Persone come me non dovrebbero avere sogni - parte I
Il volo durò circa un paio d'ore. L'uomo e la ragazza arrivarono agli studi che già era notte fonda, non avevano parlato molto durante tutto il viaggio; solo all'uscita dalla macchina, Nef le aveva detto di seguirlo nella sua stanza.
I corridoi erano deserti e sembrava non ci fosse anima viva, probabilmente gli altri dormivano, oppure erano fuori a bivaccare per locali, difficile stabilirlo: la vita delle persone di successo era imprevedibile.
La scheda magnetica aprì la porta della camera dell'uomo, i due entrarono e lei rimase in piedi vicino alla porta a osservare il bassista appoggiare in un angolo il suo bagaglio per gli spostamenti brevi. L'uomo svuotò le tasche dei jeans, buttò sul comodino il cellulare e un pacchetto di sigarette e si tolse il giacchetto di pelle. Aprì il cassetto e ne trasse i preservativi che si accatastarono agli altri oggetti.
Era inequivocabile come sarebbe andata a finire, ma la ragazza rimase in disparte. Si era messa troppo a nudo, l'uomo conosceva troppo di lei, scarnificata di tutte le sue difese, non poteva concedersi come un tempo. Non riusciva nemmeno a guardarlo e si limitava a tenere la testa reclinata verso il basso. Fu allora che le si avvicinò.
"Monella" disse cogliendola di sorpresa "Non puoi continuare a vivere nel passato. Quello che ti hanno fatto, quello che hai fatto, sono cose che non possono per sempre condizionare la tua vita. Tu corri costantemente su di un binario parallelo aspettando che vada a morire, ma da stasera devi cominciare a vivere in questo presente." Le cinse i fianchi attirando la sua attenzione "Lo farai?"
Lo guardò confusa. "Sì" rispose, ma i suoi lineamenti le apparivano distorti, l'affrontare l'argomento aveva scatenato una reazione di congetture che le scrosciarono in mente. Cercò di non farlo notare slacciandogli la cintura dei pantaloni mentre lui le sfilava la maglia. L'uomo si stese sul letto tirandola sopra di sé, una cascata di capelli rossi lo inondò.
La ragazza guardò la catenina che riversava ninnoli sul suo petto e notò che vi era stato aggiunto il ciondolo a forma di coltello che aveva rifiutato. Lui le prese il viso e portò gli occhi a paro dei suoi. "Fade, guarda me."
Era chiaramente disconnessa. "Dove sei, Fade?" insisteva.
"Qui" rispose facendo riaffiorare la realtà che affogava nel mare in tempesta dei suoi pensieri.
Per la prima volta vide i suoi occhi nocciola. Le sopracciglia folte, gli zigomi leggermente accentuati e i tratti del suo viso spigolosi. Gli passò una mano fra i capelli e ne sentì la consistenza. Erano corti e neri e le solleticavano le cavità fra le dita mentre le faceva scorrere sulla sua testa. Sentì le sue mani premerle sui fianchi, si chinò su di lui per baciarlo e si rese conto di come le sue labbra fossero morbide e umide e di come la barba le piccava il volto mentre le assaporava.
Lasciò che lui guidasse i suoi movimenti. "Sei qui con me?" si sincerava ogni tanto l'uomo sussurrando.
"Si" rispondeva lei in preda al piacere.
Finalmente stava provando la sensazione di fondersi con lui, di sentire la consistenza del suo corpo in ogni centimetro quadrato. Non riusciva a pensare davvero ad altro.
L'uomo osservò i capelli della ragazza riversi davanti al viso proprio come nel giorno che la portarono via a forza dagli studi, ma non avrebbe più associato quella visione all'espressione di terrore che vide nei suoi occhi, l'avrebbe sostituita a quella che vedeva adesso, una donna che, per quanto dolore avesse potuto provare in passato, stava vivendo il presente.
Lasciò che la ragazza si contorcesse su di lui, gli mordesse il collo e gli affondasse le unghie nella pelle assaporando l'autenticità dei suoi gesti. Quando i loro corpi smisero di muoversi, allungò la mano verso il suo pacchetto di sigarette: era il rituale che scandiva ogni loro notte, Fade sapeva cosa significasse, scese dal letto, raccattò vestiti e pattini, si rivestì alla meno peggio e scivolò via dalla camera.
Non c'erano domande né aspettative nella sua mente, vi era solo quel sottile piacere che continuava a scorrerle in corpo, una sorta di adrenalina che le anestetizzava il cervello. Non si chiedeva il perché di quel comportamento, in fondo era sempre stato così. Non c'era motivo di cambiare le cose.
Scese al seminterrato e si ritrovò di fronte la porta della sua stanza. Tirò fuori la chiave: era l'unico oggetto personale che aveva con sé la mattina che la portarono via e che le ridiedero all'uscita di prigione. Non avrebbe mai creduto, in quel periodo, che un giorno l'avrebbe riutilizzata.
La stanza l'aveva aspettata in silenzio per tutti quei mesi. Accese la luce, buttò le sue cose a terra e si lasciò cadere sul letto con la faccia a soffocare nel cuscino.
Mano a mano che le sensazioni della notte passata con Nef scemavano, inesorabilmente i suoi pensieri cominciavano a riaffiorare. Si alzò e cercò il suo diario; aprendolo trovò la pagina dove tutti i suoi sfoghi si erano interrotti bruscamente. Ricordò come, rinchiusa in cella, avesse desiderato più volte quelle pagine nere su cui vomitare ciò che le si rimescolava in testa in un groviglio appiccicoso.
Rilesse il diario da capo, ripassò tutte le parole ritorte e, mano a mano che avanzava, tutte le sue vecchie congetture risalirono a galla come cadaveri in un lago. Inutile nasconderlo, impossibile mascherarlo. Ciò che era non poteva venir cancellato con un colpo di spugna come le aveva detto Nef. Era vero quello che le aveva detto Sherry: aveva sbagliato e ne doveva pagare le conseguenze. Lei non meritava di essere felice, non meritava di essere protetta o amata, il senso di colpa per tutte quelle vite che si era portata via l'avrebbe dovuta divorare dall'interno per finirla in una lenta agonia.
Prese una penna colorata e disegnò un piccolo pallino in una pagina vuota. Vicino vi scrisse
26 giugno 2002
Solo un punto
per ricordare questo giorno.
Infilò il suo piumino e uscì dagli studi.
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