Cicatrici
Angolo autrice
Questo è uno dei miei capitoli preferiti, dove introduco meglio un nuovo personaggio (comparso di sfuggita nel primo libro): Lewie. (Si legge "Lui". LOL, niente, ci tenevo a dirvi come si legge.)
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La mattina seguente Jane fu svegliata da un breve bussare alla porta che si spalancò subito dopo, senza nemmeno attendere risposta. Un infermiere le aveva portato la colazione e delle brevi istruzioni su quella che sarebbe stata la sua tabella di visite. Quel giorno avrebbe eseguito una risonanza magnetica e nel pomeriggio un primo elettroencefalogramma.
La lasciarono sola sul lettino, collegata a un macchinario mediante un copricapo intrecciato da fili e elettrodi che mandava onde disordinate su un monitor. Non sapeva per quanto sarebbe dovuta rimanere lì, ma già sentiva salire la noia.
Provò a capire se quelle righe leggessero davvero quello che pensava. Con gli occhi puntati sullo schermo, immaginò l'ultima sera che aveva passato con Nef, ancora vivida nella sua mente, ed ebbe un brivido. Si aspettava un qualche tipo di cambiamento nelle onde ma non scorse nulla: erano scomposte, imprevedibili, senza nessun senso logico del loro movimento. Eppure erano la rappresentazione di quello che stava succedendo nella sua testa, semplicemente non era in grado di codificarlo. Il rumore cadenzato dei macchinari la fece assopire per poi cadere in un sonno profondo.
Fu risvegliata in un'ora imprecisata dall'irrompere di alcuni infermieri nella stanza, i quali trascinavano una barella.
"Presto! Bisogna scansionare l'attività cerebrale e prepararsi a operare in caso di degenerazione!"
La ragazza avrebbe voluto alzarsi per capire cosa stava succedendo, ma i fili elettrici che la legavano alle apparecchiature non le permettevano di muoversi, intravide solo qualcuno che veniva trasportato con foga su una lettiga circondata di persone, verso un macchinario situato nella parte opposta della stanza. Subito, una di loro si preoccupò di sistemare un paravento mobile per non permetterle di spiare oltre, poteva comunque sentire i commenti del personale agitato.
"Che cosa è successo?"
"Deve aver avuto uno scompenso. È svenuto ed è caduto a terra riportando un trauma all'occhio destro!"
"Procediamo come da prassi: monitoraggio dell'attività cerebrale e terapia intensiva! Lo sapevo che prima o poi sarebbe scoppiato come un palloncino! È stata una follia iniziare questo esperimento!"
"Dottore!" Una voce ferma di donna irruppe nel discorso, senza aggiungere altro.
Ci fu una pausa in cui tutto lo staff sembrava essersi paralizzato. Un uomo sulla cinquantina uscì da dietro il paravento incontrano lo sguardo sgomentato di Jane, rigida, stesa sul lettino.
Si avvicinò al macchinario a cui era collegata osservando le tracce della sua attività e premendo un paio di bottoni.
La ragazza, intenta a osservare i suoi movimenti, non si accorse che un'infermiera le si era avvicinata. Le venne preso un braccio. "È solo un tranquillante. Non temere" e l'ago le irruppe nella pelle. Ebbe il terrore che la stessero facendo fuori, ma durò poco, il tempo che il calmante facesse effetto. Sentì le membra farsi pesanti e chiuse gli occhi, mentre le voci delle persone attorno si facevano sempre più indistinte e lontane.
La rossa si risvegliò stordita alle prime luci del giorno che filtravano dagli spiragli di alcune serrande lasciate semiaperte. Nella stanza non c'era nessuno, le sembrava di aver dormito per ore, si guardò in giro in cerca di un orologio, ma era circondata solo da macchinari complessi.
Voltando la testa di lato intravide il paravento verde pallido e ricordò quello che era successo; fra i 'bip' e il ronzio delle attrezzature, poté distinguere il respiro profondo di qualcuno nella stanza: chiunque fosse non se la doveva star passando bene.
Sentendosi schiacciata dalla situazione, cercò di sistemarsi in una posizione più comoda ma il lettino su cui era distesa emise un fastidioso scricchiolio.
Il respiro si arrestò.
"Chi c'è?" Una voce che sembrava provenire da una caverna, squarciò la tensione nella stanza.
Jane trattenne il fiato per la paura, indecisa se far finta di non essere lì.
"Io..." rispose alla fine con un filo di voce. "Sono anche io in cura qui..." aggiunse a giustificare la sua presenza in quella stanza appena rischiarata. Ci fu un interminabile silenzio.
"Come ti chiami?"
"Jane, e tu?"
"Jane... e cosa ti è successo, Jane?" La voce senza volto evitava di rispondere alle sue domande.
Lei si innervosì: le sembrava di star parlando con qualcuno che stava per esalare l'ultimo respiro e voleva sentire una voce che gli parlasse, per non avere la sensazione di star morendo da solo.
"Ho avuto un incidente anni fa. Mi hanno salvata in questa clinica e adesso mi stanno facendo delle analisi..."
"Hai una famiglia, Jane?" la interruppe con quella sua insistente peculiarità di chiamarla per nome.
"Sì, i miei genitori..."
"I tuoi genitori..." rise sommessamente di una risata che doveva essergli costata un dolore lancinante, in quanto gli si smorzò in gola. A quella reazione la rossa non seppe se proseguire.
Il respiro affannoso aveva ripreso a farsi sentire.
"È una storia falsa. La tua come la mia. Mi avevano illuso che avrei potuto vivere in eterno e invece non durerò la metà degli anni di una persona qualsiasi. Viviamo in una menzogna, Fade."
La ragazza credette di vedere un picco in un tracciato del suo encefalogramma. Aveva davvero sentito pronunciare la parola 'Fade' o si era sbagliata? Doveva capire chi si celava dietro quel velo verde e quella voce rauca e sfiatata.
Provò a togliersi quell'elmetto costituito da molteplici elettrodi. Le bastò sganciare una cintura e sfilarselo per ritrovarsi libera. Si alzò quindi a fatica, sentendo le gambe cedere a ogni passo che l'avvicinava a quella barriera frapposta. Deglutì, poi si mostrò al suo interlocutore, inorridendo.
Su un lettino giaceva un bambino con un bendaggio sull'occhio. Dalla rete formata da fili ed elettrodi che monitoravano il suo andamento celebrale, spuntavano ciuffi di capelli biondi che sfumavano al rosa. La ragazza trasalì quando si accorse che sulle sue braccia vi erano segni di cicatrici sottili in corrispondenza delle giunture e, anche sul collo, si intravedevano le testimonianze di interventi in corrispondenza delle clavicole, lasciate appena scoperte dalla divisa della clinica.
Il ragazzino la osservava con l'unico occhio scoperto, inquietantemente spalancato e un sorriso da serial killer stampato sul volto. "Buh!" la schernì nonostante fosse visibilmente tirato dal dolore.
Jane indietreggiò. Che cosa poteva essere successo a quel bambino per essere ridotto in quello stato? Erano forse stati 'loro'? Quella distesa di cicatrici lo facevano sembrare la personificazione di un novello mostro di Frankenstein e non osava immaginare che qualcosa potesse nascondere sul resto del corpo.
Si precipitò alla maniglia della porta cercando di aprirla, ma fu inutile. Erano chiusi dentro. Cominciò a battere e a urlare fino a che il personale non intervenne a sedarla.
Si svegliò nella camera della clinica. Un profondo mal di testa e la sensazione che qualcosa le fosse stato strappato via, aleggiavano nella sua mente.
Tentò di ricordare come fosse ricapitata lì, la bombardavano immagini confuse e sconclusionate alternate a flash colorati, come sottili linee che le pulsavano nel cervello. L'arrivo di un infermiere interruppe le sue congetture. "C'è stato un problema al macchinario questa notte e non abbiamo potuto raccogliere tutti i dati che ci servivano. Dobbiamo ripetere il procedimento" annunciò.
Jane si stranì: era forse per colpa di quegli aggeggi infernali che si sentiva così scombussolata?
L'operatore le si avvicinò per un prelievo e quando la ragazza stese il braccio, notò un livido recente.
«Cosa cazzo sta succedendo qui?» si domandò sentendo salire una sensazione in corpo che non provava da tempo. Un misto fra furore e ribellione.
Passò l'intero pomeriggio con il casco attaccato al macchinario, non poté fare a meno di notare che c'era qualcosa di diverso nella stanza, ma non riusciva a ricordare cosa. Gli occhi le si chiusero, cadendo ancora nel torpore che fa da anticamera all'oblio.
Il giorno che segnava la fine di quell'anno ricco di avvenimenti, Rebecca lo trascorse organizzando la festa di Capodanno in uno dei locali più 'in' della città.
Si era lasciata alle spalle il litigio con Nef, anzi si era persino scusata per aver rovinato il loro Natale per un banale capriccio, una pretesa non necessaria.
Anche lei era cambiata il giorno in cui aveva saputo che l'uomo si trovava aggrovigliato di un ammasso di lamiere. Il mondo le era crollato addosso e mentre lasciava la sua città per raggiungerlo in ospedale, si era ripetuta mille volte che non voleva perderlo. Mentre lo osservava le successive due settimane incosciente sul letto, con la vita aggrappata a dei tubi, pregava per fargli avere una seconda possibilità e, quando quella richiesta fu esaudita e rivide per la prima volta i suoi occhi sfuggiti dal soffio della morte, aveva capito che non desiderava altro che rimanere al suo fianco.
E continuava a volerlo tuttora.
Le aveva regalato un orologio da fare invidia a chiunque e lei, in pratica, glielo aveva sbattuto in faccia. Si era maledetta quando ripensò lucidamente alle sue accuse: un qualsiasi altro uomo con tutta probabilità l'avrebbe mandata al diavolo. Quando andò da lui il giorno dopo per scusarsi e per dargli ringraziamento che era rimasto in sospeso la sera precedente, Nef si sorprese. Le ore passate erano servite a far sbollire la rabbia a entrambi.
Quella notte, che segnava l'avviarsi di un nuovo anno, l'uomo aveva una gran voglia di divertirsi come ai tempi prima dell'incidente. La lite con Rebecca gli aveva fatto capire che doveva godersela finché poteva, fino al giorno in cui gli avrebbero messo un 'legaccio' al collo. Già ci aveva pensato Jag a lanciargli un primo cappio e come se non bastasse si era inguaiato da solo con Jane, la ragazza che era Fade ma non lo ricordava e lui non poteva dirglielo.
Alla mezzanotte, tutti brindarono alzando calici dal bordo dorato colmi di champagne, ammirando uno spettacolo di fuochi d'artificio da dietro la grande vetrata del salone che avevano preso in affitto. Nef strinse a sé la sua donna, avvolta in un abito corto, rosso come le sue labbra, interrotto in vita da un'alta cintura nera. Guardò il riflesso dei fuochi frammentarsi nei suoi occhi e la baciò.
La festa si dilungò fra musica dance e alcolici, il musicista perse di vista Rebecca e approfittò della confusione per cominciare a sistemare delle cose che gli premevano. Uscì sul balcone esterno, dove solo pochi coraggiosi osavano sfidare il gelo di quelle ore così piccole e i più lo facevano fumando sostanze di indubbia composizione.
Si avvicinò a un gruppetto che rideva sguaiatamente mentre parlava di cose futili e fra essi intercettò il suo amico di vecchia data, nonché direttore artistico della sua band, Lewie.
"Ti fai una birra?" esordì il bassista mostrando le due bottiglie da trentatrè che aveva portato con sé. L'altro si distaccò dal gruppo capendo che c'era qualcosa di cui l'uomo voleva parlargli.
Trovato riparo in un angolo della terrazza, Lewie ascoltava le parole del suo amico, alternando tirare di fumo a sorsi di birra. "Mi serve un favore. C'è una persona che conosco: le serve un lavoro al più presto e pensavo che con le conoscenze che hai, magari potessi trovarle qualcosa."
"Che tipo di lavoro?"
"Mah, non lo so! Qualcosa di semplice, non credo che a parte la commessa abbia mai fatto qualcosa di qualificato" si arrovellò confuso.
Il suo amico rimase contemplativo per un attimo. Nef gli lasciò il tempo per elaborare i pensieri.
"Te la sei scopata, vero?" disse dopo un'ennesima tirata.
"Dannazione, Lewie!" Nef si guardò intorno come un evaso, sperando che nessuno avesse sentito, poi si riconcentrò severo sulla faccia di lui che aveva un sorriso beota e compiaciuto dall'averlo smascherato così facilmente.
"E bravo vecchio lupo, ce l'hai fatta a ritornare in carreggiata! Sai che quasi non ci speravo più?" rise in preda agli effetti dell'erba.
Se lo doveva aspettare: Lewie era suo amico da sempre e lo leggeva come un libro aperto, o più probabilmente pensava sempre alla stessa cosa e ogni tanto faceva centro.
Era suo coetaneo e si conoscevano da tempi immemori; avevano preso due strade diverse, ma comunque legate dall'arte: Nef era diventato una popstar e lui si era buttato sul visual design. Inutile dire che Nef lo ingaggiò fin da subito per curare l'immagine dei Momuht.
Lewie si era sposato giovane e aveva bruciato il suo matrimonio in breve tempo lasciandosi appresso due figlie che non vedeva quasi mai. Era diventato un uomo dalle perenni occhiaie e dal sorriso stampato sempre in faccia per via delle canne che si fumava, ma non c'era dubbio: nel suo lavoro era il migliore sul campo.
"Allora, com'è la tipa?"
"Non ha importanza, dimmi solo se puoi fare qualcosa oppure no. È importante che lo trovi prima della fine del mese perché..."
"Oh-mio-Dio! Te la scopi ancora! Ahaha!" stavolta Nef sentì l'impulso di ficcargli la bottiglia in gola.
"Giuro che se dici qualcosa in giro, io ti uccido!"
"Dobbiamo festeggiare! Dai fatti un tiro!" L'uomo non lo ascoltava nemmeno, probabile che il giorno dopo avrebbe dimenticato anche di quella conversazione. Nef prese la paglia che gli veniva offerta, ormai ridotta allo stremo e si concesse un tiro. Per quella sera, non poteva fare altro.
Uscita dalla clinica, Jane approfittò degli ultimi giorni di vacanza per riprendersi dall'enorme quantità di congetture che l'avevano investita. I suoi genitori appresero con felicità che i risultati erano tutti positivi e lei stava bene, ma la ragazza sentiva che c'era qualcosa che non quadrava in quel posto. Passava le giornate chiusa in camera a sentire musica e cercare notizie che potessero in qualche modo compromettere l'integrità della struttura, ma non trovò nulla al di fuori della loro pagina aziendale, che ovviamente ne sottolineava solo i pregi. Apprese che quella clinica aveva ricevuto dei prestigiosi encomi per gli avanzamenti in campo medico e scientifico. Le venne da domandarsi come fosse possibile che i suoi genitori, persone che vivevano una vita modesta, avessero potuto permettersi di pagare la sua degenza in un posto simile, loro stessi le risposero che l'azienda finanziava dei fondi di beneficenza per le persone meno abbienti e che vi erano potuti accedere anche grazie alla gravità delle condizioni in cui versava la ragazza.
Si arrese subito all'idea che doveva essersi sbagliata, passò altro tempo a ricercare notizie su eventuali aziende che erano state processate per atti illeciti trovando notizie vaghe su vari processi nei confronti di alcune cliniche private, ma ben presto si stancò di tutti quei bla bla bla che non portavano a niente e si dedicò a un più sano e rilassante cazzeggio sul forum dei Momuht.
Leggeva i post delle altre fan che si dilungavano in lunghi thread su quanto fosse 'figo' Nef, corredandolo di foto ufficiali rubate durante i concerti. Le veniva da ridacchiare pensando a quanto fossero vere quelle affermazioni, anche se, un momento dopo, si malediceva per come non stesse avendo un minimo di amor proprio. Era chiaro che lei fosse solo un giocattolo nelle sue mani, sapeva che le storie non finiscono mai come nei filmetti rosa che tanto detestava.
Le aveva detto che le avrebbe trovato un lavoro, ma come poteva sperarci? Erano due settimane che non si vedevano né sentivano, sicuramente si era già scordato di lei, inghiottito dai mille impegni di una star. Doveva rimboccarsi le maniche e cominciare a pensare sul da farsi, in un paio di giorni sarebbe ripartita e la cosa più ardua da fare in quel lasso di tempo sarebbe stata rassicurare sua madre.
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Spazio autrice
Ehhh gli amici, come ti sgamano loro quando fai una marachella, non ci riesce nessuno!
Vi è piaciuto sto capitolo? Lo spero! Stiamo giungendo alla fine del romanzo (è cortissimo, lo so!)
L'autrice condanna (e non ha mai fatto) l'uso di alcol e sostanze stupefacenti. Sono già stordita di mio.
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