La terza buona azione.


A furia de stare lì ad origliare qualsiasi cosa venga detta a Simone, ogni volta che entra qualcuno a visitarlo o somministrargli qualcosa, me sento na vecchia comare de paese che non se sa fare i cazzi sua.

Eppure non me sento in difetto.

Anzi.

A volte me sento come se fossi tenuto a sapere tutto quello che succede a Simone, per essere pronto a prendermi cura de lui quando la stanza si svuota.

Come sta accadendo in questo momento.

Da quel che ho capito, oltre quella tenda bianca non solo ci sono i medici, insieme a Gioia, ma c'è anche il padre de Simone.

L'ho riconosciuto perché è la stessa voce che ho sentito quando l'hanno portato qui.

E perché il modo in cui se rivolge a Simone lo rende praticamente inconfondibile.

«Simone, dai.» , continua a dirgli, cantilenando quel "dai" come una supplica perpetua.

Ma dai cosa!? Me verrebbe de chiedergli.

Cosa te deve dare Simone?

Che deve dimostrarti?

Che deve fá?

Ma del resto, chi sono io per sindacare su come reagisce un padre al vedere il proprio figlio star male?

Io che un padre, tra l'altro, non ce l'ho mai avuto.

E non ho idea di cosa possa frullare nella mente di un padre; io, dal mio, sono stato ritenuto uno sbaglio talmente tanto grande, da averlo portato a fuggire a gambe levate.

Lo so.

Lo so che dovrei pensare a lui con tutta la rabbia di chi è stato abbandonato.

Solo che non ci riesco.

Non sono mai riuscito a provare rabbia nei suoi confronti, anzi.

Per come m'ha sempre visto il mondo, a volte penso che lui sia stato quello più lungimirante de tutti e abbia solo scansato un fosso più grande de lui.

Ce fosse qui la psicologa della scuola me direbbe che sto completamente fuori strada e che non devo pensare a me stesso in questo modo.

Che pensarla così non m'aiuterà mai.

E probabilmente c'ha pure ragione, ma ci sarà pure un motivo se tutti me stanno alla larga.

Ad ogni modo, il modo in cui 'sto tizio continua a rivolgersi a Simone non mi piace.

Vorrei aprí la tenda e dirgli che forse se la smettesse di trattarlo come fosse un computer che di colpo s'è rotto e che non ha più speranza, Simone potrebbe anche non sentircisi.

Ma credo Gioia se incazzerebbe come 'na bestia e io non avrei davvero come giustificamme.

Quindi me sto buono buono qui e non fiato nemmeno.

«Per i pochi risultati che abbiamo avuto modo di vedere, comunque, siamo su una buona strada. Certo, c'è ancora da aspettare che possano esserci segni concreti di ripresa ma sono tutti fattori che andremo vedendo più avanti.»

A parlare è il medico.

Riesco a vedere un angolo del camice sbucare da dietro la tenda.

Non ho ancora memorizzato il suo nome ma só sicuro sia lo stesso che ha visitato anche me .

Un tipo strano, con la puzza sotto ar naso ma abbastanza sereno nel modo de dì le cose da farti sentire che il mondo non te sta a crollá addosso.

Accanto a lui, una parte del giubbotto di velluto blu indossato dal padre di Simone.

Credo si siano allontanati quel che basta da lui per non farsi sentire, ma sono proprio lì, ai piedi del suo stesso letto.

«L'unico fattore che bisognerà considerare, signor Balestra, è che come ben sa, terminato questo ricovero bisognerà introdurre Simone in un percorso che lo aiuti a superare il trauma che ha subito. E quello non sarà facile.

Un braccio rotto si sistema, ma rispetto al problema del ragazzo dovremmo aspettarci tanto lavoro da fare e tanta pazienza.

Anche e soprattutto da parte sua.»

Dalle loro ombre che vedo riflesse sul muro, vedo il medico scribacchiare qualcosa sul foglio che tiene fermo nella cartella.

«Siamo tutti pronti per dare a Simone il sostegno massimo di cui abbia bisogno, qui. È importante che lo stesso venga dall'ambiente familiare.»

«Sarà fatto.» taglia corto suo padre, avvicinandosi a Simone.

«Domani verrà a trovarti la nonna. Va bene?»

Simone non risponde, ma sento spostare il tavolino a ruote che si trova accanto al suo letto.

«Io devo spostarmi-devo andare fuori città. Però torno,eh!»

Passano più de cinque minuti solo per salutare Simone e il medico, prima che lascino la stanza.

Prima di uscire, Gioia fa capolino dalla tenda che mi separa dal resto della camera per salutarmi con un cenno della testa ed un sorriso.

Non ho ben capito se ha quello fosse un segnale per lasciarmi intendere qualcosa.

Probabilmente stamattina ha colto la mia preoccupazione per Simone, ma non ha fatto altro che dirmi di stare al mio posto.

Non lo so.

Quel che so è che Simone rimarrà solo fino a domani pomeriggio.

La porta della stanza si chiude pochi istanti dopo e il silenzio torna a far da padrone.

Siamo di nuovo soli.

Sollevo lo sguardo verso il grande orologio appeso al muro che ho di fronte.

Non manca molto all'orario delle visite.

Allungo la mano verso il comodino per recuperare il cellulare, ne sblocco lo schermo dal tasto laterale e non ci penso troppo nel comporre il numero di telefono di mia madre.

La sua voce non tarda ad arrivare dall'altra parte dell'apparecchio.

Povera mamma, chissà che spavento se prende ogni volta che la chiamo da qui.

«Mà...»

«Manuel, dimmi!»

«Senti...ti volevo dire che oggi non serve tu venga a trovarmi.

Non me serve niente e il tempo non è dei migliori.»

«Manu, ma che dici? Sei sicuro!?»

«Sì. Davvero mà, non serve. Starei solo in pensiero a sapere che sei per strada.

In caso facciamo 'na videochiamata.»

La voce si fa incerta nel rispondermi un mormorato "va bene»

Ma non posso mica spiegarle il motivo reale per il quale le sto chiedendo di non passare a trovarmi!

Vero è che non me serve niente e che il tempo fuori è brutto abbastanza da preoccuparmi per lei.

Ma non le ho detto nulla di Simone, l'ho tenuto per me.

Simone è un segreto da custodire.

Me fa le solite raccomandazioni che conosco ormai a memoria, prima di chiudere la chiamata in fretta, mentre il suo capo la chiama per servire ad un tavolo.

E un po' mi vien voglia di sprofondare nel letto per sfuggire al senso di colpa che mi assale per l'ennesima volta mentito.

Anche se questa volta, credo ne valga la pena, ora che sbircio al di là della tenda e vedo Simone disteso.

Prima di alzarmi dal letto, provo a mettere a fuoco un po' di più la sua figura.

È ancora sveglio, il volto serio di chi non sta a fa altro che rimurginà sugli stessi pensieri che non je danno tregua.

Vorrei strapparlo via dai suoi pensieri, in un modo o nell'altro.

«Il tempo oggi non è bellissimo.» dico ad alta voce. È così che fanno sempre nei libri che ho letto.

Se mettono a parlà del tempo.

Magari funziona pure con Simone.

Lui però non mi risponde.

Allungo il braccio quanto basta per scostare poco poco la tenda e quasi salto in aria quando lo vedo con il volto già rivolto verso di me.

Con quei suoi occhioni che sembrano avere addosso tutto il dolore del mondo, continua ad osservarmi mentre cerco di trovare il coraggio di parlargli.

Non so che mi prende, so solo che me blocco sempre quando lui me guarda.

«Ciao...Ehm, io ho- ho detto che il tempo non è granchè. Ci stanno nuvole-nuvole grigissime.»

Si stringe nelle spalle, arricciando subito dopo il naso in una smorfia legata forse al dolore al braccio.

«Ti va di vedere?»

Lui annuisce e mi regala un sorriso.

È più largo di quello appena accennato della volta scorsa.

Più largo e ancora più bello.

Mi siedo prima al centro del letto per recuperare il filo della tenda a balze biancastre che tiro completamente verso sinistra, così da lasciare i vetri finalmente liberi.

Do un'ultima occhiata fuori dalla finestra.

Un'auto solitaria passa. Fossi da solo s'aggiungerebbe alla mia conta ma non ricordo dov'ero arrivato.

«Sai, da quando sto qua, conto le macchine che passano» gli racconto, nella speranza mi stia ascoltando.

Scendo giù dal letto e in meno di un secondo sposto completamente la tenda che ci separa.

La testa me urla subito che è n'azzardo, ma Simone mi sorride e questo mi basta per pensare che ne valga la pena.

Solleva un braccio e mi punta, mantenendo il sorriso.

«Tu le conti?»

Allora mi ha sentito!

«Si, pensa che scemo che c'hai come compagno de stanza" ridacchio, avvicinandomi a lui.

«Riesci a vedere da là?» gli chiedo. " 'Sta dannata finestra non se apre più de così...»

Tiro ancora una volta il filo della tenda, a dimostrargli che non gli sto dicendo una bugia.

«Posso provare ad avvicinarti un po'...qua. Dove sto io. Se vuoi.»

Lui sta già guardando fuori, il suo sguardo si perde tra il verde degli alberi parzialmente nascosti dalla foschia.

C'è un velo di stupore nei suoi occhi che lo rende ancora più bello. Gli da un'aria particolare.

Spero de non esagerá nel dire che- per la prima volta- credo sia sereno.

«Un po' troppo grigio, no?»

Lui scuote la testa, senza distogliere lo sguardo dal panorama.

«Bello.»

«Bello? Te piace sul serio?»

Io preferisco le giornate calde! Se c'è sta il sole, stai sicuro che me trovi fuori disteso a braccia aperte a prenderlo!»

Allargo le braccia con il mio solito fare plateale e anche se il movimento mi provoca una fitta al costato, non avverto tanto dolore.

Simone ride del mio gesto, scuote ancora la testa e "io l'opposto.»

«Tu sei l'opposto de me?» gli chiedo. "Devo aspettarmi di trovarti in giro pe' Roma sotto la pioggia?»

Mi risponde a suo modo, con un lieve oscillare della mano.

«Più o meno dici? Ammazza... significa che dovrò attrezzarmi con le coperte in macchina. Così ovunque stai, evito de farti ammalare!»

Lui mi guarda perplesso.

Aiuto, aiuto , aiuto!

Cosa ho sbagliato!?

«Cioè! Tu dovrai attrezzarti! Mica io!»

Sento le guance andarmi a fuoco e la risata isterica che gracchio mi spingerebbe a nascondermi sotto il letto per scappare dalla vergogna che me sta a salì.

Mi giro di scatto verso la finestra, dandogli le spalle.

Il cielo si sta schiarendo, le nuvole sono ridotte quasi a filamenti e il sole inizia ad apparire timidamente da dietro i rami.

Respira, Manuel, respira.

«Guarda, sta a tornà sereno.» balbetto, tamburellando con le nocche sulla lastra di marmo alla base posta sotto la finestra.

Scruto la mia immagine riflessa nei vetri. Non è nitida, ma il rossore delle guance sembra essersi affievolito quindi raccolgo il coraggio che mi serve per girarmi verso di lui.

«Quindi...uhm...quanti anni hai?»

«Diciassette.»

È un po' più piccolo di me. Ma aveva ragione Gioia, siamo davvero coetanei.

«Io ne ho diciannove. Siamo coetanei però! Strano che non t'ho mai visto in giro. Sei de Roma pure tu, no?»

«Si.»

«E cosa te –che te piace fare?»

«Giocavo a rugby, poi non...»

Si ammutolisce di colpo e le labbra gli tremano talmente tanto che riesco a vederle scuotersi anche se sto fermo qui, distante da lui.

«Hai smesso.», provo a dire, per dargli modo di concludere la frase.

«Sì.» taglia corto lui.

«Io non ho mai praticato sport.» prendo a raccontargli.

Voglio tenergli compagnia , è vero.

Ma non voglio che si stanchi.

Quindi se stare ad ascoltarmi è meno difficile che parlare, allora sarò io a riempire i silenzi con le parole.

«Però ho avuto da sempre 'a passione per le moto! C'ho 'na specie de officina dove aggiusto quelle degli amici e faccio qualche lavoretto.

Se voi, qualche volta te porto a vedere qualche chicca che m'hanno portato e che c'ho in garage.

Sono tutte moto d'epoca! Tutte bellissime!»

L'entusiasmo con il quale gli parlo sembra coinvolgerlo abbastanza da guardarmi con occhi super attenti e curiosi.

Quindi continuo a parlargliene e nemmeno me rendo conto che mentre je sto a raccontà di quell'Harley Davidson sulla quale stavo lavorando prima di venire qui, mi sono avvicinato a lui così tanto da essere prima in piedi a fianco al suo letto.

Me ne rendo conto sol'ora, mentre lui sposta le gambe nel lato del letto opposto e mi fa segno di sedermi.

Mi concedo solo un angolo, per non dargli fastidio- del resto, così mi è stato più volte raccomandato.

Eppure lui mi fa di nuovo cenno, quindi mi sistemo meglio- e le mie costole ringraziano.

«Quando staremo meglio te porto a fare un giro per Roma! Te andrebbe, sì?!?»

Lui mi sorride e annuisce.

E io non vedo l'ora che questo accada.

Ho già in mente un paio di posti in cui potrei portarlo. Fargli scoprire la Roma che non conosce, quella del verde che si estende in ogni dove e la pace più assoluta regna sovrana.

Simone ha l'aria di chi ha bisogno di un po' di pace.

E io voglio davvero regalargliela.

Perché la merita.

«Allora te lo prometto. Appena usciamo da qua, saliamo in sella e si va in giro! Prima per Roma, poi per il mondo.»

Porta una mano al petto, il volto incredulo.

«Sì, io e te.» esclamo, incrociando le braccia al petto con aria fiera.

«Vedrai, non sono male come guida turistica! »

Riesco a strappargli una risata e il mio cuore fa una piccola capriola per quanto è felice.

Simone solleva e stende il braccio, la mano chiusa in un pugno, tranne il mignolo, che tiene esteso verso di me.

Io faccio lo stesso, incrociando il mio mignolo al suo.

«Una promessa è una promessa, eh! Non fare che uscito de qua sparisci.»

Lui mi sorride ancora una volta e scuote il capo.

«Mh. Allora va bene, promesso.»

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