28 - 11 - 2021
Gabriel era accucciato nell'angolo del piccolo divano più vicino alla stufetta, con un plaid sulle spalle, ascoltava il rumore della pioggia che scendeva sulla cittadina e mormorava le note di una melodia.
Era sera, era domenica, domenica ventotto novembre, era stato un freddo assurdo per tutto il giorno, e nonostante ciò il tempo si ostinava a essere piovoso piuttosto che nevoso.
Il rumore dei passi di Dorian gli si avvicinò, anche lui fischiettava: aveva portato su gli addobbi di Natale da almeno una settimana, e quel giorno aveva finalmente avuto la scusa per decorare l'appartamento.
Ora sullo scaffale c'era una famigliola di pupazzetti di neve finta, sopra al tavolo un alberello fatto di cannucce di carta colorate che aveva fatto Gabriel durante un progetto di arte, alle estremità della televisione erano appese due stelline di feltro bianco, dalla finestra si vedevano delle lucette dorate che lampeggiavano, e molto probabilmente in giro erano nascosti un'infinità di piccoli dettagli che rivelavano la particolare attitudine del padrone di casa.
Dorian non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma era un'anima terribilmente attratta dalle feste, se fosse stato solo per lui avrebbe fatto Natale tutto l'anno. Vedere quei colori caldi gli riempiva il cuore di tiepido entusiasmo, in contrasto con il freddo pungente che gli trasformava le parole in nuvolette.
Si sedette sul divano accanto all'altro e gli pose tra le mani una tazza fumante, «Tieni,» esclamò, «Ho fatto la cioccolata,»
«Grazie.»
Dorian si mise a soffiare distrattamente sulla sua tazza, avvolto nella felpa troppo grande, lo sguardo perso negli edifici che si inzuppavano fuori dalla finestra.
Gabriel interruppe il corso dei suoi pensieri, «Credi che nevicherà?»
L'altro arricciò il naso a punta e corrugò la fronte, «Potrebbe. Ma si starebbe bene anche se non lo facesse, no?»
A discapito dell'atmosfera natalizia che portava, a Dorian non piaceva affatto, la neve: rendeva tutto uguale, sporco di bianco, copriva ogni colore e lo sostituiva con un monotono velo bagnato.
«Quand'è stata l'ultima volta che ha nevicato qui, Dorian?»
«Eh... quattro anni fa, Gabriel.»
«Oh.»
A Gabriel invece la neve piaceva. Quella volta, quattro anni prima, era febbraio, e aveva nevicato così tanto che avevano chiuso la scuola, e lui aveva passato tutta la giornata a fare a palle di neve e a scendere con lo slittino giù dalla collinetta davanti al parco. Quando lui e Dorian erano tornati a casa, battevano i denti e non si sentivano le dita né i piedi. Era l'ultima memoria visiva che conservava, da lì in poi non c'erano più forme e colori ma suoni, sensazioni e fantasie.
Mentre i ricordi precedenti erano sbiaditi nel tempo, quello lì era ancora vivido e brillante, come se fosse il presente, anzi anche più vivace del presente: il bianco dei capelli di Dorian che si confondeva con la neve, i suoi occhi scuri, il nero degli alberi incappucciati fuori e il colore caldo del fuoco nel caminetto dentro casa, era tutto terribilmente vivo.
«Credi che avrai molte versioni da fare per le vacanze di Natale, Dorian?»
«Può darsi.»
«Me le leggerai?»
«Certo.»
Gabriel prese un cauto sorso di cioccolata. Gli sarebbe piaciuto fare il classico, l'aveva seriamente considerato, poi era successo quello che era successo, alla fine aveva scelto lingue, e al classico era andato solamente Dorian: aveva fatto bene, aveva un vero talento per le materie d'indirizzo, se solo avesse avuto un po' più di voglia avrebbe conseguito risultati eccellenti.
Il punto era che a Dorian non piaceva tradurre, lo trovava inutile e nocivo: se un autore ha scelto una lingua per esprimersi, vuol dire che in quella lingua ha pensato, e tradurre vorrebbe dire violare il pensiero di chi ha scritto.
Di fatto, l'unica motivazione che a volte trovava per completare le versioni era che a Gabriel piaceva sentirsele leggere, soprattutto in greco, quindi spesso di sera, nella mezz'ora che riuscivano a incontrarsi, gliele rileggeva, in lingua originale e anche nella versione tradotta, e gli spiegava il significato originale delle parole e i motivi che l'avevano spinto a scegliere una traduzione invece di un'altra, e Gabriel ascoltava.
Ogni tanto chiedeva qualcosa, ma perlopiù ascoltava, con lo sguardo attento e un mezzo sorriso.
Altre volte era lui a spiegare a Dorian i fondamenti delle lingue del suo indirizzo, lo spagnolo e il tedesco, oppure semplicemente quello che era successo a scuola, e anche Dorian lo ascoltava.
«Che ore sono?»
«Le sei e mezzo.»
«Che materie hai domani?»
«Greco, inglese, antologia e matematica. Tu?»
«Scienze, storia, inglese e mi sembra spagnolo. Dovrei controllare.»
Dorian aveva finito la cioccolata e ora guardava fuori con aria preoccupata.
«Torni a casa a dormire?»
«Sì, non ho lo zaino qua.»
«Hai ragione.» il ragazzo dai capelli bianchi si alzò e appoggiò la tazza vuota sul tavolo, «Vuoi che ti accompagni a casa?»
«Perché no.»
Anche Gabriel si alzò e si avvicinò cautamente al compagno, «Sarà tanto freddo fuori?»
«Credo di sì. Tieni il giubbetto, è già al dritto.»
Casa di Gabriel era lontana quattro passi dall'appartamento dove viveva Dorian, e nonostante ciò, per quanto corto, il tragitto bastò a far penetrare il freddo fin dentro alle ossa di entrambi.
Sulla porta, Dorian gli sorrise, anche se sapeva che non l'avrebbe visto, «Ci vediamo domani a scuola, allora.»
«Sì.»
Fu sul punto di girarsi e andarsene, quando gli venne in mente un'ultima cosa, «Gabriel,»
«Sì?»
«Buon Natale,» disse giocoso.
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