La quarta buona azione.
Ho letto in un articolo che esistono più di otto miliardi di persone, al mondo.
Ci pensate?
Ci stanno otto miliardi di persone con le quali una persona potrebbe parlare e noi ci fermiamo a conoscerne quante? Una cinquantina in tutta la nostra vita?
E di questa cinquantina, quante rientrano davvero nel nostro interesse?
Ci importa davvero di sapere come sta il nostro vicino di casa? Oppure quel ragazzo che ogni mattina vediamo servire cappuccini e caffè dietro al bancone di un bar?
Collezioniamo conoscenze per sentirci al sicuro quando andiamo nei posti.
Se so chi troverò davanti a me, non potrà succedermi niente di male.
O almeno, così è la maggior parte delle volte.
Ci stanno le eccezioni, è ovvio.
Simone, ad esempio.
Simone è la mia eccezione.
Se potrebbe dire che lui è meno di un conoscente, visto che fa parte di una piccola parte della vita, però di lui m'importa per davvero.
M'è sempre importato.
Dal primo momento in cui Gioia m'ha parlato di lui, annunciandomi il suo arrivo.
E ora che sto qua, seduto su di un angolo del suo letto e lui sorride alle mie battute, io me sento d'aver dato un senso a 'sta vita.
Sentire la sua risata mi fa sentire tanto bene da essere incauto.
Non guardo più verso la porta, non ho paura che qualcuno entri e mi becchi qui a tenerlo sveglio.
So di star facendo del bene .
E questo mi basta.
Continuo a raccontargli fatti random della mia vita: la prima volta che sono riuscito a mettere da parte abbastanza soldi da poter comprare la moto e gli spaventi che ho fatto prendere a mi madre per le impennate fatte sotto casa.
Anche lui mi racconta un po' di aneddoti della sua vita.
Quello che non riesco a capire è perché usi ogni verbo al passato.
Come se la sua vita si fosse ad un tratto spezzata e quel Simone del passato, del tutto rimosso.
Il Simone del passato amava leggere e scrivere.
Praticava sport ed era pure parecchio bravo.
Una volta, ha dipinto un quadro e qualche volta giocava a scacchi.
Il Simone del presente, invece, quello che è qui, disteso accanto a me, di quel passato possiede solo il ricordo, ma lui è spento, assente e nostalgico.
Parla di sé stesso come un essere distante, che ha il suo stesso nome ma lui che lui guarda da lontano, con l'ammirazione di chi sa che non c'è gara: non può competere con la persona di cui va raccontando.
Vorrei interrompere tutto e dirgli che non esiste mica un prima e un dopo, che quello che sta attraversando non è che una fase e che nulla si è interrotto.
Che la vita tornerà ad essere per come lui la ricorda e la sua narrazione non si è mica conclusa dal momento in cui ha varcato quella porta.
Ma rimango in silenzio.
Ascolto.
Del resto, per quel che so, queste potrebbero essere tutte robe che lui va inventando ora, giusto per riempire i vuoti e dimostrare che non è sempre stato così.
...Ma no! Ma che dico!?
Simone non potrebbe mai mentire.
Se la bocca biascica a fatica le parole, i suoi occhi urlano verità che riesco a leggere dal primo momento in cui i miei li hanno incrociati.
«Quindi ti piace la musica» dico, interrompendo mio malgrado il suo parlare.
Lui mi sorride e con lo sguardo mi indica la sua valigia, poggiata in fondo alla stanza.
«Vuoi che te la prenda?»
Scuote la testa.
Effettivamente, lo spazio non è poi tanto, quindi se posizionassi la sua valigia qui di fianco, probabilmente dovrei restare io in piedi.
In più, per quanto la mia soglia del dolore sia ormai abbastanza elevata da non sentire il dolore alle costole, ogni tanto qualche fitta l'avverto anch'io, quindi meglio non fare sforzi che potrebbero peggiorare le cose.
«Dentro.», mi suggerisce Simone.
Mi avvicino quindi alla valigia e apro la tasca più alta; un po' perché è la prima che mi viene a portata di mano, un po' perché è quella più capiente.
Ne estraggo un piccolo lettore mp3.
Non vedevo questi aggeggi da un sacco di anni, eppure non sembra malandato; anzi.
Sembra in ottime condizioni, ma non ci sono delle cuffie che possano renderlo davvero utile.
Lo sollevo a mezz'aria , per mettere a Simone di vederlo.
«Non ci sono le cuffie.»
Lui mi guarda, stringendosi appena nelle spalle, come a dire «papà le avrà dimenticate».
Peccato io non abbia le mie con me, le avrei certamente condivise, con lui.
Mentre mi annoto mentalmente di dover chiedere a mamma di portare le mie , alla prossima visita, torno di fianco a lui.
«Beh, però da qua posso scoprire che musica ti piace.» sdrammatizzo, abbozzando un mezzo sorriso. «Credo sia un bel modo de conoscersi. Io scopro la musica che ami, tu quella che potrebbe piacere anche a me.»
Lui annuisce, stringendo tra le dita il piccolo lettore.
Lo guardo accenderlo ed è strano come ogni piccolo gesto, anche il più banale, si copra di una strana magia.
Sarà forse l'essere costretti a stare qui che mi lascia stupire delle piccolissime cose o sarà il muoversi lento di Simone, fatto sta che resto ad osservare lo scorrere delle sue dita sui tasti come fosse un piccolo miracolo.
Lo schermo si illumina in pochi istanti e una lista di brani si palesa subito sotto i nostri occhi.
C'è davvero di tutto.
Dalla musica classica, al rock degli anni 70 al metal più irruento. Simone continua a farli scorrere moderando il ritmo per permettermi di leggere e ogni tanto lo blocco con un entusiasta "questa è bellissima!» che gli strappa un sorriso.
«Devo assolutamente dire a mi madre di portà le cuffie» esclamo, palesando le mie intenzioni.
«,così l'ascoltiamo insieme!
Finisce che famo un concerto qua, Simò!» concludo, ridacchiando.
Lui solleva goffamente il braccio intrappolato dal gesso, «ho questo.»
Io mi risistemo in quell'angolo di letto che lui continua a riservarmi.
«Però passerà. Hai sentito cosa ha detto il dottore? Un braccio rotto se sistema!»
Lui solleva lo sguardo dal piccolo mp3 verso di me, incurvando le labbra in un sorriso.
«E poi dobbiamo fà il nostro viaggio in moto, ti ricordo! Dovrai reggerti bene a me, perché io corro!»
Con Simone è tutto un interpretare piccoli segnali che mi lancia e anche ora, mentre parlo a ruota libera e lui sgrana gli occhi, capisco subito di dover tornare sui miei passi.
Mi chino su di lui per quanto concesso dalle mie costose, allungando un braccio e sfiorando con la mano la sua.
Il timore che potesse ritrarla via svanisce nello stesso istante in cui lui si lascia accarezzare.
La mia mano posa lieve sul dorso della sua, è freddo e riesco a sentire le vene sporgere in rilievo e le nocche fredde.
«Scusami... io non-non ti volevo spaventare.»
«È solo che...»
«Sei qui per..?»
Un incidente in moto.
Forse è quello che l'ha portato qui.
Lui però scuote la testa, lo sguardo basso sulle lenzuola.
Vorrei essere sfacciato e chiedergli allora cosa diavolo sia successo, ma quando li ripunta su di me, i suoi occhi sono lucidi e mi sembra così innaturale che sia stato io a ridurlo al pianto.
Qualche lacrima accarezza le sue guance e io non riesco- no, non ci riesco- a mantenermi fermo e distante.
Scendo giù dal letto quel che basta per avvicinarmi a lui e mi trema la mano, mentre sfioro il suo viso e asciugo via le gocce che lo percorrono. Siamo così vicini da sentire il suo fiato riscaldare la mia mano, la sua pelle è morbida e le ciglia solleticano le guance arrossate.
Anche in questo momento, Simone ha una bellezza che me verrebbe da definì leggera.
Sfiorare la sua pelle ha la stessa sacralità dell'avvicinare le dita ad una piccola fiammella che temi possa spegnersi da un momento all'altro. Per questo badi bene a non avvicinarti troppo, per non sovrastarla e non intaccarla in alcun modo.
Vuoi solo proteggerla, vederla brillare e sentirla scaldare tutto intorno.
«Simò, puoi parlarmene, se vuoi.»
Scuote ancora una volta la testa, «É troppo.»
E ha ragione, è troppo.
Troppo per lui, parlarne.
Troppo per me, vederlo piangere.
« Allora possiamo parlare d'altro!» gli propongo, con un sorriso. «Quando usciamo da qua-» prendo a dire, per la smania di coprire i silenzi. «-potremmo...potremmo...»
La verità è che non ho nulla da dire, nulla da proporgli. E che l'unica cosa che vorrei è vederlo star bene, indossare i primi vestiti che troviamo a portata di mano e andare via, lontano da qui.
Senza dare troppe spiegazioni.
«Riposare.» conclude lui, al mio posto. Con la schiena si sistema un po' contro il materasso, sembra essere quasi incorporeo nel suo muoversi, tanto sottile da non scombinare le lenzuola che lo coprono e da non intaccare me che gli sono a fianco.
«Sei stanco?»
Lo vedo annuire piano contro il cotone del cuscino, con il volto girato verso di me, i suoi occhi sono ridotti ad una fessura, stanchi e lucidi.
Con la punta delle dita sto sfiorando i suoi lineamenti, allontanandomi piano per tornare sul mio letto, quando la sua mano poggia sulla mia e mi blocca, riportandola sulla sua guancia.
Io non oppongo alcuna resistenza e la mia mano si scioglie in una carezza che lui accoglie con un sorriso. Forse era questo che gli serviva per sentirsi meglio: una carezza, un po' di amore.
«Manu, puoi restare?»
Cattura con delicatezza la mia mano nella sua e piano piano scivola verso un lato del letto, per concedermi spazio sufficiente per stendermi al suo fianco.
Tentenno un po', prima di sedermi in un angolo di letto e scivolare sotto le coperte. Ci siamo entrambi rilegati in uno spazio così minuto del letto che i nostri corpi nemmeno si sfiorano ed è lui a tirare indietro la schiena quel tanto che basta per toccare la fasciatura che avvolge il mio costato.
Il suo corpo è teso, probabilmente pronto a ritrarsi, spingendosi in avanti per non urtarmi in alcun modo, ma la mano che tiene la mia ancorata alla sua guancia rimane ancora lì, a mantenere quel contatto di cui sente bisogno.
E di cui anche io sento il bisogno.
Sentirlo sciogliersi man mano che il sonno ha la meglio su di lui e lo avvolge, mi fa sentire tranquillo, al sicuro da ogni cosa.
Il cuore mi batte forte nel petto e la persona di cui mi sto innamorando è al mio fianco.
Forse è questo, quello di cui i grandi scrittori del passato ci hanno sempre parlato e di cui i cantanti cantano.
Quel sentire così sottile che s'insinua nelle anime e ci fa sentire vivi, la felicità.
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