Giro di boa - parte II

Il giorno di Natale Nef si ritrovò circondato dalle allegre e chiassose persone che componevano la famiglia di Rebecca. Si sentiva sempre un po' fuori posto in una famiglia così ciarliera; la sua non era stata delle più unite e spesso l'aveva usata come capro espiatorio per giustificarsi dell'essere "uscito fuori così stronzo".

Il mangiare e il bere erano sempre l'argomento predominante di quelle grandi rimpatriate, quindi l'uomo non doveva passare tutto il tempo a rispondere alla domanda scomoda che generalmente facevano solo le zie più anziane della donna, preoccupate per la loro nipote che, a detta loro, stava cominciando a sfiorire.

Anche per quell'anno l'aveva sfangata con una risposta vaga e lievemente sarcastica che significava né 'sì' né 'no'.

All'affievolirsi dell'ultimo sprazzo di 'joy to the world', quando i più giovani si erano rintanati a giocare con i regali ricevuti e i più anziani giacevano mezzi collassati su divani e poltrone, Nef gustò un liquore di fine pasto, seduto accanto a un largo camino nel quale un fuoco ruggiva fiero contro la temperatura invernale.

Guardò con occhi assopiti tutte quelle persone che lo circondavano e si immaginò come il loro atteggiamento sarebbe repentinamente cambiato se avesse annunciato che voleva rompere con Rebecca. Si sarebbero arrabbiati, scandalizzati, sentiti traditi con lo stesso impeto che invece avrebbe dovuto appartenere solo alla sua donna. Ogni volta che si infilava nel letto della rossa tradiva tutti loro. Loro, che adesso lo circondavano e lo consideravano parte della famiglia, non avrebbero esitato un secondo ad appenderlo alla forca se avessero saputo. I comportamenti delle persone sono strani. La mente è labile, come gli aveva detto Jag, troppo concentrata a perseguire con caparbietà degli schemi prefissati.

Stava quasi per addormentarsi, cullato dal roteare su quel ragionamento, che Rebecca lo destò. "Ma che fai? Vai in coma come i vecchi?" lo prese in giro "Vieni!" gli afferrò un braccio e lo trascinò in camera.

Quando la porta si chiuse dietro di loro e i rumori si attutirono lasciandoli circondati in una pacifica aurea di intimità, la donna gli diede un pacchettino incartato da carta rosso bordeaux con un fiocco argento.

"Buon Natale" disse emozionata nel dare quel regalo, più di quanto lo sarebbe stata nel riceverlo.

L'uomo lo scartò sotto lo sguardo attento di lei e ne trasse un ciondolo a forma di plettro agganciato a una catena sottile di oro bianco. "È bellissimo" disse apprezzando molto quell'oggetto. La donna glielo volle mettere subito al collo. La catena era leggermente più corta rispetto a quella dove vi erano agganciate tutte le cianfrusaglie che Nef portava sempre appresso; non gli avrebbe mai chiesto di toglierle per far spazio al suo regalo, quindi aveva optato per una soluzione più semplice e diretta.

Il bassista, a sua volta, le mostrò un pacchetto. "Buon Natale anche a te" le disse con una punta di amarezza per il suo gesto. Quel regalo aveva volutamente una forma lunga e schiacciata a dissipare fin da subito ogni dubbio che potesse trattarsi di un anello di fidanzamento. Era stato crudele, ma lo sarebbe stato ancora di più illuderla fino all'apertura della scatola.

Lo scherzo del moccioso gli era costato caro. Non che per lui i soldi fossero un problema, ma per farsi perdonare un equivoco del genere aveva dovuto optare per qualcosa di veramente fuori mercato. Rebecca sollevò dalla scatola un delicato orologio d'oro con incastonati dei brillanti: un regalo del genere avrebbe fatto svenire chiunque. Dall'espressione di lei, Nef ebbe quasi il dubbio che potesse venir scambiato per qualcosa di persino più simbolico di un anello di fidanzamento. Si limitò a guardarla un po' preoccupato delle conseguenze di quel dono. "È meraviglioso!" disse a bocca spalancata, con gli occhi che le luccicavano come quelle stesse pietre dure. Si fece aiutare a indossarlo e poi lo baciò stringendolo forte, cercando di colmare la distanza che vedeva fra il suo regalo e quello che aveva appena ricevuto. L'emozione era così forte che si precipitò in sala per mostrarlo a tutti, lasciando l'uomo da solo nella stanza. "Forse era davvero meglio l'anello..." mormorò fra sé.

Quando Nef si ricongiunse agli altri venne accolto dagli sguardi di approvazione delle vecchie zie che annuivano e gli sorridevano complici. Sentì un mezzo brivido percorrergli la schiena e giurò che l'avrebbe fatta pagare a Jag, non appena i suoi scagnozzi si fossero distratti un secondo. Disse frasi di circostanza e tentò di sminuire il più possibile il suo gesto, ma si rese conto che quell'affare al polso di Rebecca brillava di luce propria e parlava prepotente al posto suo.

La sera, esausto, si ritirò finalmente in camera da letto, convinto che Rebecca volesse dimostragli un altro po' di gratitudine, ma lei era più propensa a parlare.

"Mi piace moltissimo" disse mentre toglieva il gioiello dal polso per posarlo sul comodino accanto a lei "Ma sinceramente speravo in qualcos'altro."

«Ahia» pensò il bassista: non solo non avrebbe consumato, ma il suo regalo non aveva sviato nemmeno di un centimetro il discorso che voleva evitare.

"Capisco" cercò di prendere il discorso alla larga "Non dico che non ci pensi, ma per ora stiamo bene anche così, no?" Non aveva nemmeno il coraggio di pronunciare la parola proibita, quasi a timore che potesse venir interpretata come proposta ufficiale.

"Viviamo insieme da due anni, che cosa cambierebbe?"

"Niente cambierebbe, infatti non capisco questa tua ossessione!"

"Non è un'ossessione, ma una naturale conseguenza dopo due anni di convivenza!!" espose decisa.

"Senti! Non ho voglia di discutere! E non ho voglia di dover fare una cosa solo perché me lo impone un'etichetta! Stiamo già insieme: hai paura che scappi se non mi metti un legaccio al collo?"

Le parole gli uscirono come un fiume in piena e non riuscì a controllare alcuni termini che potevano essere sostituiti da altri. Si rese conto che l'aveva colpita dritta in faccia, ma lei tenne la botta e gli occhi fermi su di lui.

Non replicò, spense la luce e si infilò sotto le coperte, lasciandolo in piedi nel buio della stanza.

La cosa migliore che Nef poteva fare era andare a farsi un giro per sbollire la rabbia, afferrò il cappotto e, senza rispondere alle domande di coloro ancora svegli a fare due chiacchiere, infilò l'uscita di casa.

I genitori di Rebecca vivevano in una caratteristica cittadella in cui il tempo sembrava essersi fermato. I palazzi, prevalentemente di colore ocra e marrone, erano stati spolverati da una sottile coltre di neve dai riflessi azzurrognoli. Nef camminava per le strade semi-deserte; solo degli ubriachi o delle persone particolarmente desiderose di starsene da soli sarebbero usciti con quel freddo.

Si sedette su una panchina ignorando la neve che la ricopriva, prese il telefono per controllare l'ora e vide che gli era arrivato un sms. Era Jane che, in barba ai patti, gli aveva mandato un brevissimo messaggio di auguri. Ci mancava solo che Rebecca lo scoprisse per far esplodere il putiferio; ma non doveva biasimare lei, e - anche se faticava ad ammetterlo - non poteva nemmeno biasimare il moccioso: prima o poi questo discorso sarebbe saltato fuori e non riusciva a trovare risposta a una domanda che lo tormentava. Sarebbe stato diverso se Fade non fosse riapparsa? Avrebbe fatto il passo con Rebecca?

Decise di ingannare il tempo rispondendo alla ragazza: 'Auguri a te. Spero che te la stai passando meglio di come me la sto passando io. Qui si gela. Però niente più strappi alle regole. Ci sentiamo al tuo ritorno'.

Inviò e cancellò come di consuetudine.

Due giorni dopo Jane si alzò di buon'ora per uscire. La clinica privata in cui era stata curata l'avrebbe ricoverata per tre notti per sottoporla ad accertamenti e altra roba che le avevano spiegato, ma di cui lei non aveva capito niente. Non lo faceva di buon grado, non le andava che qualcuno l'esaminasse e scavasse nei suoi pensieri, anche se veniva fatto per il suo bene; ma il modo apprensivo con cui la guardavano i suoi genitori accresceva la sua remissività. Preparò un piccolo zaino con le cose che le sarebbero servite e ci aggiunse il suo lettore mp3 e un blocco notes per scribacchiare appunti.

La ragazza, affiancata dai suoi genitori, oltrepassò la grande entrata a vetri che introduceva a un corridoio bianco e asettico, pavimentato da larghe piastrelle blu oltremare, per dirigersi verso il bancone della reception. La donna che vi capeggiava la riconobbe subito e chiamò al telefono degli infermieri al fine di scortarla nella sua stanza.

Mentre percorreva i meandri della struttura le ritornò alla mente una peculiarità che l'aveva incuriosita anche quando, un anno prima, percorreva quei luoghi in direzione opposta: non vi erano molte altre pazienti lì intorno, era una clinica privata certo, ma possibile che non c'erano altre persone da visitare oltre a lei? Vedeva entrare e uscire da delle porte del personale col camice bianco. Provando a sbirciare dentro intravedeva solo macchinari che sembravano molto moderni, ma non una traccia di altri 'civili' come lei.

Diede uno sguardo fugace a suo padre e sua madre che l'accompagnavano, la donna era sovrappensiero e indossava uno sguardo serio, ma appena notò l'attenzione della figlia su di lei ritrovò tutta la sua parlantina, accendendosi come un distributore in cui viene inserita la moneta. "Sei preoccupata tesoro? Vedrai che è solo una visita di controllo, niente di spaventoso!" la rassicurò sorridente. Suo padre bofonchiò qualcosa per appoggiare quell'affermazione. Arrivarono a una porta uguale alle altre e gli infermieri informarono gli accompagnatori che si sarebbero dovuti separare dalla ragazza. "Verremo a farti visita presto!" l'abbracciò la donna. "Chiamaci appena puoi" le raccomandò l'uomo.

Jane era spaesata, non capiva perché dovevano lasciarsi così in fretta, avrebbe voluto un po' più di compagnia per ambientarsi meglio in quel luogo così lontano dal concetto di 'accogliente'.

Uno dei due infermieri accompagnò i genitori all'uscita, mentre l'altro rimase con lei per darle istruzioni. "Puoi indossare quella divisa, a breve verrà un addetto per un primo controllo" disse chiudendo la porta della sua stanza.

La ragazza rimase piantata come una beota, indecisa se eseguire quei pochi ordini impartiti. Sentì qualcosa che le diceva di scappare da quel luogo, ma doveva essere solo una sensazione del momento.

Il camice che le avevano lasciato era di un azzurrino pallido e triste, immaginò che non dovesse indugiare oltre: tolse i vestiti e lo indossò. Si sistemò quindi sul letto, unico mobilio di quella stanza al di fuori di un comodino e dell'armadio dove mettere quei pochi vestiti che si era portata. Non aveva molta voglia di arrovellarsi, preferì prendere le cuffie e immergersi nella playlist dei Momuht, per alleviare l'attesa.

Poco dopo la porta si aprì con uno scatto, la ragazza si tolse le cuffie e per un momento le passò un fugace pensiero che però le sfuggì subito: era stata chiusa dentro?

Una donna dai capelli castani saldamente legati e il viso affilato le si avvicinò leggendo qualcosa da una cartella. "Jane Hurt?"

"Sì"

"Anni?"

"Venti"

Si sedette sul letto accanto a lei e le puntò una luce negli occhi. Prima una pupilla, poi l'altra, prese a scrivere cose su uno schema precompilato mentre la tempestava di domande; alcune le sembrarono più un farsi i fattacci suoi che dei veri e propri quesiti atti a capire il quadro generale del suo stato di salute.

Dovette ammettere cose che avrebbe preferito tenere per sé, non osava immaginare cosa avrebbero potuto pensare i suoi se avessero saputo che l'aveva già 'data via' al primo capitato.

La donna le prelevò alcune fialette di sangue. Jane non aveva un buon rapporto con gli aghi, quei piccoli steli scintillanti le creavano disagio: ogni volta che un ago le irrompeva nella pelle sentiva un'amplificata sensazione di rottura dei tessuti e, allo stesso modo, quando l'ago si ritraeva, era come sentire il freddo acciaio di una lama uscirle dal corpo, portandosi la sua vita via con essa. Una sensazione orribile.

Per il resto della giornata fu lasciata da sola. Scrisse un messaggio ai suoi genitori per rassicurarli che stava bene. Desiderava ardentemente scriverne uno anche a Nef, ma non voleva rompere di nuovo il patto che avevano concordato. Immaginò che se l'uomo avesse saputo della situazione in cui si trovava forse sarebbe stato un po' più clemente nei suoi confronti, ma non le era andato di raccontargli quel particolare, non se l'era sentita.

La noia di quella giornata tutta uguale fu interrotta solo quando le portarono il pranzo e la cena: nulla di meglio di ciò che passano di solito in un comune ospedale. Evidentemente si servivano tutti da uno stesso fornitore al quale avevano esportato le papille gustative per sbaglio. La ragazza sentiva le palpebre pesanti, cercava di tenersi sveglia per poter scrivere qualche pensiero sulla sua agenda, ma la testa le cadeva in avanti, le luci si erano attenuate in automatico col calare della sera. La monotonia l'aveva sfinita e cadde addormentata nel letto.

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