Mente disturbata dai sogni - parte I

Nef non sognava quasi mai, o per lo meno non ricordava mai i sogni che faceva, quella notte invece vennero a fargli visita parecchie immagini confuse e distorte. Era in un'animata e rumorosa festa piena di gente che si divertiva e ballava. Si fece spazio fra la folla, cercando di riconoscere i volti di chi la popolava, si sentiva l'unico pezzo fuori posto in un mondo che procedeva a rallentatore, dove tutto era indistinto, dove anche le voci e la musica parevano lontane, offuscate.

Vide distintamente solo il caschetto rosso di Jane, voltata di spalle mentre parlava con qualcuno. Cercò di raggiungerla, ma più avanzava più lei sembrava distante, le immagini attorno si distorcevano allungandosi, i suoi muscoli non rispondevano alla sua volontà, faceva fatica a muoversi, più si sforzava più le sue gambe diventavano pesanti e i suoi passi incerti.

L'uomo riuscì a sbucare fuori dalla folla e si ritrovò in aperta campagna. Era buio, si vedevano a malapena i campi intorno, illuminati sporadicamente da qualche fioca luce di lampioni e case con le finestre accese. Quella sgradita sensazione di prima era svanita e fu in grado di camminare di nuovo spedito.

Si diresse lungo una discesa di ciottoli bianchi arrivando a un fiume che scorreva proprio alla fine della strada. L'aria era fredda e umida, e gli schizzi delle acque mormoranti gli arrivavano lievi sul viso. Fece solo un passo e sentì la gravità esercitare su di lui, mentre il suo corpo cadeva in moviola fra i flutti.

Lo circondò un'acqua gelata e scura. Trattenne il fiato più che poté, ma alla fine si arrese al fatto che sarebbe morto affogato. Inspirò disperato, ma i suoi polmoni non si riempirono d'acqua: scoprì di essere in grado di respirare anche lì.

In uno scroscio si ritrovò in un edificio di cemento che era l'interno degli studi dei Momuht. Cercò la porta per risalire, ma non la trovò al solito posto, si addentrò quindi per un corridoio laterale scoprendo spazi che non aveva mai visto prima. Gli studi si dilungavano in antri e nuove stanze, c'era tutto un mondo sotterraneo che aveva ignorato fino a quel momento, varcò una soglia e capì che si trovava nella stanza di Fade. Lei non c'era, ma c'erano i suoi pattini, il suo coltello nella fodera sul letto e il suo diario aperto, al quale erano state strappate delle pagine.

Si affacciò ad una finestra aperta e vide il mare a picco sotto di lui capendo l'assurdità del tutto: stava vivendo un sogno. Il fiato gli si fermò in gola. Cosa sarebbe successo se si fosse buttato? Era sicuro che non sarebbe morto, ma se si sbagliava? Provò ad appoggiare la mano sul vetro della finestra e riuscì a trapassarlo, come se non avesse consistenza; come se lui non ne avesse. Era dunque un fantasma? Aveva bisogno di maggiori conferme.

Avvicinandosi all'uscita della stanza posò le mani sulla parete, quelle vi affondarono dentro, come in una gelatina, fece lo stesso con il viso. Provò la stessa sensazione che si ha immergendosi in dell'acqua calda. Si arrestò colto da un pragmatico timore, avrebbe potuto perdere all'improvviso quel potere e rimanere imprigionato nel muro. Si ritrasse in preda allo sgomento: prigioniero per sempre.

Decise di approfittare delle sue doti di spettro per girovagare negli studi fluttuando, era una strana sensazione muoversi orizzontalmente senza poggiare i piedi per terra, notò che non riusciva a staccarsi più di un paio di centimetri dal terreno, forse perché la parte razionale del suo essere ancora cozzava con l'assurdità della situazione.

Entrò in una stanza che sembrava una sala da pranzo. Vi erano mobili in stile antico di un legno scuro tendente al rosso e un vistoso camino acceso a renderla accogliente. L'uomo guardò meglio e si rese conto che tutta la mobilia era composta da grandi pezzi di puzzle tridimensionali. Non aveva mai visto una cosa così assurda. Toccò una vetrinetta accanto a lui e un pezzo che la componeva si staccò cadendo giù, l'uomo lo riprese al volo, scombussolato dall'imprevidibilità della cosa. Cercò di capire come riassemblare il pezzo, mentre gli saliva l'ansia di aver combinato qualche danno irreparabile. Riuscì a incastrarlo, facendo seguire un sospiro di sollievo, quando d'improvviso sentì un rumore sordo. Guardò il muro dietro la vetrinetta e capì che la carta da parati che lo rivestiva era un enorme puzzle, la cui parte centrale aveva subito un rigonfiamento, come se si fosse staccata dal supporto.

Non fece in tempo a fare niente che tutti i pezzi cominciarono a cadere, portandosi dietro quelli adiacenti in una cascata fragorosa, inarrestabile, si rese conto di essere impotente, di non poterla fermare, né tantomeno di riuscire a ricomporre un rompicapo così vasto. Quella parete stava cadendo a pezzi, irrimediabilmente, come la sua vita.

Gli vennero le palpitazioni e l'unica cosa che gli sembrava logico fare era tornare indietro nel tempo. Non sapeva come fare, ma ci riuscì. Vide il puzzle ricomporsi sulla parete, il pezzo del mobile sollevarsi dalla sua mano e rimettersi nella sua posizione originale e vide se stesso uscire dalla stanza così come vi era entrato.

Si ritrovò sull'uscio, consapevole che non sarebbe dovuto entrare in quella sala e si allontanò, dimenticando la sua constatazione di trovarsi in un sogno.

Arrivò ad una porta e, aprendola, si ritrovò nella sua città; trafficata, rumorosa, frammentata da immagini pubblicitarie sulle pareti degli edifici. Si avviò su un ponte sostenuto da una struttura di fili metallici bianchi e d'acciaio, con le macchine che gli sfrecciavano accanto. Arrivato a metà si rese conto che non vi era più il marciapiede, ma stava camminando sopra uno dei tiranti che aveva osservato poco prima, sospeso nel vuoto con l'unico sostegno di un filo d'acciaio di fronte a sé per reggersi. Si maledisse: come aveva potuto cominciare ad attraversare un ponte così pericoloso? Voleva tornare indietro ma si trovava a metà esatta, sarebbe stato indifferente proseguire o retrocedere. Diresse lo sguardo verso la fine del ponte dove riprendeva la strada sicura. Rebecca era proprio lì ma era diversa: era più giovane, con i lunghi capelli che le cadevano paralleli al viso e il rossetto troppo rosso su labbra che si aprirono in un sorriso. La ricordava: il giorno del suo diciottesimo compleanno aveva visto per la prima volta quella ragazza che gli aveva rivolto un'occhiata maliziosa.

Nef scrutò l'altro lato e come temeva intravide Jane, col suo caschetto rosso leggermente mosso dal vento. Lo osservava con occhi tristi, svuotati dai suoi ricordi, con un'espressione indefinibile sul volto. Si trovava fra le due e non sapeva in quale direzione andare. Guardò sotto di sé e vide rocce e stalagmiti che contornavano una profonda voragine, come se si trovasse all'interno di una grotta, ma senza il cielo di pietra a sovrastarlo.

Piuttosto che prendere una decisione così grave pensò che sarebbe stato meglio buttarsi, in fondo aveva sempre desiderato sapere cosa ci fosse dopo la morte. Lasciò il misero appiglio a cui era aggrappato e cadde giù. Precipitò nella voragine che si era trasformata in un tunnel lungo e stretto, le cui pareti sfrecciavano accanto a lui, alla fine vide una luce e gli comparve la faccia del diavolo. Aveva il viso beffardo di Jag.

Nef si svegliò di soprassalto. "Ma vaffanculo!" urlò in preda all'agitazione. Si guardò intorno cercando di riconnettersi alla realtà e riconobbe la sua stanza da letto, immersa nella penombra della notte.

Quando il suo battito si regolarizzò, si mise seduto sul letto cercando di ricollegare tutta quella sequenza di assurdi sogni. Non ci voleva certo un genio per capirne il significato, stava immettendosi in un casino e la ragione stava cercando di avvisarlo prima che fosse troppo tardi.

Ma era già troppo tardi.

Afferrò il cellulare per controllare l'ora. Il fascio di luce che lo investì lo stordì ancora di più: erano ancora le 4:30 del mattino, aveva tempo per farsi una doccia e ripulirsi corpo e coscienza prima dell'arrivo di Rebecca.

Alle 10, puntuale come aveva preannunciato, Rebecca girò le chiavi del portone di casa e salutò portando dentro un'ondata di buonumore assieme a buste cariche di pacchetti e regali. Mancavano ancora 2 settimane a Natale e lei aveva già comprato regali per tutti, conoscenti compresi, mentre Nef ancora doveva realizzare che mese del calendario fosse.

L'uomo le andò incontro salutandola con un bacio. "Ciao! Tutto a posto a casa?" le chiese.

"Sì, ho lasciato lì tutti i regali per i parenti e ne ho comprati un po' per i nostri amici. Glieli daremo prima di partire! Non vedo l'ora di vedere la faccia di Susan quando vedrà cosa le abbiamo preso!"

'Cosa le abbiamo preso...' ripeté mentalmente Nef. Era parecchio tempo che lui e Rebecca erano un tutt'uno, lei si riferiva a qualsiasi cosa coinvolgendolo nella sua vita, includendolo come parte integrante di sé e lui, neanche 12 ore prima, aveva mandato tutto all'aria tutto facendo insinuare una terza incomoda fra loro.

Distacco. Il distacco era l'unico modo in cui riusciva a gestire quel fardello. Considerare Rebecca e Jane su due piani distinti, come se le due donne vivessero in due realtà parallele dalle quali lui poteva entrare ed uscire a suo piacimento, come se nel mondo dell'altra ci fosse una copia di se stesso, diverso da lui. Il 'vecchio' Nef, quello che aveva conosciuto Fade anni addietro ed era rimasto sospeso in un limbo fino al giorno in cui lei era tornata.

"Allora ti sono mancata?" Rebecca interruppe i suoi pensieri stringendogli la vita e avvicinando il suo sorriso alla sua bocca. "Certo" le disse cingendola e quella risposta significava anche a dimostrarglielo. La baciò e la spogliò concentrandosi sul da farsi, ma se controllare la mente era una cosa che gli riusciva abbastanza bene, non poteva dire lo stesso del corpo. Sperò vivamente di non fare cilecca, cosa che avrebbe portato la donna a sospettare qualcosa.

Rebecca invece rimase più che soddisfatta. Si alzò dal letto sfatto quasi subito, già proiettata sulle cose da farsi per il pranzo e per il pomeriggio. "Ordiniamo qualcosa, ti va?" propose infilandosi qualcosa al volo.

"Ok" rispose distratto l'uomo mentre si rivestiva. L'unica cosa che gli andava veramente in quel momento era fumarsi una sigaretta e così fece, andando sul terrazzo.

"Lasciamene un po', eh!" si raccomandò la donna dalla cucina, mentre prendeva il menù del loro ristorante a domicilio preferito. Persino le sigarette si dividevano, pensò Nef taciturno.

Per il pomeriggio era stata programmata una riunione agli studi. Visto l'imminente arrivo delle feste, la manager voleva spiegare gli impegni per il nuovo anno e fare gli auguri, corredati da regali, a tutti.

La donna iniziò il meeting annunciando l'ingaggio della band per il set fotografico di capi d'alta moda. La cosa galvanizzò Nef in maniera spropositata: non che necessitava di ulteriori conferme, ma il fatto che quella griffe li volesse come sponsor nonostante Rebecca gli avesse svaligiato il negozio, riprovava quanto la sua band stesse ancora cavalcando l'apice del successo.

Per il resto dell'incontrò non ascoltò quello che veniva detto, si era focalizzato su Jag, che sedeva proprio al lato opposto al suo. Gli aveva combinato un bel casino con quel messaggio che aveva mandato a Rebecca, ma aveva già trovato una pezza per tappare quella piccola falla. Si concentrò invece su ciò che gli aveva detto nella sua vecchia stanza agli studi: era davvero un esperimento? Possibile che quel moccioso petulante dicesse la verità? Avrebbe potuto spiegare parecchie cose: il suo atteggiamento decisamente fuori luogo per un dodicenne, i suoi ragionamenti cinici, la schiera di persone al suo servizio.... oppure era solo un ragazzino con troppa fantasia e con due genitori ricconi che non si curavano di lui? Fu riportato alla realtà dalla sua donna che, notando il suo distacco, gli diede un leggero colpo sulla spalla domandando con voce squillante: "Io e Nef passeremo il Natale a casa dei miei genitori e il giorno dopo andremo a trovare i suoi. Voi, invece?"

"Io lo passerò in una sala interrogatori con una luce puntata sulla faccia!" disse Ted scherzando, mentre Sushi gli assestava divertita una gomitata fra le terza e la quarta costola: quella sarebbe stata la prima volta che il ragazzo incontrava la famiglia di lei, e per farlo i due avrebbero dovuto affrontare un volo di 26 ore. Di fatto, a causa dell'enorme distanza che li separavano, non avevano mai avuto modo di vedersi prima.

Anche Jess aveva nei piani di visitare i suoi, ma per il resto delle vacanze sarebbe andato in un qualche luogo assolato di non specificata locazione geografica.

"Anche io me ne tornerò a casa. Purtroppo ho avuto delle complicazioni su un progetto che sto seguendo" esordì Jag accentuando la parola 'complicazioni' mentre lanciava un'occhiata torva verso Nef. Il bassista colse al volo la provocazione e gli rispose con un'occhiata altrettanto severa: doveva andare più in fondo alla cosa per capire cosa avesse in mente di fare.

Rebecca decretò la fine dell'incontro consegnando un regalino a tutti: si trattava di una palla di vetro con neve sintetica che cadeva su vari scorci della città. Jag ringraziò la donna con l'entusiasmo tipico dei suoi anni, cosa che fece raccapricciare Nef; quel dannato moccioso doveva essere per forza un attore pluripremiato oppure avere una personalità bipolare. Si alzò e andò a salutare il resto della band per allontanarsi da quella vista.

"Allora vecchio, che progetti hai per il nuovo anno?" lo canzonò Jess. "Mi cercherò un nuovo batterista, stronzo!" si punzecchiarono come erano soliti fare da anni, poi si diedero delle pacche sulle spalle per congedarsi. Nef strinse la mano a Ted augurandogli di sopravvivere e si fece abbracciare da Joanna. Rebecca li raggiunse per salutarli e nella confusione generale, quando si voltarono scoprirono che Jag se n'era andato come un'ombra. "Quel ragazzino sembra proprio uscito da un manga..." sussurrò Sushi lasciando intendere la non positività della sua affermazione.

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