Giro di boa - parte I

Nonostante avessero dieci giorni a disposizione, Nef e Jane si videro solo due volte prima della partenza di lei.

Per via del vicino del piano di sotto che l'aveva già visto una volta intrufolarsi lì dentro, che doveva portare a casa risultati concreti delle sue prove agli studi e che la sua vita con Rebecca doveva comunque avere la priorità su tutto, Nef aveva ridotto il loro tempo assieme a un paio di sporadici incontri. L'ultimo, il giorno prima del volo, passarono tutto il pomeriggio nel letto.

L'uomo le si avvinghiò sopra quasi con disperazione, come se temesse di perderla per sempre. Memorizzò il suo profumo, il sapore del suo sudore e le lasciò anche un vistoso segno sul collo a marchiarla come sua proprietà indiscussa. La ragazza non capiva il perché di tanta irruenza, ma quei gesti le facevano impazzire i sensi; si sentiva galvanizzata dall'idea di essere posseduta da lui, di essere l'oggetto delle sue passioni, di eseguire i suoi desideri. Le fece promettere che sarebbe tornata da lui e le affermazioni che riceveva in risposta si confondevano ai gemiti di piacere.

Quando la porta si chiuse dietro le spalle del bassista, la rossa si ritrovò travolta da un misto di passione e disperazione. Non voleva più partire, desiderava solo che quel sogno a occhi aperti continuasse in eterno, invece era costretta a spezzarlo per delle stupide festività. Si fece coraggio e si sforzò di pensare alle più razionali cose da sistemare prima della partenza.

Nef stava tornando a casa con i pensieri in subbuglio. Aveva raggiunto la stanza con le pareti in tessere di puzzle che gli erano crollate di fronte agli occhi, ma non poteva tornare indietro come aveva fatto nel sogno.

Concluse che la soluzione di tutto era alla fine dello stesso: Jag.

Parcheggiò come sempre sotto casa, ma temporeggiava, non riusciva a ritornare al 'mondo' dove l'aspettava Rebecca, pronta a dargli un bacio e a chiedergli l'amore che meritava. Sentì, per la prima volta, il suo 'io' spezzarsi in due, capì il simbolismo del trovarsi su di un filo sospeso nel vuoto, nel bel mezzo di una decisione impossibile da prendere. Strinse il volante della sua auto spenta e cercò di calmarsi inspirando ed espirando profondamente. «Va tutto bene» si ripeté più volte. Si era portato dietro anche il basso degli studi per rendere il suo bluff più convincente. Non aveva più bisogno di 'provare' là, in fondo.

Prese un ultimo profondo respiro e si preparò ad affrontare per l'ennesima volta la sua stessa menzogna.

Il pomeriggio successivo Jane chiamò un taxi per farsi portare all'aeroporto. Aveva portato solo un piccolo bagaglio a mano e il trasportino con i gatti. Per fortuna i due mici erano ancora abbastanza piccoli per stare assieme in un'unica gabbietta. La ragazza li aveva presi da una sua disperata ex collega di lavoro, la cui gatta aveva partorito, che non poteva permettersi il lusso di mantenere altri animali. Aveva detestato la sua leggerezza: se uno non sa come gestire dei cuccioli, dovrebbe far sterilizzare il proprio animale. La considerava una cosa troppo logica da non essere capita. Ad ogni modo per lei quelle piccole palle di pelo erano state una benedizione. Una persona come lei, disabituata al contatto con altri esseri umani, aveva trovato davvero conforto nella loro compagnia, in una città di sconosciuti.

I due cuccioli piangevano dalla paura per i forti rumori del traffico, lei cercava di calmarli avvicinando il viso alla grata e sussurrando loro che c'era lei a proteggerli, ma non c'era verso. Sperava davvero che gli altri viaggiatori non le facessero storie per via dei miagolii, era anche timorosa che la costringessero a imbarcarli nella stiva. Piuttosto che permetterlo non sarebbe partita affatto, decise.

Si infilò nel taxi con la sicurezza di aver sistemato tutto. Come da contratto aveva dato un mese di preavviso al proprietario della casa, quindi per tutto gennaio poteva sostare nell'appartamento in attesa di trovare un nuovo alloggio. Rimaneva solo di trovare un altro lavoro, ma per quello era inutile preoccuparsi prima del suo ritorno.

Quando l'aereo decollò sentì delle lacrime scivolarle sul viso, erano uscite senza che se ne rendesse conto e si ricongiungevano pesanti sul tetto del trasportino che teneva sulle gambe, all'interno del quale i suoi animali finalmente dormivano, sfiniti dall'eccessivo sballottamento.

Nell'appartamento di Nef e Rebecca, frattanto, era esploso il periodo pre-natalizio. La donna aveva finito di sistemare le ultime decorazioni da circa una settimana, in occasione della cena con i loro amici, e ora la loro casa sembrava una versione ridotta di Time Square: luci intermittenti e festoni iridescenti erano montati un po' ovunque.

Nef non ci badava più di tanto, sapeva che lei adorava lasciarsi trascinare dalla febbre delle festività, ma aveva messo in chiaro fin da subito che lui non avrebbe mosso un dito per contribuire a trasformare la loro casa nella riproduzione della capanna degli elfi di Babbo Natale. Considerato poi che lui era un "ex satanista dei miei stivali", come si era autoproclamato, non trovava nessuna ragione logica per seguire quell'assurda tradizione.

L'uomo aveva deciso di passare i giorni che lo separavano da un noioso pranzo di Natale a casa dei suoi 'suoceri' - come già amabilmente si autodefinivano i genitori di Rebecca - nella più assoluta nullafacenza.

Ogni tanto rispondeva alle mail di auguri che gli arrivavano da persone più o meno conosciute e si domandava raramente cosa stesse facendo Jane. I due avevano deciso di comune accordo di non sentirsi durante le feste per non rischiare di farsi scoprire.

D'un tratto ricevette un sms da un numero sconosciuto, ma il messaggio era rivelatorio: 51°29'03.7"N 0°15'38.5"W 3PM.

Coordinate. Le stesse che aveva dato a Jane al loro primo appuntamento. C'erano solo due persone che avrebbero potuto mandargli quel messaggio e sperò con l'anima che non si trattasse della seconda che aveva in mente.

Un quarto prima delle tre, l'uomo uscì con la scusa di comprare le sigarette, immaginava che l'incontro sarebbe stato breve e conciso. Rebecca era piantata di fronte alla TV come una bambina, a guardare l'ennesima replica natalizia di un lungometraggio a cartoni animati che tanto le piaceva. Nulla l'avrebbe smossa da lì davanti, cosa che convinse ancor di più l'uomo sull'identità del mandatario del suo appuntamento.

L'aria fuori era cristallina e pungente. La sua città era spietata d'inverno e costringeva tutti a camminare con il collo incassato nelle spalle, con l'unico conforto del proprio stesso fiato a scaldare la piccola porzione di faccia coperta da una pesante sciarpa.

Si diresse nel parco vicino casa e scavalcò la recinzione che circondava il laghetto. L'erba intorno era brinata e lo stesso cerchio d'acqua presentava una sottile superficie ghiacciata. Non notò niente di strano in giro, tranne che la porta che di solito serrava l'entrata al piccolo tempio bianco, era leggermene socchiusa. Quest'ultimo particolare dissipò ogni suo dubbio: solo Jag poteva avere dei modi così teatrali di agire.

Entrò dentro e si ritrovò in una costruzione del tutto spoglia, con deboli fasci di luce che penetravano dalle finestre laterali. Si fermò al centro, attendendo che il moccioso facesse la sua comparsa.

"Immagino che devi dirmi qualcosa" la voce dell'uomo rimbalzò sulle pietre risonanti.

"Voglio solo sapere cosa le hai fatto ritornare alla mente" sibilò il ragazzino da un angolo non definibile del tempio. "Sicuramente non di Mark" sottolineò con sdegno quel nome fasullo "E non si ricorda neanche di me, per lei io sono solo il bassista che ha visto alla TV. Non l'ho mandato all'aria il tuo esperimento, se è questo che temevi!"

"Questo è presto per dirlo." Nef si voltò in direzione della voce, ma non c'era nessuno: quella dannata struttura cilindrica riusciva a trasportare i suoni da una parte all'altra. "Appena l'avrò sottoposta a tutti gli esami te lo saprò dire."

"Smettila di crederti uno scienziato ed esci fuori!"

"Io non mi credo uno scienziato!"

Finalmente l'uomo lo individuò. Jag era a pochi metri da lui, nella penombra, affiancato da due uomini. Gli occhialoni sulla sua testa proiettavano riflessi rossi sulle mura di marmo. Era la prima volta che si presentava palesemente con i suoi scagnozzi al fianco. Che avesse paura di lui o stesse solo cercando di intimorirlo, Nef non lo seppe stabilire.

"Ho capito: la città dove vivono i suoi finti genitori è la stessa dove l'avete curata. Come hai architettato una cosa così complessa? Non sta in piedi!"

"Soldi mr. Shaw. Come ti ho sempre spiegato.

I genitori sono persone che pago per recitare la loro parte, le foto sono manipolazioni di professionisti che ho pagato per renderle credibili, tutto il team di medici che ha collaborato alla riabilitazione è sotto la mia stretta sorveglianza. Se questo esperimento avrà successo mi frutterà almeno dieci volte quanto investito, il che significa che anche la tua band potrà dormire sogni tranquilli per parecchio tempo, o forse credi davvero che il suo successo dipenda solo dalla vostra bravura?"

Quella scoccata trafisse il bassista. "Cosa cazzo vuoi dalla mia band? Perché fra tanti gruppi nel mondo sei venuto proprio da noi?"

"All'inizio mi piacevate. Sul serio. E quando a me piace qualcosa faccio di tutto per averla. È stato facile rintracciare i vostri contatti e quando hai messo il giochino della vergine online, cavolo! Mi sono divertito da matti a cercare una persona che corrispondesse ai tuoi deliri e a vedere la tua faccia quando te l'ho sbattuta davanti! Purtroppo le cose si sono incasinate, Fade è quasi schiattata e tu ti sei sfracellato contro un muro, stavo quasi per lasciare tutto, poi è arrivata Rebecca che è riuscita a rimettere in piedi te e la band. Mi è sempre piaciuta molto Rebecca..."

"Che cazzo vuoi dire? Non parlare di lei a quel modo!" provò a minacciarlo.

"Hai paura che qualcuno te la porti via, mr. Shaw? Vuoi Fade ma non vuoi lasciare Rebecca! Le ferirai entrambe."

"Come se te ne importasse! Hai ragione: sono un coglione ma devo capire! Fade mi è stata strappata via troppo presto e io non so più davvero cosa devo fare!" Le sue stesse parole gli diedero alcune delle risposte che stava cercando.

"La mente umana: così fragile ma testarda nel perseguire i propri schemi!" giudicò sadico.

"Vuoi infilare degli elettrodi anche a me? Te lo concedo, ma riportami qui Fade!"

"Non ho interesse nella spiccia psicologia, io studio i danni effettivi ai tessuti, quindi non ho nessun tornaconto nell'aiutarti. Ma non c'è bisogno che ti dica quello che già sai: se Fade tornerà, mi divertirò molto a osservare per quanto tempo riuscirai a sostenere questa situazione! Ci vediamo! Ah, e fammi sapere cosa penserà Rebecca del tuo regalo di Natale!" lo schernì voltandogli le spalle e lasciandolo con la voglia irrefrenabile di rompergli la faccia.

L'aereo di Jane era atterrato nell'aeroporto dopo un paio di ore di volo. La ragazza si diresse subito all'uscita in quanto non aveva bagagli imbarcati; notò immediatamente fra la folla spiccare la figura colorata di sua madre che le corse incontro. L'abbracciò come se non la vedesse da anni, tempestandola di domande. "Come stai? Come è andato il viaggio? Come ti trovi col lavoro? E questi gattini?" spostò l'attenzione sul trasportino dove le bestioline avevano ripreso a disperarsi. La donna prese la gabbietta cominciando a investirli di attenzioni, Jane ebbe quindi il tempo di salutare suo padre con un bacio, il quale prese il trolley al posto suo. In macchina la ragazza rispose nel modo più vago possibile alle domande: si trovava bene, aveva un appartamento decente, non troppo lontano dal centro, e il lavoro non dava grane. Raccontò qualche aneddoto passato su quello che faceva, ma alla fine sapeva che i suoi genitori non l'avrebbero tartassata più di tanto, visto lo stato d'animo con cui era partita, sapevano già che non si era fatta amici.

La donna seduta sul sedile di fronte aveva quarantacinque anni, era bassina e avvolgente, come si immagina un qualsiasi ideale di madre, col viso gioviale e sempre vestita con abiti colorati che ne sottolineavano l'umore. Aveva una parlantina irrefrenabile, al contrario di suo marito che parlava di rado, se non per dispensare perle di saggezza. Jane sicuramente non aveva preso la personalità di lei.

L'uomo alla guida era alto e serio, caratterizzato da dei baffi che gli davano una vaga aria da professore universitario di altri tempi. Si erano sposati ventidue anni prima e Jane era la loro unica figlia. Molte volte la ragazza avrebbe voluto chieder loro come si facesse a capire l'amore, ma era un argomento ancora troppo doloroso per la sua mente convalescente. Arrivata a casa liberò le 'belve', preparò la loro pappa e la lettiera e andò a rifugiarsi nella sua stanza. Si buttò sul letto cercando di non pensare a Nef, ma era impossibile, vista la marea di poster che aveva lasciato lì appesi. Era proprio la peggiore delle fangirl, si autoaccusò vergognandosi.

Abbracciò il cuscino e si mise a guardare il manifesto ufficiale di 'Rebirth'. Un uccello nero con ali dispiegate campeggiava su un fondo rosso; in basso si intravedevano i visi in controluce della band che si amalgamavano in un design minimale alla grafica.

Jane si concentrò sugli occhi di Nef che la fissavano dal poster e sentì salire una voglia pazzesca di farci sesso. Ci pensò sua madre a fargliela passare in un baleno, entrando senza preavviso nella sua stanza.

La ragazza cercò di non far vedere la sua faccia in ebollizione e, nascondendola nel cuscino, si limitò a bofonchiare che era stanca e voleva riposare, ma la donna non voleva sentire ragioni e partì con l'interrogatorio sul come si sentisse. Era anche comprensibile, da poco più di un anno Jane aveva ripreso a camminare con le proprie gambe ed era subito partita per un luogo dove non poteva fare affidamento su nessuno. Era quindi prevista per lei una visita completa sul suo stato di salute in quei giorni che era tornata per le feste.

"Sembri diversa. Che c'è? Hai conosciuto qualcuno?" le chiese la donna smascherandola in un secondo. "No!" si agitò aggiustandosi il collo della maglia, messa appositamente per celare un mastodontico succhiotto.

"E dai! Sono stata giovane anche io, cosa credi!" rise cercando di farla sentire a suo agio, ma lei sentiva il cervello dolerle per la troppa pressione sanguigna che doveva aver raggiunto. "Com'è? Bello?"

Bello era dire poco. Nef era tutto ciò che non avrebbe mai pensato di poter raggiungere e anche l'unica persona con la quale si sentiva a proprio agio. Si soffermò su quell'ultima constatazione.

Osservò il volto della donna seduta di fronte a lei. Era sua madre, ma c'era qualcosa che non andava: quando veniva abbracciata, quando ci parlava, lei non sentiva niente nei suoi confronti e se ne vergognava. Era come se stesse interagendo con un estraneo qualunque, eppure doveva esserci per forza un legame sottopelle, qualcosa di indefinito che si sente quando si pensa ai propri genitori.

L'incidente doveva proprio averle fottuto il cervello, si giustificava.

"Non è niente di serio" concluse convinta che le sue stesse parole fossero, in fondo, la cruda verità. Sarebbero passati giorni nei quali l'uomo non l'avrebbe vista, mentre, al contrario, la sua fidanzata era costantemente presente nella sua vita. La donna capì che era giunto il momento di lasciarla con i suoi pensieri e si alzò dal letto annunciando che sarebbe andata a preparare la cena.


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