05 - 12 - 2021
Lei l'aveva incontrata nell'ufficio del preside, quella volta che aveva deciso di convocare e sospendere tutti quelli che avevano preso parte allo sciopero non autorizzato.
Se lo ricordava perfettamente: era fine maggio, la scuola era a un passo dalla sua maledetta fine e il preside avrebbe potuto chiudere un occhio, e invece no, aveva deciso di rivolgersi direttamente agli studenti. Avrebbe potuto passare per le classi e parlare in generale, e invece no, si era fatto dare l'elenco degli alunni assenti ingiustificati di quel giorno e aveva convocato tutti quanti a due a due nel suo ufficio, semplicemente perché nel suo ufficio c'erano solo due sedie.
Quel giorno lei portava una salopette, e quando si erano trovati entrambi in presidenza gli aveva lanciato un'occhiata disgustata da sotto una canasta di ricci rossi, come se si sentisse chissà quanto moralmente superiore a lui, come se non fossero tutt'e due nella stessa pessima situazione.
Ecco, da quel giorno in poi se l'era trovata costantemente tra i piedi.
All'ingresso della scuola, durante le uscite, ai corsi di recupero, sull'autobus, al centro commerciale, nei bar, maledettamente dappertutto.
Ogni santa volta che era sovrappensiero apparivano i suoi ricci rossi.
La misura si era colmata un venerdì sera, quando l'aveva vista al bancone del suo stesso bar: e allora lui, siccome la cosa stava sfuggendo di mano e lui detestava le cose che gli sfuggivano di mano, aveva deciso che l'avrebbe avvicinata di sua spontanea iniziativa.
Se l'unica alternativa che aveva era vedere dappertutto quella ragazza insopportabile, almeno avrebbe potuto dire che se l'era cercata.
Le aveva offerto da bere, e lei l'aveva fulminato con uno sguardo: aveva gli occhi marroni, color nocciola.
L'aveva rassicurata sul fatto che non voleva uscire con lei e che l'unica cosa che voleva era chiacchierare, e lei aveva alzato le spalle.
«Solo non provare a baciarmi sul marciapiede,»
Da allora, le cose non erano molto cambiate, nonostante fossero passati mesi interi: si chiamava Denise, faceva lingue perché era irlandese e aveva addosso una salopette per il novantatré percento del suo tempo.
Quando le aveva chiesto perché, si era limitata a rispondergli che suo padre voleva un maschio, il che non era molto esplicativo, in effetti.
Era silenziosa, ma quando parlava sapeva cosa diceva, e quando parlava lui sapeva come interpretare le sue parole. Possedeva le sue stesse dosi abbondanti di cinismo e umorismo nero, e spesso quando uscivano di sera finivano per gironzolare in giro per la città fino al mattino presto.
Tsu sospirò e alzò gli occhi sulla luna che brillava nel cielo terso.
Era freddo, il freddo pungente di inizio dicembre, e la città era deserta e illuminata solo dai fari trasandati che ogni cinque metri spuntavano dal marciapiede.
«Che ore sono?»
«Non mi sembra che te ne sia mai importato qualcosa.»
Eh, che dire, aveva ragione.
Il giorno prima, Zaccaria era rimasto là sopra in mansarda con lui per anche troppo tempo, abbastanza da imprimergli nella mente quei suoi tristi occhi color miele.
Denise, che camminava pochi passi davanti a lui, si girò e gli lanciò uno sguardo obliquo. «Ohi Tsu. Tutto bene?»
«Sei stata tu a dire che se avessimo voluto fare questi discorsi ci saremmo procurati un terapista, mi sbaglio?»
La ragazza alzò le spalle e continuò a dondolare sul cemento.
Tsu piegò la testa da un lato.
Avrebbe potuto continuare a girare per la città con Denise, nella speranza che la notte non finisse mai e il sole non lo costringesse mai a tornare alla sua vita; quando sarebbe inevitabilmente successo, rifugiarsi a dormire sperando di non svegliarsi, e quando si sarebbe svegliato continuare a navigare nell'opaco e sistematico presente.
Che alternative aveva?
«Me ne torno a casa, Denise.»
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