11 - 02 - 2021
C'era chiaramente qualcosa di sovrannaturale.
Non era solo il contrasto dei colori chiari del ragazzo con il buio dello squallido vicolo, no no, era lui che sembrava letteralmente brillare di luce propria.
Era appollaiato sul muretto, la schiena curva come se portasse un peso, e fumava distrattamente con i gomiti sulle ginocchia: aveva i capelli di bronzo fuso, luminosi e biondissimi, gli occhi socchiusi azzurri, freddi e duri come ghiaccio, la pelle di cera liscia, le dita lunghe e affusolate, il naso dritto come l'orizzonte e un profilo perfetto, come una statua di marmo, come una divinità.
Portava un semplice paio di jeans blu strappati sulle ginocchia, scarpe bianche e una maglietta che gli copriva le spalle, lasciando scoperte le braccia spigolose nonostante dicembre infervorasse l'aria immobile, dalle lunghe orecchie pendevano anelli e catenine, sui suoi polsi sottili dei bracciali luminosi mandavano la loro pigra luce soffusa; lui respirava piano, una smorfia infastidita sulle labbra sottili, come se avesse tutto il tempo del mondo a disposizione.
Quando si lamentò con aria annoiata, la sua voce era limpida e cristallina, come le increspature di un laghetto su cui si fanno rimbalzare le pietre.
Era bello, e assolutamente, inequivocabilmente fuori posto in quel vicolo buio.
Il ragazzo - o la ragazza, non era chiaro,- coi capelli scuri si nascose trattenendo il respiro dietro all'edificio e arrossì, un improvviso moto di vergogna che bruciava loro nel petto. Lui era così diverso da loro. Lui era così bello, nobile, aggraziato, immacolato, pensò, aveva la pelle pulita e liscia, senza marchi e senza cicatrici. Il ragazzo o ragazza si guardò i palmi delle mani: avevano la carnagione olivastra, su cui spiccavano dei segni, alcuni più chiari e altri più scuri. Sapevano di essere sgraziati, e di avere i capelli scuri e disordinati, e gli occhi grandi e neri, e le membra scomposte.
A loro quel corpo non piaceva, volevano tornare a casa, ma sapevano che avrebbero dovuto obbedire agli ordini per farlo.
Sperarono con tutto il cuore che il ragazzo nel vicolo fosse la persona da cui quegli ordini sarebbero venuti.
Si fecero coraggio e raggiunsero l'essere meraviglioso appollaiato sul muretto: quando li vide, lui abbassò lo sguardo pieno di sdegno e lanciò loro un'occhiata di arrogante sufficienza, soffiando fumo dalle labbra sottili, poi alzò subito gli occhi, disgustato all'idea di continuare a guardarli.
«Scusatemi, signore...» il ragazzo o ragazza corrugò timidamente la fronte, senza arrischiarsi ad alzare lo sguardo colpevole sull'altro, «Voi siete De-»
«Non azzardarti a pronunciare il mio nome.»
Loro abbassarono velocemente gli occhi al suolo, abituati all'obbedienza; il ragazzo li guardò di nuovo e soffiò loro in faccia una nuvola di fumo, annegandoli nel grigio.
«Sai chi sei, miserabile ameba?»
«Sì, signore.»
«Bene.» il ragazzo sembrava assorto, sembrava stesse parlando da solo, sembrava che il suo interlocutore o interlocutrice fosse trasparente. «E sai chi sono io?»
«Sì, signore.»
«Ottimo.» il ragazzo alzò gli occhi alla frazione di cielo che si vedeva dai tetti, respirando fumo. «Partiamo da questo presupposto.»
Si alzò in piedi, sputò a terra e si stiracchiò senza fretta e senza riguardo per il fatto di non essere più solo, poi fissò le iridi cristalline in quelle scure della ragazza o ragazzo. I suoi occhi erano iceberg, profondi, freddi, duri e spigolosi.
«Ce l'hai qualcosa di vagamente simile a un nome, microbo?»
«Sì, signore. Daimon, signore.»
«Bene, Daimon.» al ragazzo o ragazza non piacque la maniera in cui l'altro sottolineò il loro nome. «Sai perché hai avuto l'onore di uscire dal buco profondo come il mondo dove passi l'eternità?»
Daimon deglutì, «Sì, signore. Dobbiamo trova-»
«Sta' zitto.» l'interruppe il ragazzo dai capelli biondi, lanciandogli un'occhiata affilata come un pugnale. Camminò con tutta la calma del mondo verso l'altro, spingendoli contro il muro freddo, e piantò le braccia appena sopra le loro spalle, imprigionandoli.
Li squadrò dall'alto in basso: gli arrivavano a malapena alle clavicole, indossavano una semplice felpa grigia stinto, pantaloni neri e stivali, lo stavano guardando con il terrore negli occhi neri, come un patetico pulcino bagnato. Il ragazzo se ne compiacque.
Sputò di nuovo a terra e si godette il sussulto intimorito del ragazzo o ragazza.
Si avvicinò a loro finché non fu sul punto di sfiorare la loro guancia col naso, e mormorò, «Feccia.»
Loro tremavano.
«Sì, signore.»
«D'ora in poi obbedirai a me, e a me soltanto. Sono stato chiaro?»
«Sì, signore.»
Il ragazzo si allontanò soddisfatto, con un sorriso angelico sulle fredde labbra sottili, «Ottimo. Diventeremo grandi amici, Daimon.»
«Sì, signore.»
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