La seconda buona azione.


Se c'è 'na cosa a cui ho sempre creduto, è che nella vita esistano più versioni de noi.

No, non intendo che fisicamente esistano nostre copie che vanno in giro a combinà danni, no.

Sto a dì che ognuno de noi ce le ha dentro 'ste versioni.

E che queste versioni non sono esclusivamente frutto de quello che siamo realmente.

Anzi, non lo sono quasi mai.

Derivano soprattutto da quello che ci viene detto dagli altri, dal modo in cui ci reputano.

Da quello che gli altri credono noi siamo.

Quant'è probabile che una persona che per tutta la vita se sente etichettato in un modo poi riesca a staccarsela di dosso, st'etichetta?

Prendete me, ad esempio.

Per tutta la vita me sò sentito dire di esse cattivo.

E forse, tante volte lo sono stato per davvero.

Sò stato cattivo ogni volta che ho fatto piagne mi madre.

Sò stato cattivo ogni volta che ho fatto disperà i professori che a scola cercavano de farmi rigà dritto.

Sò stato cattivo con ogni ragazza che ho ingannato; dicendo loro di amarle, quando il mio cuore batteva per l'ennesimo ragazzo che me guardava da dietro il bancone di un bar.

A mia discolpa posso dì solo che non è stato mica facile, non esserlo.

Ce provassero loro a non percorrere strade che te promettono soldi facili, quanno ce sta 'tu madre a casa senza lo straccio de un lavoro.

O ad avè la pazienza de 'sta seduto ad ascoltà lezioni di vita da gente che non lo sa nemmeno, com'è fatta, la tua vita.

Ma te vogliono spiegà ogni cosa.

Come te devi comportà.

Come te devi vestì.

Quello che puoi dì e quello che è meglio non dire.

E guai a te se non li ascolti.

Te ritrovi tu madre in lacrime che te prega de farla contenta e di portare a casa almeno un sette, entro la fine dell'anno.

«Quando la smetterai di darmi sempre pensieri, Manuel? Quando? »

Ma io ci provo da quando sò nato, a non darle pensieri.

Certo, non è facile non risultare un peso per gli altri quando c'è qualcuno che sembra non avere altro ruolo che rispondere delle tue azioni.

Io non ho mai voluto che lei lo facesse.

Ma intanto, è annata sempre così.

Per qualsiasi cosa mi sia successa, la prima a subirne le conseguenze è stata mia madre.

Anche ora che sto su 'sto letto e penso a lei, me sento maledettamente in colpa per averle dato l'ennesimo pensiero.

«Manuel, un bicchiere di latte come ogni mattina?»

Non m'ero nemmeno accorto che Gioia fosse entrata in camera.

Del resto, è ancora incredibilmente presto.

Ma stare qui mi rende mattiniero e anche se sono solo le sei, io sono già sveglio da quasi un'ora.

Saluto Gioia con un cenno della testa e un sorriso, prima di sfilarle dalle mani il bicchiere di carta colmo di latte.

È ancora piuttosto caldo, per fortuna.

Non per fà lo schizzinoso, eh. Ma freddo fa veramente veramente schifo.

«Buongiorno, grazie.»

«Te l'ho zuccherato un po'. Così non lo butti nel lavandino come hai fatto ieri.»

«E tu come lo sai?»

«Come fai tu a pensare che non me ne sarei accorta?»

«Perché sono il tuo paziente preferito e avresti chiuso un occhio, no?»

Allargo le labbra in un sorriso di circostanza, unica mia arma per farmi perdonare.

Lei solleva 'na mano fingendo de mollarmi uno schiaffo e mi fa ridere.

A volte mi tratta davvero come fossi figlio suo; sarà per questo che la trovo simpatica.

Bevo un sorso di 'sto latte come dimostrazione del fatto che intendo fare il bravo, sollevando appena il bicchiere come le stessi proponendo un brindisi.

Lei mi sorride di rimando e «Ora che lo so te lo porto sempre zuccherato e sto qui a guardarti mentre lo bevi.» ridacchia, mentre mi fa cenno di sollevare un po' la schiena per aggiustarmi i cuscini che ho sotto.

Oggi non sento dolore, volendo potrei anche alzarmi e andare a lavorare ma sono costretto a questo riposo forzato quindi accantono subito l'idea e visto che sono quasi completamente seduto allungo un braccio per recuperare il laccio della tendina e lo tiro quanto basta per far entrare un po' di luce da fuori.

A quanto m'ero fermato nella conta delle auto che passano?

Centoquaranta?

Centoquarantuno, centoquarantadue, centoquarantatré, centoquarantaquattro.

Non ce credo, oh. Ce sta di nuovo il lapino.

Inizio a interpretà la sua presenza come 'na richiesta d'aiuto.

Peccato io stia qui e gli attrezzi mia stiano a casa; altrimenti gliela davo 'na mano, a 'sto poveraccio.

«Senti ma...» dico, poi, senza distogliere lo sguardo dalla guida sbilenca de quel mezzo acciaccato. 

«Simone ha fatto colazione?»

Gioia rimane un po' interdetta, dalla domanda.

Mentre sistema alla bell'e'meglio le lenzuola, appuntandole sotto il materasso, me lancia un'occhiataccia che, a essere onesti, non credo de meritare.

«Che c'è? Ho chiesto se fa colazione. Mica è 'na cosa così grave.»

«L'hai chiamato Simone. Che? Gli hai già dato fastidio, ieri?»

«No che non gli ho dato fastidio! V'ho sentito mentre lo stavate sistemando sul lettino, tutto qua!» mi scagiono subito, mettendo le mani avanti.

«A parte che lui manco parla...»

Sistema l'ultima parte di lenzuolo vicino a me, senza staccarmi gli occhi di dosso.

Le labbra ancora corrucciate in un silenzioso rimprovero.

«Non gli ho sentito dire una parola da quando è arrivato...Tu-tu sai perché non parla?»

«Sono informazioni che non posso darti, Manuel.» taglia corto lei, recuperando dalle mie mani il bicchiere ormai vuoto.

«Tu devi solo pensare a guarire presto. E basta.»

Rimetto giù la schiena, poggiandola sui cuscini.

Inizio ad avvertire il dolore alle costole e visto il discorso che m'ha fatto, spero solo di riprendere sonno in fretta.

Almeno, se dormo, non faccio danno a nessuno.

Allungo un braccio verso il comodino per prendere il cellulare; sul salva schermo ce stamo io e mi madre, immortalati in questa vecchia foto scattata da quello che era il mio fidanzato dell'epoca.

Lui poi s'è rivelato esse una merda, ma la foto rimane comunque molto bella.

«Gioia, me metteresti sotto carica il telefono? È da ieri sera che non arrivo al filo e piegarmi me fa...» non ho il tempo di finire la frase che Gioia lo ha già collegato. Ora sullo schermo, spicca una bella saetta bianca e i vari trattini da riempire con i numeri del pin.

1611

Che poi sarebbe 16 Novembre.

La data di nascita del mio carlino, Tobia.

È sua la foto sulla schermata principale.

Bello de papà.

Quanto me manca.

Non c'è nessuna notifica di messaggi o chiamate, sono sicuro che se Tobia sapesse usà il cellulare vorrebbe sapere come sta papà suo.

Sorrido allo schermo per qualche secondo, prima di bloccarlo dal tasto laterale e riconsegnarlo a Gioia che lo abbandona sul comodino.

«Grazie.»

«Prego...Me raccomando, eh. Comportarti bene.»

«Va bene...»

La seguo con lo sguardo mentre supera la tenda che mi separa dal resto della stanza ed esce, chiudendosi dietro la porta.

Guardo per qualche momento ancora fuori dalla finestra.

Resto in totale silenzio e quasi me perdo nel lento passeggiare della gente.

Quanto vorrei esse pure io lì, in mezzo a loro.

Andare al bar vicino casa a scambiare due chiacchiere con il meccanico che c'ha l'officina de fronte alla mia.

Quanti lavori m'ha passato.

Chissà se ce sta qualcuno che davvero se chiede che fine ho fatto.

Scrollo per quanto m'è possibile le spalle con un rapido movimento.

Se me lascio prende dalla nostalgia, è finita.

Me rimetto giù, rivolgendo lo sguardo al muro che me sta davanti.

Sarebbe bello dipingerlo.

Per le persone che verranno, intendo.

Se sentirebbero meno sole.

Do un'altra controllata al cellulare.

Ancora zero notifiche.

Lo rimetto giù con lo stesso entusiasmo con il quale l'ho preso; questa mattina è meglio passarla dormendo.

Decisamente.

Poggio la testa sul cuscino,nel modo più comodo che mi riesce e serro gli occhi.

Forse se continuo a tenerli chiusi, prima o poi mi addormento.

Dormi, Manuel.

Dormi.

Non pensare a nulla, dormi e basta.

Se solo ce riuscissi...non faccio altro che pensà a come possa stare quel ragazzo che sta oltre 'sta tenda.

Non riesco nemmeno a capire perché Gioia non si sia fermata anche da lui, stamattina.

Magari perché dormiva ancora...

Mi costringo al silenzio più assoluto, resto fermo immobile e trattenengo il fiato, per ascoltare qualsiasi rumore provenga dal suo letto.

E me ne accorgo solo ora; che quel lieve russare che sentivo fino a qualche momento fa, non c'è più.

Deve essere sveglio.

Cazzo.

Non riesco nemmeno a immaginare quanto male possa avergli fatto sentì il discorso che c'è stato tra me e Gioia.

Vorrei tirà giù 'sta tenda e dirgli «Le ho detto che me stava bene solo per farlà stà tranquilla.

Ma continuerò a parlarti, se vuoi.

Io ti prometto di esserci, se tu hai bisogno di me.»

Vorrei promettergli tutto quello che nessuno ha mai promesso a me.

C'è qualcosa dentro de me che me urla che lui è una persona che c'ha bisogno de qualcuno che gli prometta di non lasciarlo solo e di regalargli qualche buona azione per farlo stare meglio.

E quella persona vorrei tanto esse io.

Mi copro entrambi gli occhi con le mani, per scacciare tutti questi pensieri che probabilmente non ho il diritto di fare.

Io non lo conosco.

Lui non conosce me.

E per come stanno andando le cose, non potrò mai conoscerlo.

«Sono Simone.»

Fermi tutti.

Me volto d'istinto verso la tenda, girandomi su di un fianco e dio mio, potrei impazzire dal dolore che me coglie totalmente impreparato.

Strizzo gli occhi per mettere a fuoco ma niente, il tessuto di 'sta tenda è così fitto che non se vede niente attraverso.

Deve essere stato uno scherzo del mio cervello bastardo che me fa credere cose che non sono.

O magari sto impazzendo.

Com'è che me dice sempre mi madre?

Che quando me fisso co 'na cosa, poi finisco per immaginare cose che non sono e a farmi film mentali da oscar.

C'avrà ragione.

Sicuramente , non-

«Simone Balestra.»

E no, eh.

Mò va bene tutto, caro il mio cervello, ma tu non puoi inventarti pure i cognomi perché così io divento pazzo.

O forse già lo sono e non me ne sono accorto!

Sarà divertente, raccontarlo a mi madre.

«A mà, ti ricordi quella volta in cui la maestra t'ha detto che io ero pazzo e pure maleducato e tu te sei arrabbiata tanto? 

Ecco mà, me sa che dobbiamo n'attimo rivedè la tua posizione perché qua le cose non se stanno a mette granché bene.»

Bisogna chiedere scusa alla maestra, forse c'aveva visto giusto.

Tranne per la questione chiodini: quei chiodini erano miei ed era stato Luca a fregarmeli!

Comunque.

Che sia la realtà o solo 'n invenzione del mio cervello, non posso ignorarlo.

Non voglio ignorarlo.

«Io mi chiamo Manuel.»

Silenzio.

Ti prego, rispondimi.

Ti prego, rispondimi.

«Simone. »

Noto solo ora quanto sia bella la sua voce.

Per quanto bassa e sofferente sia, ha un'eleganza che non ho mai sentito prima d'ora.

«Come stai, Simone? »

Continuo a guardare la tenda come se da un momento all'altro potesse spostarsi autonomamente.

O meglio ancora, come se la spostasse lui.

«Stai bene?»

Silenzio.

Conto mentalmente i secondi che trascorrono.

Uno...due...tre...quattro...

«Ti serve qualcosa?», riprovo.

Silenzio.

Magari si è addormentato di nuovo.

Allungo la mano verso la tenda.

So che non dovrei, ma non riesco.

Non riesco a darmi pace.

Posiziono un solo dito tra il muro e la tenda che ci separa.

Il primo anello che la lega all'asta posta in alto emette un tintinnio quasi impercettibile, ma nel silenzio di quella stanza mi sembra un rumore assordante.

E in più sono convinto stia infastidendo Simone.

«'Sti cazzo di anelli» ruggisco, sottovoce, sollevando lo sguardo quel che basta per maledirli a mio modo con un bel dito medio rivolto verso l'alto.

Provo a guardare da quella fessura che so riuscito a creare scostando la tenda ma non riesco a vedere altro che la sbarra bianca del letto che ne fa da testata e parte dei suoi ricci scuri.

Oso spostarla ancora qualche millimetro per concedermi una visuale migliore.

E finalmente eccolo.

I segni neri che aveva sotto gli occhi ieri si sono decisamente attenuati.

Li sta tenendo chiusi ma sono sicuro non stia dormendo.

E credo anche abbia sentito lo spostarsi della tenda e capito che io lo sto guardando.

Me ne da conferma il fatto che sollevi in modo quasi impercettibile gli angoli della bocca, in un modesto sorriso.

Forse era questo, quello di cui aveva bisogno.

Che qualcuno si accorgesse di lui.

Lo vedo piegare il braccio sano, portando le dita verso la bocca e tamburellare sulle labbra più volte, con la punta delle dita.

«Vuoi bere?»

Non risponde.

«Hai sete?»

Annuisce appena, con un cenno così lieve che immagino sia dovuto anche ai dolori che iniziano a risvegliarsi, insieme a lui.

Lascio andare la tenda e con una mano premo sulla fascia che mi comprime il petto per attenuare il dolore che esplode a ogni mio movimento.

Dannate costole, potessi farlo v'aggiusterei io a mani nude.

Mi tiro lentamente a sedere e apro il piccolo cassetto del comodino.

Ne tiro fuori il bicchiere di plastica rigida munito di cannuccia che mia madre mi ha portato il giorno in cui sono stato ricoverato.

Ha detto che sarebbe potuto tornarmi utile nel caso in cui non fossi riuscito a star dritto abbastanza da poter bere.

Non l'ho mai utilizzato, ritenendolo l'ennesimo oggetto inutile dato da mia madre.

Eppure utilizzarlo per Simone mi sembra un buon modo per dargli un senso.

Ne svito il tappo, poggiandolo sulle coperte e dallo stesso cassetto, recupero una bottiglietta d'acqua.

Riempio il bicchiere quasi fino all'orlo, richiudendolo bene subito dopo.

Mi metto in piedi con movimenti lenti, per non sentire troppo dolore.

Tra le dita, ancora il bicchiere stretto.

A separarmi dal letto di Simone saranno quattro passi totali.

Scosto la tenda e per un istante, rimango fermo a guardarlo.

Simone è lì.

E anche se il volto è ancora pallido e gli occhi sono aperti solo in una fessura, sembra essere meno sofferente.

Sollevo lo sguardo verso la porta che è ancora chiusa.

Ho quasi paura possa entrare qualcuno e pensare che lo stia facendo stancare o chissà cosa.

Sembra non esserci il rischio che questo accada, quindi oltrepasso quella linea immaginaria che ci divide e mi avvicino a lui.

Non so bene che fare ma avvicino alle sue labbra la cima della cannuccia e «Tieni, »gli sussurro «Riesci così?»

Non risponde ma si tira su quel minimo che basta per tirare dalla cannuccia un sorso d'acqua e berlo.

Mentre lo fa,qualche goccia scivola via dalle sue labbra, bagnandogli la guancia e il mento.

Non sembra curarsene- o forse non ha le forze per farlo- quindi trattenendo la manica del pigiama con medio e indice, lascio che funga da fazzoletto e la passo più piano che posso per asciugarle via.

Vorrei aprire la mano e accarezzargli la guancia, ma non posso.

Non ne ho il diritto.

Lo osservo qualche altro secondo, rubando con gli occhi ogni sua minima espressione ed è per questo che noto quel minimo tirare indietro la testa.

Ritraggo il bicchiere e «Non ne vuoi più?» gli chiedo.

Solleva appena la mano come a fermarmi e mi regala l'imitazione di un sorriso.

Credo sia il suo modo per ringraziarmi.

Sento il cuore di colpo scaldarsi. 

«Se hai bisogno di me sono qui, accanto.»

Lo vedo richiudere gli occhi, quindi indietreggio, verso il mio letto.

Risistemo la tenda al suo posto, in mezzo a noi e mi siedo sulle coperte.

E sarà paradossale, forse, ma mi sento ora un po' più felice. 

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