La prima buona azione.


Tre giorni che sto chiuso qui dentro e già sto a diventà matto. 

Ci provo pure, a mantenere la calma, ad impiegare il tempo in qualche modo e non perdermi nei meandri della mia mente che mi suggerisce che dovrei essere ovunque, tranne che qui. 

Mia madre mi ha portato un paio di libri da leggere. 

Peccato facciano parte della sua vecchia collezione di Harmony e, onestamente, meglio contà le auto che vedo sfrecciare fuori dalla finestra di questa stanza. 

Grazie tante, mà.

Va bene che sò gay e disperatamente in cerca d'amore ma ancora non sto così tanto alla canna der gas per innamorarmi de uno de 'sti tipi smielati di cui raccontano 'sti libretti. 

Comunque, finora, di auto, ne ho viste passare centotrentacinque.

Centotrentasei, se contiamo quel lambrettino mezzo scassato del venditore ambulante che, poraccio, prima o poi resta a piedi sicuro. 

Ero quasi tentato de fargli segnale per lasciargli il mio numero, gli avrei pure fatto un buon prezzo. 

E invece niente. 

Un cliente in meno per me e un poraccio in più che resta a piedi per strada.

La scena di mia madre che mi guarda disperata, con gli occhi pieni di lacrime come se m'avessero staccato la testa in un colpo solo, me la sarei risparmiata volentieri. 

Tra l'altro evidentemente me sopravvaluta perchè è convinta che 'ste costole incrinate siano frutto del fatto che m'abbiano malmenato e invece no, sò io che sò caduto dalla moto, mentre ero fermo, per giunta. 

Ho cercato di spiegarglielo ma mi sa che non ce sò propriamente riuscito. 

Continuava a ripetermi, tra le lacrime, «Manuel, ma cosa ti hanno fatto?!» .

E io, «A mà, sono caduto mentre ero solo.»

E lei, non convinta, «Cosa?! Cosa ti hanno fatto!?»

E io, di nuovo, «Mamma, sono caduto, mentre ero da solo, dalla moto. La moto stava ferma, mà!»

Alla fine, è tornata a casa, salutandomi sulla porta della stanza con un «Mamma torna presto!»

Me sò sentito un po' come quando mi lasciava all'asilo, promettendomi di tornare a prendermi prima del previsto, solo per non farmi piangere. 

Però almeno quella era 'na stanza piena de giochi, in questa ce sto io, disteso su sto letto scomodissimo, una televisione che c'avrà l'anni sua di cui è stato perso il telecomando, è sintonizzata su Rete quattro, danno Forum- come sempre. 

Peccato che qualcuno avrà impostato il muto prima de far sparì 'sto telecomando nel nulla, il risultato sono dei tipi che boccheggiano come pesci e gesticolano come matti, mentre altra gente li guarda e probabilmente li giudica pure.

Sono spettatori delle loro mosse esasperate, troppo curiosi per distogliere lo sguardo da quello che sembra essere uno spettacolo, alla fine dei conti, abbastanza deplorevole. 

Gente che si urla addosso chissà cosa per chissà quale motivo. 

Vorrei spegnerla e provare a dormire, ma per riuscire a farlo dovrei spegnere prima le mie orecchie che non fanno altro che intercettare ogni minimo rumore proveniente dall'esterno di 'sta stanza, poi il cervello e poi convincere gli occhi a chiudersi e non saettare da una parte all'altra come se da un momento all'altro dovesse sbucà un mostro da dietro la tenda che separa me da quel letto vuoto. 

Sbuffo contro il vetro della finestra, mentre mi volto a guardare di nuovo la strada.

Centotrentasette, centotrentotto, centotrentanove.

 «Ferro! Da oggi hai un nuovo ospite in stanza!»

La voce di Gioia, l'infermiera del piano, mi coglie di soprassalto.

La guardo un po' perplesso, mentre armeggia con una pila di lenzuola pulita che stende alla meno peggio sul letto, facendo agli angoli dei grossi nodi per bloccare il tessuto bianco. 

«C'avrà più o meno la tua età.» mi dice. 

Credo parli di qualcuno che prenderà posto in quel letto. 

«Me raccomando, non fa il pazzo e trattalo bene. L'ho visto di sfuggita e- mi ha fatto molta pena. Tu mi sei sembrato il più adatto a farlo sentire un po' a suo agio, ho suggerito io stessa al dottore di farlo mettere qui, quindi non farmene pentire.»

Annuisco. 

A dire il vero, non ho capito l'urgenza di dovermi fare quel tipo di raccomandazioni.

Non sò mica un criminale!

Comunque, Gioia sembrava sul punto di mettersi a piangere, quindi mi limito a questo col capo, come un diligente bambino che promette di essere ubbidiente. 

«Giuro che me comporto bene.»

«Stanno arrivando, devo chiude questa.» 

Con un colpo secco, tira a sé la tenda che separa i due letti, impedendomi di vedere oltre. 

Sento il rumore delle ruote della lettiga che si muovono contro il pavimento. 

«Simone, ora ti alziamo e ti mettiamo sul letto. Tu non devi fare niente, solo lasciarti prendere. Hai capito?»

Nessuna risposta. 

Solo un piccolo conto alla rovescia, da parte del personale, che credo gli serva per sincronizzarsi nel spostarlo. 

Dalla tenda bianca riesco solo a vedere l'ombra di questo involucro che sollevato e poi posizionato di fianco. 

La lettiga viene spostata, ne sento cigolare le ruote che scorrono a fatica sul pavimento e vedo spuntare una parte, poi,  in fondo alla stanza.

«Ecco qua.». A parlare, ora,  è una voce maschile. 

Sembra quella di un uomo di mezz'età, probabilmente un altro medico.

O il padre del ragazzo.

 «Ora tu pensi solo a riposarti e a stare meglio, torniamo presto a casa. Va bene, Simone?»

Si chiama Simone. 

E non risponde nemmeno questa volta. 

Per lo meno, io non riesco a sentire la sua voce. 

«Per qualsiasi cosa, schiaccia questo campanello e noi siamo da te» .
Questa volta è Gioia a parlare, la riconosco.

 «Questo, Simone, questo che hai nella mano destra.»

Sollevo lo sguardo oltre la tenda, vedo il filo bianco del campanello muoversi, probabilmente è proprio lei a tirarlo, per stringerlo tra le dita del ragazzo.

«Mano destra, Simone. Mano destra. Stringi e noi veniamo qui. Fai una prova.»

E Simone esegue, perchè il campanello suona e una piccola lucina rossa si accende sopra il suo letto. 

Riesco a vederla anch'io, alzando lo sguardo.

«Bravissimo, Simone. Questa cosa ogni volta che hai bisogno. Vuoi riposare adesso?»

Nessuna risposta.

«Perfetto, allora ti lasciamo riposare. Saluta il papà che torna per l'orario di visita, eh.» dice Gioia, con un tono di voce insolitamente gentile e rassicurante. 

«Certo, alle 17 sono qua. Puntualissimo!» risponde la stessa voce maschile che ho udito poco fa.

Quindi quello è suo padre. 

«Ti porto un cambio e qualcosa da mangiare.», aggiunge poi. «Tutto quello che vuoi. Va bene?»

Sento scoccare un piccolo, immagino sia proprio suo padre a salutarlo.

Chissà cosa si prova, ad essere salutati da un papà.

La stanza si svuota velocemente, la porta si chiude con un tonfo.

Resto in silenzio, cercando di focalizzare l'attenzione solo sui possibili suoni emessi da quel ragazzo. 

Da come gli parlavano, credo stia piuttosto male. 

Non so cos'è che mi spinga a preoccuparmi tanto, forse il fatto che Gioia mi ha detto che ha la mia stessa età, forse il modo in cui scandivano ogni parola mentre si rivolgevano a lui, forse il fatto che lui non abbia detto una parola. 

Non lo so. 

Fatto sta che sento montare un'agitazione strana dentro di me, che mi spinge a voler conoscere quel ragazzo così avvolto in un sofferente mistero. 

Rimango a fissare il vuoto per un paio di secondi, in cerca non so di cosa, di un'illuminazione forse.

Qualcosa che mi dice che forse dovrei azzardare un "ciao, come stai?" ad alta voce.

Magari mi risponde. 

O magari lo disturbo mentre sta dormendo e mi confermo essere lo stronzo che sono. 

D'accordo. Ho un piano. 

Mi alzo, fingerò di dover andare in bagno. Che poi, in realtà, un po' mi scappa per davvero. 

Così passo di fianco al suo letto e vedo se è sveglio. 

Geniale, bravo Manuel! 

Lo vedi che quando vuoi e metti in moto questo cervellino ci sei!? 

Mi alzo lentamente, per evitare che le costole mi facciano troppo male. Questa fascia che mi tiene immobilizzato il busto mi comprime a tal punto che a volte mi manca il respiro.

Sospiro rumorosamente dopo essermi tirato su a sedere, mi metto in piedi e cammino lento per raggiungere il bagno. 

Lo guardo, è completamente coperto dal lenzuolo. 

Riesco solo a intravedere una chioma riccioluta scura e un braccio ingessato. 

Non voglio soffermarmi troppo a guardarlo, non voglio si senta a disagio a causa mia. 

Quindi tiro dritto per il bagno dove svuoto la vescica, mi lavo le mani e torno indietro. 

Getto un altro sguardo sul ragazzo, c'è una piccola macchia scarlatta in prossimità della sua gamba, credo stia sanguinando.

Ma lui sembra totalmente ignaro, infatti non si muove, magari dorme. 

Torno sul mio letto.

Devo farmi i fatti miei, non posso mica mettermi a dare allarme perchè un tizio perde un po' di sangue dalla gamba. 

I medici sono stati qui pochi minuti fa, sapranno perfettamente come sta.

Non devo preoccuparmi, non ne ho proprio il diritto.

Tanto meno il dovere, eh. 

Vojo di, ma chi 'o conosce a questo?

Eppure non si placa quell'agitazione che sento scorrermi nelle vene, aggrapparsi al mio collo, scuotermi la testa, confondermi. 

«Stai bene?»

Sputo fuori quella domanda, istintivamente. La voce è abbastanza alta da farmi sentire anche da lui. 

Se è sveglio, sono sicuro mi abbia sentito. 

Non mi risponde. A questo punto do per certo stia dormendo.

Allungo una mano verso la tenda bianca che ci separa. La faccio scorrere in modo quasi impercettibile, quel tanto che basta per liberare la visuale e intercettare con lo sguardo il suo volto.

Me li vedo piantati addosso, quei due occhi grandi che puntano verso la mia direzione e quasi sono tentato di richiudere la tenda di colpo e far finta che niente sia successo.

«Scusa-scusami.». Per la prima volta dopo tanti anni, balbetto.
«Scusami, io- pensavo dormissi e volevo- non lo so- capire se stessi bene. Scusa, ciao!»

Quegli occhi grandi e tristi continuano ad osservarmi mentre rimetto a posto la tenda con un colpo secco. 

Il rumore degli anelli di ferro che schioccano tra loro e che strisciano lungo l'asta che la tiene sollevata, è l'unico ad essere prodotto. 

Poso le spalle sul materasso e il dolore alle costole urla rabbioso per l'eccessivo movimento.

Provo a placarlo posando una mano sulla fasciatura.

Porto la testa indietro e sono convinto di vedere qualche stella mentre imploro silenziosamente quelle dannate costole di tornare al loro posto.

Dopo qualche minuto, il dolore si è attenuato un po'.

Tengo comunque una mano ben salda sul punto in cui le fitte sono più dolorose delle altre, mentre il pensiero torna su quel ragazzo che mi auguro ora dorma, nel letto vicino al mio.

Chissà che ha pensato, quando mi ha visto saltare quasi in aria dopo averlo visto. 

O ha pensato che sono un cretino, cosa molto probabile. 

O ha pensato di essere lui un mostro.

Provo ad allungare di nuovo un braccio, per scostare la tenda. 

Una voce interna mi rimprovera già da ora, « Non fare il coglione, Manuel!», mi dice.

Annuisco come un bravo soldato che ha appena ricevuto una strigliata dal caporal maggiore e mi appresto a portare a termine la missione. 

Afferro con le dita una piccola porzione di tenda e la sposto. 

Tiro un sospiro di sollievo nel vedere che quel ragazzo, quel Simone, sta dormendo. 

Finalmente.

Ne osservo il viso. Nonostante sia visibilmente stanco e incavato, c'è della grazia in quei lineamenti così scolpiti.

Guardo la luce a neon della stanza e quasi sto per alzarmi e andarmi a spegnerla quando mi ricordo che l'impianto è centralizzato.

Non esiste interruttore in questa stanza.

A guardarlo, comunque, la luce non sembra dargli fastidio. 

Mi alzo comunque in punta di piedi per raggiungere quel laccio fatto da piccole palline di plastica, dal quale è possibile manovrare la tenda a balze biancastre e verticali, situata di fronte ai vetri della finestra. 

La sistemo in modo da oscurare il più possibile la luce del sole che è ancora piuttosto alto, per essere quasi le 18.

Continuo a giocherellare con il filo, strofinando ogni piccola sfera tra le dita.

Dovrò mettere in pausa il conto delle auto, ma non importa. 

Me importa che lui possa riposà bene.

La luce all'interno della stanza si fa più fioca e me sento come un peso in meno su 'sto petto: la mia prima buona azione della giornata.



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