di piccole tegole. Le vie erano in lastricato, molto strette e spesso in discesa, e per terra scorreva sui lati un rivolo dal colore verdastro. Le case erano a più piani e sembravano avvicinarsi per stritolare Aren in una morsa mortale. Da una finestra all'altra, da una casa a quella di fronte partivano delle corde con vari indumenti appesi. Le persone lì si urlavano da una parte della strada all'altra, ma erano tutti amichevoli tra di loro. Il loro linguaggio era meno raffinato e molto più popolare di quello delle persone che si trovavano nel centro di Freithen, dove abitavano principalmente i borghesi e le famiglie nobili. Inoltre, aleggiava nell'aria un forte odore di pesce e olio. L'intricato sistema di vie tutte uguali tra loro fecero ben presto perdere la via ad Aren che si vide costretto a chiedere indicazioni ad una di quelle persone che sembravano tutto sommato ospitali e disponibili. Evidentemente, essendo abituati a viaggiare e a commerciare con gente sempre diversa, avevano sviluppato un senso di disponibilità maggiore rispetto agli altri abitanti di Freithen. Aren capì poco di ciò che la donna a cui aveva chiesto indicazioni gli disse, perché ella parlava molto velocemente e per di più mangiandosi tutte le sillabe finali delle parole. In ogni caso si arrangiò con quello che aveva assimilato e alla fine uscì da quel labirinto per trovare davanti a sé il maestoso porto di Freithen.

Esso consisteva in un ampio e intricato sistema di pontili e passerelle costruito su palafitte in legno. Aren passeggiò lungo la passerella principale che costeggiava le navi attraccate. Qua e là barchette di misere dimensioni affiancavano potenti navi commerciali e galeoni da guerra, ma la maggior parte delle imbarcazioni giacevano abbandonate sull'acqua. Quel porto sembrava raccontare di un enorme impero commerciale ormai scomparso. Come aveva detto il Guerriero col manifesto, i commercianti e i marinai avevano perso il lavoro da quando il Regno dei Guerrieri, ormai senza un governo, si era chiuso in sé stesso, troncando le relazioni che aveva col resto di Algorab. Se un secolo prima quel porto era stato gremito di gente, suoni e vita, in quel momento era il fantasma di ciò che era stato, deserto e abbandonato, ormai in disuso. Tra gli scricchiolii del legno poteva percepire il lamento del porto: una richiesta disperata di potersi svegliare da quel sonno che gli era stato imposto ingiustamente. Quella vista era straziante per Aren, ma allo stesso tempo ipnotica e affascinante. Il Guerriero svoltò l'angolo e vide che il porto finiva contro una scogliera sul lato Est della città, quello da cui erano entrati quella mattina: quindi il porto si sviluppava sui lati Nord, Sud e Ovest. Aren si avventurò sul difficile profilo della scogliera costeggiando le mura di Freithen, facendo ben attenzione a non scivolare. Infine, si sedette su un masso abbastanza piatto appoggiando la schiena sulle mura. Si accorse che ormai si era fatto pomeriggio e il suo stomaco iniziava a brontolare, dato che non aveva pranzato visti tutti gli eventi della mattinata. Represse allora il desiderio di mettere qualcosa sotto i denti e si mise ad osservare nostalgico l'orizzonte. Sulla sua sinistra, a Nord, il Bosco sul Confine era più buio e impenetrabile che mai e incuteva un senso di timore e smarrimento, non a caso nessuno lo aveva mai attraversato. Aren si chiese se la sua Missione lo avrebbe mai portato nelle viscere di quella foresta maledetta. Ormai aveva già scalato tutte e sette le cascate del Thru' Heeda, non si sarebbe sorpreso in caso di altre imprese praticamente impossibili. Appoggiò la testa sui palmi delle sue mani incrociate dietro la nuca, respirando l'aria che spirava dalle montagne, lontane ad Est.

Preannunciati da miagolii apparvero Phebe e Phrede, i quali si strusciarono sulle gambe di Aren. Erano cresciuti parecchio pure loro: Phebe si era ingrandito e preannunciava un corpo massiccio, mentre Phrede era più secco e snello. I suoi due compagni iniziarono a giocare e Aren si mise ad osservali per un po'. Vedere come i due si rincorrevano, mordevano, acchiappavano a vicenda, tutto però senza farsi del male fece entrare un po' di pace nell'animo del Guerriero. Questi spostò poi lo sguardo verso Sud, scrutando l'orizzonte. Con la coda dell'occhio poteva osservare il porto semiabbandonato e percepire il silenzio che quel luogo emanava. Dritto davanti a sé, invece, la pianura estendeva le sue propaggini all'infinito. Compariva solo ogni tanto qualche animale che scorrazzava in libertà e anche il cielo veniva esplorato da stormi di uccelli in volo.

‹‹Che pace...›› mormorò Aren socchiudendo gli occhi.

Era strano: alle sue spalle si ergevano le mura di Freithen, alte e possenti, ed era come se esse separassero due aspetti opposti della città. All'interno era rinchiusa tutta la frenesia di una trafficata metropoli, con i suoi rumori quotidiani; all'esterno invece il porto e le scogliere giacevano nella quiete più assoluta, cullati dallo scorrere del Grande Fiume del Sud. Un tempo, forse, la stessa frenesia che vigeva all'interno delle mura aveva caratterizzato anche quelle banchine scricchiolanti, un tempo che sembrava così lontano...

Aren venne svegliato un lumadin, una specie di gabbiano più piccolo tipico delle zone fluviali, che si era appollaiato sulle sue ginocchia. Il Guerriero sbadigliò e si stiracchiò, facendo volare via il lumadin. Aveva le membra tutte intorpidite e la testa gli pulsava fastidiosamente, ed Aren sapeva perfettamente cosa quest'emicrania volesse dire. Si alzò e vide infatti che il sole era ormai quasi all'orizzonte: aveva dormito tutto il pomeriggio. I gatti erano spariti e andati chissà dove. Aren doveva assolutamente trovare Merran, poiché non si era presentato al punto di ritrovo e ormai erano passate delle ore. Dallo Stregone non sapeva se aspettarsi una reazione buona o cattiva, quel vecchio era per lui ancora imprevedibile. Il borbottio del suo stomaco lo riportò alla realtà. Già, doveva anche mangiare.

Ignorando i segnali del suo corpo, Aren spiccò una corsa con destinazione il centro della città. Nessuno badò a lui, le strade erano pressocchè deserte perché a quell'ora molti rincasavano e iniziavano a preparare la cena, così il giovane non dovette fare attenzione a non investire qualcuno nella sua corsa forsennata. Dovette fermarsi a chiedere indicazioni parecchie volte perché non conosceva le vie di Freithen e durante quelle occasioni cercava sempre di chiedere alle persone che sembravano essere più indifferenti e concentrate sui loro affari, in modo da non rischiare di essere riconosciuto. Quando però egli si ritrovò davanti al cancello del Palazzo Reale, dove si era messo d'accordo con Merran per incontrarsi, si pietrificò: Merran non era lì come si era immaginato. Secondo il suo ragionamento, sarebbe stato logico se lo Stregone si fosse trovato nell'ultimo posto dove si erano visti e dove avevano stabilito di riunirsi, soprattutto perché Aren non conosceva bene le strade di Città dell'Onore. D'altronde, però, non avrebbe dovuto aspettarsi che Merran l'avesse aspettato lì per tutto il pomeriggio. Nonostante la spiacevole situazione, ad Aren sfuggì un sorriso a metà tra il divertito e l'innervosito. Era quello sicuramente un modo dello Stregone per invitarlo a ragionare e imparare ad essere autonomo. Così Aren si sedette per terra per rimuginare in comodità. Merran non avrebbe sicuramente scelto di gironzolare per la città, altrimenti Aren non avrebbe avuto più alcuna speranza di trovarlo. Di certo lo Stregone avrebbe trovato un luogo dove poter restare in sua attesa anche per ore, un luogo dove avrebbe trovato da mangiare e un letto dove riposare. Una locanda. Il giovane si alzò di scatto pronto per correre subito verso una di queste, euforico e orgoglioso di aver trovato la soluzione. L'entusiasmo tuttavia svanì subito: quale tra le molte locande della capitale aveva scelto Merran? Con tutta probabilità una delle locande più vicine, e tra queste una delle più note e confortevoli, in modo che Aren non avesse avuto problemi per trovarla. Non restava che chiedere a qualcuno, così fermò un passante. Aveva l'aria straniera, perché si guardava attorno proprio con lo stesso sguardo che Aren aveva sentito su di sé appena arrivato in città, e dimostrava di avere non più di un anno d'età rispetto ad Aren. Si trattava probabilmente di un altro giovane Guerriero in Missione. Questi non dette segno di aver mai visto Aren in vita sua mentre spiegò che a lui era stato consigliato di alloggiare in una locanda non molto lontana da lì chiamata "Locanda dal tetto verde". Aren si fece dare le indicazioni necessarie per raggiungerla, quindi si congedò dal Guerriero e si avviò, sperando di, una volta arrivato, trovare subito Merran.

Aren arrivò alla locanda in pochi minuti; in effetti essa era molto vicina alla piazza principale, inoltre le indicazioni del giovane Guerriero erano state molto accurate. Non appena giunse in vista della locanda, Aren non ebbe difficoltà nel capire da cosa derivasse il suo nome. L'edificio che si trovò davanti era quasi completamente in legno, eccezion fatta per il piano terra che era costituito di pietra. C'erano molti piani superiori, dedicati alle camere, e i più alti fra essi superavano di poco i tetti delle case circostanti. Effettivamente ciò che catturava l'attenzione più di tutto era il tetto dell'edificio: esso era infatti composto da tegole dal singolare color verde smeraldo e mille altre sfumature. Lo stesso colore era richiamato dalle finestre, i cornicioni e le persiane delle quali erano dipinte di vernice verde. Aren si augurò che Merran fosse lì, perché ormai si stava facendo buio, quindi entrò nel locale. All'interno venne accolto da una calda atmosfera ricca di rumori e risate. C'erano molti tavoli, ai quali erano seduti vari viandanti che discutevano tra loro con un boccale di birra in mano e un fumante piatto di cibo davanti. Dal soffitto in legno pendevano alcune lanterne e in un angolo un camino riscaldava la sala, queste erano le fonti di luce che gettavano un alone caldo e accogliente tutt'intorno. Aleggiava nell'aria un invitante odore di cibo speziato. Lo stomaco di Aren borbottò, ma questi lo ignorò e si avvicinò al bancone dietro al quale un oste stava preparando dei boccali di birra. L'uomo si accorse di lui e mostrò un sorriso gioviale di benvenuto.

‹‹Cosa posso fare per te?›› domandò riprendendo a preparare la birra.

‹‹Sto cercando uno Stregone...›› spiegò Aren, dando una veloce e approssimativa descrizione di Merran.

Il giovane temeva di essere giunto lì per niente tanto da mordersi l'interno della guancia per frenare il nervosismo, per questo si sentì sollevato quando gli venne subito confermata la presenza di Merran nella stanza in fondo al corridoio del penultimo piano. Egli si precipitò subito ai piani superiori diretto verso la camera indicata dall'oste.

Giunto al penultimo piano, percorse il corridoio facendo scricchiolare il legno sotto i suoi piedi fino in fondo, dove si trovava una finestra. Bussò alla porta della stanza alla sua sinistra e da dietro essa giunse la voce di Merran invitandolo ad entrare. L'interno della camera era semplice: c'erano un letto matrimoniale e una branda singola, un comò e un tavolo con sedie. Merran era seduto su una di queste e guardava l'ingresso come se avesse sempre saputo che Aren sarebbe arrivato proprio in quel momento. Non appena dentro Aren corse ad abbracciare il vecchio, felice di averlo ritrovato e orgoglioso di essere riuscito a farlo con le sue sole capacità. Merran lo fece accomodare sulla sedia di fronte a lui.

‹‹E ora.›› disse tornando a sedersi davanti ad Aren. ‹‹Raccontami tutto.››

Così Aren gli illustrò tutto quello che era successo senza tralasciare nulla e per lui fu un toccasana: dopo si sentì come svuotato e gli avvenimenti della giornata non lo facevano più rabbrividire al pensiero come prima. Non poté tuttavia ignorare la domanda che dentro di lui premeva per essere fatta, una domanda che gli pesava nascosta in un angolo della sua mente sin da quando il sole lo aveva illuminato nel palazzo.

Appena finì, perciò, di raccontare l'accaduto abbastanza e prima che Merran potesse reagire gli chiese: ‹‹Tu sai chi è mio padre?››

Lo Stregone rimase un attimo impietrito, colto alla sprovvista dall'improvvisa domanda. Rimase in silenzio per qualche momento, spostando lo sguardo da una parte all'altra del tavolo. Aren capì che stava valutando come rispondere, ma invece che incalzarlo decise di rimanere in attesa. Una parte di lui non voleva sapere cosa Merran dovesse spiegargli, ma l'altra parte fremeva dall'impazienza di scoprire di più su di lui. Si accorse di tremare leggermente.

‹‹Mi dispiace, Aren.›› sospirò Merran tornando infine a guardare il Guerriero negli occhi. ‹‹Non so più di quanto ne sappia tu. Non voglio deludere le tue aspettative.›› Ad Aren sfuggì un sorriso sarcastico.

‹‹Io non so nulla. Nessuno mi ha mai detto niente su di lui, neanche mia mamma, tantomeno i miei compaesani.›› replicò cacciando indietro una lacrima di profonda frustrazione.

‹‹D'accordo, allora posso dire di saperne di più. Non montarti la testa, però: è veramente poca informazione.›› lo ammonì Merran. Aren annuì, col cuore in gola.

Merran fece dei profondi respiri per raccogliere tutte le informazioni che aveva, prima di iniziare a raccontare. ‹‹Molto bene, questo è tutto ciò che so grazie a quello che mi ha detto una mia vecchia conoscenza di Saithon. Tuo padre era un giovane Guerriero quando giunse a Saithon in cerca di una Missione... Crirst, si chiamava, e disse di provenire da Nuelthen. Al tempo, una tremenda stagione di temporali aveva causato molti danni nel paese e tuo padre aiutò a rimetterlo in sesto. Lì conobbe tua madre e se ne innamorò. Dopo un difficile corteggiamento, riuscì a convincere Adrenea e i due si sposarono un paio di anni dopo, quando Crirst ritornò a Saithon per vivere con Adrenea. Come tu sai, però, egli vi abbandonò pochi anni dopo la tua nascita. Nessuno sa perché Crirst se ne sia andato, né dove sia stato da lì in avanti. Questo è tutto, mi dispiace.››

Lo Stregone cessò di parlare e puntò il profondo nero dei suoi occhi su quelli di Aren, esaminano i pensieri del giovane come solo sui sapeva fare: scrutandogli l'anima con una razionalità glaciale, come se stesse studiando uno dei suoi manoscritti. Dal canto suo, Aren sentiva dentro di sé un miscuglio di emozioni diverse: il sollievo di avere finalmente qualcosa di suo padre, l'amara delusione di non poterne sapere di più... ma tra tutte una svettava più delle altre. Per la prima volta in vent'anni di vita aveva sentito pronunciare il nome di suo padre, per la prima volta poteva dargli uno straccio di identità. Non sapeva nemmeno cosa pensare o cosa provare. Sentiva solo che per la prima volta quell'indifferenza che aveva sempre avuto nei confronti di Crirst ora aveva un sapore diverso, più misterioso, più nostalgico. Questo, però, non aveva risolto il suo dubbio.

‹‹Almeno è più di quanto mi sia stato mai detto... ma c'è la possibilità che, insomma, egli fosse il figlio di Ferdo? Che io sia l'Erede?›› chiese cercando di essere più specifico, incalzando Merran a giungere nella direzione da lui sperata.

‹‹Nessuno sa cosa sia successo dopo la guerra.›› rispose Merran. ‹‹L'unico figlio maschio che Ferdo ebbe prima di morire molto giovane fu Erdic, ma è andato disperso come tutto il resto della Famiglia Reale. Nessuno può sapere che fine abbia fatto. Ma una cosa so di certo: il giovane Erdic che ho avuto modo di conoscere prima della catastrofe era molto orgoglioso e fiero del suo lignaggio, per nulla al mondo avrebbe rinnegato chi fosse o avrebbe celato la sua identità per così tanto tempo, vivendo come una persona comune in un piccolo paese di montagna. Ho ragione di credere invece che Erdic, dopo essere fuggito, abbia cercato di convincere chiunque della sua identità nella speranza di poter essere incoronato come re, ma nessuno gli credette né dette ascolto ad un ragazzino come lui perché al tempo molti impostori cercavano di falsificare la propria identità così da poter salire al trono al posto di Ferdo. Le circostanze e il carattere di Crirst non combaciano con quelle di Erdic, perciò trovo altamente improbabile che Crirst in realtà si trattasse di Erdic e sono pronto ad escluderlo.››

Aren in un certo senso rimase sollevato da quest'ultimo resoconto, felice di potersi togliere dalle spalle la responsabilità di guidare il popolo dei Guerrieri allo sbando. Una parte di lui, quella vecchia ambizione che aveva alimentato i suoi sogni fanciulleschi di gloria, aveva quasi sperato di avere una misteriosa e nobile discendenza.

‹‹Quindi è tutto qui.›› mormorò il giovane in conclusione.

‹‹Questo è quanto.›› rispose Merran secco. ‹‹Non montarti la testa di supposizioni inutili e fuorvianti, Aren. La leggenda in cui tutti credono è un'invenzione. Io ho studiato i meccanismi del nostro mondo per molti anni, e non è così che funziona la Magia che tiene in piedi Algorab.››

Aren espirò profondamente, buttando fuori tutto il fiato che aveva come se nel farlo liberasse anche tutta la tensione accumulata quel giorno. È vero, non aveva ricevuto risposte tanto esaustive, ancora molti tasselli mancavano a comporre l'immagine finale, ma almeno aveva ottenuto uno spunto sull'identità di suo padre. C'era ancora una minima possibilità che Erdic e Crirst fossero la stessa persona, ma ciò era quasi impossibile, almeno secondo Merran. Aren si fidava dello Stregone, e anche lui stesso non aveva mai sentito che l'identità di erede gli calzasse. Poteva ora mettere una pietra sopra alla questione, una volta per tutte.

Dopo un po' di silenzio imbarazzante, il giovane decise che non era così che voleva che la conversazione finisse, così cercò di cambiare l'argomento con un piccolo curiosità che gli era sorto quella mattina quando aveva visto i volti dei sovrani sul pavimento della sala del trono.

‹‹Ascolta, volevo sapere una cosa.›› mormorò con un po' di imbarazzo. ‹‹Ecco, cosa succede se un re dei guerrieri ha come primogenito una femmina?›› Aren aveva infatti notato che erano esistite anche delle regine dei guerrieri, nei secoli passati. Sembrava scontata come cosa, ma il giovane non aveva mai vissuto in tempi in cui c'era un sovrano. Merran sembrò felice di avere l'opportunità di spiegare qualcosa ad Aren, uscendo da discorsi in cui le sue conoscenze erano limitate.

‹‹Come sai le donne nella vostra società non vengono addestrate come guerriere, ma come guardiane. Ci sono state regine nel corso della vostra storia e in quel caso non così raro, dopotutto, la regina diventa sovrana del regno e lo amministra come farebbe un uomo. L'unica differenza sta in campo militare: non essendo le donne coinvolte nella guerra, è il marito della regina, il re, a condurre militarmente il regno ed è lui che eredita Vanetar, che poi passerà nelle mani del loro erede.›› chiarì lo Stregone. Aren annuì per mostrare di avere capito. Aveva ancora la mente immersa nei suoi pensieri riguardo a suo padre, ma almeno gli era sembrato, per un attimo, di aver messo tutto da parte e di essere tornato lo spensierato Guerriero in visita di Freithen per la prima volta, come se non fosse successo niente.

La conversazione terminò lì e né Aren né Merran spiccicarono più parola. Cenarono nella locanda in completo silenzio ed Aren, spostando lo sguardo in giro per il locale, si accorse che c'era un uomo che lo stava osservando con attenzione. Non appena i due si incrociarono con gli occhi, l'uomo si apprestò ad esaminare il suo piatto di stufato. Aren sperò di non essere stato riconosciuto, ma per non attirare ulteriore attenzione terminò il suo pasto concentrandosi solo sul suo tavolo. Alla fine si misero a letto non appena tornarono in camera, anche se nessuno dei due si addormentò immediatamente. Merran rimase sveglio a studiare uno dei suoi volumi fino a mezzanotte, quando finalmente cedette al sonno. Aren invece rimase sveglio tutto il tempo, il che non fu difficile dato che tutti i pensieri e le emozioni del giorno gli ronzassero nella testa come mosche. Aveva deciso di rimettere la Spada di Ferdo, che teneva nascosta sotto il letto, al suo posto quella stessa notte e per questo si teneva sveglio per evitare di cadere addormentato.

Fissava il soffitto quando scoccò l'una. "Ancora mezz'ora." continuava a ripetersi, anche se l'urgenza di liberarsi di quel fardello lo spronava a muoversi il più in fretta possibile. Non riuscì tuttavia a stare fermo ulteriormente, così si alzò e si infilò i pantaloni, uscì in silenzio dalla stanza e si affacciò alla finestra aperta al termine del corridoio. Freithen era immersa nel buio e ciò le dava un certo senso di fascino, quasi come se fosse dormiente. Sembrava che tutti gli abitanti respirassero all'unisono nel sonno e che i tetti si alzassero e si abbassassero come per respirare. Il cielo era privo di nuvole e per un po' il Guerriero si divertì a riconoscere le varie costellazioni. Pensò a Phebe e Phrede quando vide il Guardiano Minore e per un attimo gli sembrò di vederli saltare da un tetto ad un altro. Stava sperando di ritrovarli l'indomani quando sentì d'improvviso un rumore di passi leggeri sul pavimento. Il cuore di Aren si bloccò e il giovane cessò di respirare. Si voltò verso la porta e la vide: una sagoma scura che stava terminando di salire le scale al termine opposto del corridoio e che si guardava in giro con fare circospetto. Aren colse uno scintillio argenteo nella mano del Guerriero: era armato di pugnale. Il giovane non riusciva a muovere un muscolo, sapendo che era comunque visibile. L'uomo infatti lo vide e si fiondò senza fare rumore su di lui. Aren ebbe appena il tempo di accorgersi che si trattava dello stesso Guerriero che lo aveva osservato a cena, prima di trovarsi a terra supino lottando per tenere il pugnale lontano dal suo corpo. L'uomo però era spinto da una strana sete di sangue che impediva alla fredda logica del combattimento di Aren di avere la meglio: il corpo dell'uomo si muoveva fuori dagli schemi di combattimento corpo a corpo che aveva studiato sin da piccolo. La schiena nuda sul legno iniziava a bruciargli e qualche scheggia gli penetrò nella carne. Sentiva il respiro dell'uomo sul collo e la punta del pugnale sul petto, dove una gocciolina di sangue scendeva lungo il pettorale destro. Inizialmente cercò di tenere il pugnale lontano con la forza delle braccia, ma dopo un po' capì che prima o poi avrebbe ceduto perché, nonostante la forza delle braccia, l'uomo lo stava schiacciando con il peso del suo corpo, così iniziò a pensare a come muoversi. L'uomo teneva il pugnale con la mano sinistra, quindi si teneva in equilibrio sulle gambe e sulla mano destra, che teneva il braccio sinistro di Aren ancorato a terra. Se avesse tolto la sua presa sul braccio l'uomo sarebbe caduto in avanti, ma in quel Aren avrebbe dovuto stare attento a tenere il pugnale lontano dal petto o si sarebbe ferito. Se invece gli avesse tolto l'appoggio delle gambe l'uomo sarebbe caduto verso destra, la sinistra di Aren, dove si appoggiava col braccio. Anche in questo caso avrebbe dovuto prestare attenzione al pugnale, ma ormai non aveva più tanto tempo per decidere: le sue braccia iniziavano a tremare violentemente dallo sforzo. Così con il piede destro fece perdere l'equilibrio all'uomo che come previsto spostò improvvisamente tutto il peso sul suo braccio, dando ad Aren la possibilità di spingerlo e girarlo in modo da trovarsi sopra di lui. Un bruciore sulla schiena gli fece capire che si era sbucciato mentre si girava e vedendo delle gocce di sangue sui vestiti dell'uomo si accorse che il pugnale gli aveva scavato un solco che partiva dal pettorale sinistro a quello destro. Ma non se ne curò: adesso era lui in vantaggio. Tenendolo ben saldo con la mano sinistra sul petto e con le ginocchia a immobilizzargli le gambe gli assestò una serie di pugni in faccia. Stava per assestare un colpo sulla nuca, dato che l'uomo aveva la testa girata verso sinistra, quando vide un luccichio vicino all'occhio sinistro. Senza pensarci con una mano lo allontanò e lo spinse verso il basso. Un gemito gli fece aprire gli occhi che aveva chiuso momentaneamente e vide il pugnale conficcato nel petto dell'uomo, che lo stava guardando con astio.

‹‹Perché ci hai abbandonati, Erede?›› gli chiese con la voce rauca piena di odio e rammarico. ‹‹Ci hai abbandonati a noi stessi e adesso meriti di morire. Saremo noi a governare sul Regno, d'ora in poi.›› gli sputò in faccia e i suoi occhi si spensero.

A quel punto Aren si alzò in piedi, ansimante e sconvolto più che mai.

"Volevano uccidermi." Pensò. "Volevano uccidermi perché hanno passato una vita d'inferno senza una guida e quando sono scappato hanno pensato di non avere bisogno di me. Ho deluso le loro speranze... li ho abbandonati." Ma quando vide gli occhi spenti dell'uomo e la macchia di sangue sul suo petto tutto si spense, tranne la consapevolezza di aver ucciso.

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