31

     I fiori profumavano. Profumavano di fresco, di natura, di selvaggio e di dolce. La loro era una vera e propria esplosione di odori e di colori, una bomba scoppiata fra le quattro mura ma che, anziché portare polvere e distruzione, regalava la vita.

Zoey si chinò su un mazzo di crisantemi, ad annusarne l'essenza più profonda; le pizzicò le narici. Ne accarezzò i petali, attenta a non rovinarli. Poi proseguì verso il basso, sfiorò il vetro del loro contenitore, ne seguì il contorno, tondo e ciccione.

Crisantemi di tutti i colori occupavano l'intero ripiano. Zoey scrutò quelli bianchi, così noiosi, così adatti al sacrale minimalismo di Aném da darle la nausea. Il tacco cercò il pavimento dietro di sé, per allontanarsi, invece trovò un vaso, che urtò, provocando un rumore di cocci rotti. Zoey spalancò gli occhi e si voltò, la mano sul cuore, in un solo movimento.

Cos'aveva combinato?

Le rose la fissarono di rimando. Dal basso, con le loro spine in bella vista e i petali rossi, bianchi e gialli attorcigliati su loro stessi in una spirale tanto bella quanto inquietante. Zoey le aveva sempre trovate strane, le rose. Passionali e gentili, eppure misteriose. Non volevano farsi conoscere, le rose. Però osservavano gli altri, si facevano portatrici dei simboli più apprezzati dell'umanità.

I vasi in cui erano rinchiuse non presentavano nessun danno. Zoey si inginocchiò, per assicurarsi non ci fossero piccole crepe invisibili dall'alto. Niente. Lasciò uscire un sospiro, e rimase lì, a combattere una gara di sguardi con un mazzo di rose gialle.

Se ne accorse allora, di essere osservata.

E non erano le rose a spiarla.

Glielo dissero i fiori, in un sussurro che viaggiò assieme alla brezza fresca che entrava dalle finestre spalancate. Il vento si sollevò e sconvolse l'interno del negozio, alcuni petali di vari colori volarono in aria.

Zoey non si mosse. Spostò solo gli occhi, attirati da un movimento alla sua destra. Oltre la fila di vasi, oltre il mobile dove poggiavano intere composizioni sgargianti, non c'era nessuno.

Strano.

Le rose le avevano mentito?

No, no. Impossibile. O forse no. Dopotutto, le rose amavano crogiolarsi nel loro mistero. Chissà, magari farla diventare paranoica faceva parte della loro strategia per mantenere quell'aura enigmatica.

Si rialzò, battendosi dei colpetti sull'abito. Troppo lungo, le arrivava alle caviglie; e troppo chiaro, di un color crema che ancora si discostava molto dal suo desiderio. Lo stesso azzurro chiaro e luminoso della pelle di Celes, ecco cosa avrebbe voluto indossare, peccato che, per il momento, Aném ancora non voleva saperne di rinnovarsi.

Pazienza.

Presto la città sarebbe stata libera. E allora i colori sì, che sarebbero tornati a rallegrare gli edifici, le persone; si sarebbero riflessi nei sorrisi nei passanti, si sarebbero confusi con gli occhi della gente.

Zoey la vedeva già, casa sua: la sua nuova e vera casa, con rampicanti a decorarne le finestre e le pareti, vasi grondanti di piante allegre e vivaci, striscioni gialli, viola, blu e rossi disseminati di qua e di là, per il puro gusto di appagare il suo bisogno di circondarsi di ciò che le piaceva di più.

Ne valeva la pena. Ne valeva davvero la pena.

Un urlo, nei meandri più oscuri della sua mente, arrivò a scuoterla. Zoey non mosse un solo muscolo, tenne le braccia a circondarla, cullata dal fischio del vento e dalla danza dei petali che ancora volavano verso il pavimento.

Ragazzi, donne, uomini e persone di tutte le età aggiungevano le loro voci all'eco di quel primo grido. Zoey osò abbassare le palpebre – un istante soltanto – ed eccoli lì, i loro corpi, che scalpitavano e scalciavano e si scuotevano, le labbra premute contro quelle di Crazio, di Echo, di Celes.

Poi crollavano a terra, pallidi, madidi di sudore. Nicholas e Jonah li risollevavano, li portavano via, ed ecco, avanti il prossimo.

Un'operazione lunga, richiamare ogni singolo abitante di Aném, uno alla volta, ma non avevano altra scelta: gli Psych ormai li indossavano i pochi. Perciò erano costretti ad andare appartamento per appartamento, negozio per negozio, con le armi spianate, a costringere le persone a seguirli.

Era davvero giusto? Costringere le persone a fare qualcosa contro la loro volontà li avrebbe davvero resi liberi?

Sì. Doveva. Per forza. E lei doveva imparare a non dubitare ancora di Celes.

Il vento si alzò una seconda volta. Le carezzò le guance con il suo tocco gentile. Le portò le voci delle rose, preoccupate; Zoey voltò il capo da un lato all'altro, attorno a lei nient'altro che vasi e fiori. Eppure, li sentiva, oltre il mobile delle composizioni: dei passi.

Sarà solo il commesso, si disse.

E si abbassò di nuovo, a cogliere una manciata di rose dai vasi. Le rose, simbolo dell'amore, della passione o dell'innocenza, dell'amore puro e spirituale o della vivacità. Nessuno di quei simboli si addiceva al suo scopo. Celes però aveva ragione: chi le impediva di infonderci una simbologia personale?

Dopotutto, guardandole, Zoey si era convinta che quelli fossero i fiori giusti. Ne prese una per ogni anima che ricordava: il tizio con uno strano difetto di pronuncia, la ragazzina che piangeva, l'anziano senza più i denti, il bambino che chiedeva un lecca-lecca a sua madre, l'uomo che contraeva sempre la mascella, la persona che non si sentiva a proprio agio nel suo corpo. Ed Ebony.

Finì con un bel gruzzolo di rose gialle fra le mani. Una sola, bianca, presa per errore. Ma la tenne assieme alle altre. Tutto sommato le piaceva.

Sperava solo di non aver dimenticato i soldi. Fece per raggiungere il bancone, oltre il mobile con le composizioni. E si bloccò, il piede sollevato, congelato a mezz'aria.

Un uomo ne era uscito. La guardava, con uno sguardo focalizzato e perso al tempo stesso. Capelli e barba rossicci. Un sorriso appena abbozzato. Dei cerchi attorno agli occhi esausti.

Se lo ricordava. Lo conosceva, almeno di vista. Questa consapevolezza la spaventò di più.

Chissà perché il cuore le balzò in gola quando lui mosse un passo verso di lei; chissà perché le rose continuarono a sussurrarle di scappare.

Chissà perché lei credette ai fiori più misteriosi che esistessero.

Girò sui tacchi e camminò nella direzione opposta, passo veloce, gli steli fra le mani. Le spine la punsero, non se ne curò. Superò le file interminabili di vasi e si lanciò contro l'uscita di sicurezza. La spalancò di peso – alle sue spalle, il commesso le urlò qualcosa, lei non gli diede retta.

Il vento la investì in pieno. Il ponte di marmo che collegava i due palazzi adiacenti si snodava davanti a lei, immerso nella vegetazione, dove le strade si perdevano nell'imitazione raffazzonata di un boschetto. Zoey si tenne al busto di un albero – ce n'erano pochi, dal tronco sottile e basso e le chiome spelacchiate, il risultato di svariati innesti creati nel corso degli anni. Ne assaporò l'energia fra le dita, la sentì scorrere dalla terra, ingabbiata in un buco quadrato nel pavimento, verso le foglie.

I cespugli erano tenuti perfettamente in ordine, nemmeno un singolo rametto si sporgeva più del dovuto; erano quelli a formare le stradine da percorrere, disposti con una finta casualità, un'asimmetria che tuttavia sapeva di bello, di umano.

Le rose le mormorarono ancora. Le dissero di allontanarsi. Di darsi una mossa, o l'avrebbero raggiunta.

Chi?, si chiese.

Anche senza la risposta, obbedì. Camminò fra i cespugli, toccando di tanto in tanto il busto di quei piccoli alberelli che spuntavano di qua e di là. Oltrepassò le panchine di pietra che quel giorno ospitavano solo l'aria.

Di solito, le chiacchiere delle persone riempivano il ponte, s'infiltravano fra le foglie dei cespugli e animavano l'atmosfera. Sussurri d'amore, segreti fra amici, risate fra fratelli, litigi matrimoniali: tutte melodie separate che si univano fra loro in una sinfonia sgraziata, eppure confortante.

Quel giorno, nel silenzio si udivano i canti degli uccelli posati sui rami rachitici e, da lontano, arrivava perfino lo scroscio dell'acqua.

In quel silenzio, eccoli, i passi dietro di lei. Quante persone? Una, due, forse tre. Non avrebbe saputo dirlo.

Zoey avanzò ancora. Avanzò fino a che il piccolo corso d'acqua non comparve di fronte a lei. Un laghetto, con tanto di foglie di lotus galleggianti, si stagliava fra i cespugli. Largo la metà del ponte, si allontanava verso il secondo edificio per poi scomparire nel nulla, trasportato dalle tubature. Eppure l'acqua scorreva, non se ne stava placida.

Zoey si fermò ad ammirare quella vista. L'acqua suscitava sempre una sorta di fascinazione, su di lei: Duke le diceva sempre che, per la psiche umana, l'acqua simboleggiava le emozioni. Forse per questo le piaceva così tanto, perdersi a osservarla, così come amava perdersi nelle proprie emozioni.

Le rose la avvisarono troppo tardi del pericolo.

I passi si avvicinarono.

Una mano le prese il polso. La convinse a girarsi. Ma Zoey non si agitò, perché quel tocco era gentile e delicato.

Si ritrovò a guardare Leean dritto negli occhi. Contemplò il modo in cui il vento le sollevava i capelli e glieli scompigliava e i raggi del sole le creavano dei riflessi rossicci.

«Lee,» mormorò Zoey. Le si avvicinò, fino a sentire il suo profumo fresco di sapone. «Qualcuno mi sta seguendo.»

L'altra però non si scompose, annuì soltanto, come se lo sapesse già. L'ombra di un albero le oscurava il volto. «Va tutto bene.» Lasciò la presa sul suo polso, scivolò indietro.

Zoey scosse la testa. Strinse le rose al petto. Una spina le si conficcò nel pollice; una goccia rossa le comparve sul polpastrello. «È un po' che non ti si vede,» cambiò argomento. Forse in effetti era soltanto Leean, prima, che cercava di salutarla.

Perché qualcuno avrebbe dovuto seguirla, dopotutto? Non aveva mica ucciso qualcuno. Non era mica lei, la responsabile di tutte quelle anime divorate.

Giusto?

No. Per quanto brutto fosse il processo di liberazione, era necessario.

Lo era, vero?

«No,» le rispose Leean e, per un attimo, Zoey sollevò gli occhi sgranati su di lei, il cuore che le pulsava nelle orecchie, convinta che le avesse letto nel pensiero. Ma ovvio che non era così. Nessuno leggeva nelle menti altrui.

«Ho avuto un... brutto periodo,» continuò Leean.

Zoey abbassò la testa. Strinse le rose. «Mi dispiace per tua zia.»

«Grazie.»

Il lieve scrosciare dell'acqua riempì il silenzio con il suo canto malinconico.

Poi Leean sospirò, riavviandosi i capelli. «Zoey, io vi ho traditi.» Lo disse come se fosse una cosa da niente, un argomento di conversazione come un altro. Nella sua voce però riecheggiava una nota stanca, triste, quasi... colpevole.

«Lo so.» E hai fatto bene, desiderò aggiungere.

«Allora perché mi parli come se niente fosse?»

Perché? Una bella domanda. «Hai fatto solo quello che credevi giusto.»

«Tu sei ancora convinta che sia la cosa giusta, seguire Celes?»

«Sì,» rispose, in fretta. Troppo in fretta.

No, pensò. Forse Leean le leggeva davvero nel pensiero. Nel dubbio, indietreggiò, e i piedi la portarono un po' più vicina all'acqua.

«Non volevo succedesse quello che è successo a Ebony. A tua zia. Avrebbero potuto evitarlo.»

«Celes mi aveva promesso la libertà.» Leean si avvicinò di un passo. Zoey indietreggiò ancora. «Invece guarda com'è ridotta Aném. Non si vede un'anima viva in giro. Gente armata si presenta davanti alla porta di casa per costringerti a venderti l'anima.»

«Sì, ma...» Si morse il labbro. Esitò, perché Leean aveva ragione. Il mondo che Celes le aveva promesso sembrava lontano come non mai, forse anche di più. Perfino le rose le sussurravano che quella libertà che tanto decantava non l'avrebbero mai ottenuta.

Zoey cercò nei petali colorati una soluzione. In quegli stessi petali che continuavano a suggerirle che doveva arrendersi all'evidenza, che forse un mondo adatto a lei non sarebbe mai esistito. Andò verso il laghetto artificiale e lì si inginocchiò.

Depositò una rosa alla volta sopra il velo dell'acqua. Galleggiarono in fila per un po', ma in pochi istanti si fecero spazio a vicenda, affiancandosi le une alle altre durante il loro breve tragitto fra le foglie di loto. Il sole rifletteva il giallo dei loro petali sulla superficie dell'acqua; a osservarli, non sembravano nemmeno fiori veri, come la scena stessa non le pareva reale: le si disfaceva davanti agli occhi in una foschia onirica, fiabesca, finta.

Tenne con sé la rosa bianca. La portò al petto e chiuse le palpebre, per saggiare il momento. Il tocco del vento sulla pelle era gentile, e se lo godette nel silenzio più totale, avvolta in una natura manipolata, eppure pur sempre natura.

Leean non la interruppe. Zoey sentiva il peso del suo sguardo gravarle sulle spalle.

Spinse sulle ginocchia per sollevarsi e le andò incontro. «Non sono mai stata molto brava, a trovare il mio posto.» Le parole vennero fuori prima che si rendesse conto di averle anche solo pensate. Abbassò gli occhi. Ormai non poteva rimangiarsele, tanto valeva ammettere la verità. «In questo mondo, io non so bene cosa fare. Da piccola, tutti mi dicevano che ero una Ferro... Sai, perché a scuola non sono mai stata brava. Sono pigra. In tanti mi prendono per scema.» Le uscì un sorriso, nato dalla delusione e dell'angoscia dei suoi stessi ricordi. «Poi è venuto fuori che sono una Oro. Ma il fatto è che non mi cambia un granché, perché qualsiasi cosa faccia, io non sono mai... Non sono mai abbastanza.»

Leean nascose una mano nella tasca dei pantaloni. Vestiva di nero, quel giorno, con una giacca di lana che le oscillava dietro le ginocchia. «Nemmeno io.»

Zoey risucchiò l'aria dalle labbra. La cercò, si rifletté nelle iridi di lei, cercò un pezzo di sé nell'anima di Leean. Non aveva mai saputo di dover cercare, altrimenti l'avrebbe notata subito, la scintilla di affinità fra di loro.

«Troppo persa nella tua testa per essere un Ferro, troppo poco pratica per una Argento e troppo poco interessata ai concetti astratti per essere una Oro,» continuò Leean.

Zoey annuì. «Incontrai Celes mentre cercavo mio fratello. Lei mi disse che non ero sbagliata, che... che il mondo non fa altro che inscatolarci in tanti barattoli. Mi ha promesso che avrei imparato...» Sfiorò i petali bianchi della rosa con le dita. «Che avrei imparato a uscire dalla mia testa, se avessi scelto di appagare il mio corpo. Che avrei trovato un equilibrio, e con quello avrei saputo chi sono, cosa voglio. E poi avremmo avuto tutti la libertà di scegliere chi essere. Di cambiare. Di uscire dai barattoli.»

«Ha funzionato?» Leean incastrò una ciocca di capelli dietro l'orecchio; il vento lo liberò il secondo dopo. «Hai capito chi sei?»

«No.»

Ed eccola, la verità. Il terrore di scoprirla le aveva impedito di raggiungerla, eppure era sempre stata lì, in un angolo remoto della sua anima, ad attendere di essere trovata.

Zoey sollevò la rosa, la porse a Leean. «Non lo so, se la libertà si raggiunge attraverso il dolore. Le urla delle persone a cui divorano l'anima mi tormenta ogni giorno, però. E allora mi chiedo: ne vale davvero la pena, soffrire così tanto, per un qualcosa che probabilmente non esiste nemmeno?»

L'altra afferrò lo stelo con delicatezza. «Che vuoi dire?»

«L'umanità, sai, non dovrebbe esistere. Non come società. Nel momento esatto in cui diventiamo una società, ecco che la libertà smette di esistere. Perché la libertà finisce lì dove inizia quella di qualcun altro, e allora, a stare fra noi, non facciamo altro che crearci limiti a vicenda.»

Ricordava bene il giorno in cui Celes le aveva fatto quel discorso. Era assieme a Jonah e Nick e altri di cui ignorava il nome. Qualcuno le aveva chiesto come sarebbe stata, una società libera.

Zoey si portò la mano al petto. Aveva appena capito perché il piano di Celes non poteva funzionare. «Per essere liberi allora dovremmo smettere di preoccuparci gli uni degli altri, diventare come degli animali. Non sarebbe una società, sarebbe... la giungla. Piena di guerre, di rabbia, di brutalità. E saremmo pieni di dolore, perché non siamo fatti per vivere così. È un paradosso. Noi essere umani siamo un paradosso, perché l'umanità stessa è ciò che ci impedisce di essere liberi.»

Leean osservava la rosa con le sopracciglia abbassate e un'aria persa. Dischiuse le labbra, come per dire qualcosa, ma le richiuse subito dopo.

Zoey le rivolse un sorriso stanco. «Quella rappresenta l'anima di Ebony. Penso sia giusto che sia tu, a farle trovare il riposo.» Indicò il lago.

Con passo ciondolante, Leean raggiunse l'acqua. Lasciò che la rosa venisse trasportata dall'acqua, pigra, e che si ricongiungesse che le altre. L'unico tocco di candore in un gruppo colorato. Splendeva più di ogni altro.

Quando tornò da lei, Leean camminava più leggera. «Grazie,» le disse. Poi tornò la stessa di prima, con una mano fra i capelli e l'aria confusa. «Puoi ancora cambiare idea. Possiamo cercare una soluzione diversa. Costruire un mondo che abbia spazio anche per me e per te. O imparare a trovarcelo, il nostro spazio.»

«E come?»

«Non lo so. Fermando Celes, tanto per cominciare.»

Giusto. Forse non aveva tutti i torti. Ma prima che Zoey potesse rispondere, Leean le mise una mano sulla spalla; il suo sguardo era concentrato oltre, su qualche figura che si avvicinò con un rumore attutito di passi.

«C'è qualcuno che vuole vederti,» le sussurrò, prima di andarsene.

Zoey si voltò per seguire i suoi movimenti, solo per bloccarsi di fronte a suo fratello. Duke, elegante eppure scompigliato, agitato eppure sorridente, le andò incontro. Era ancora distante diversi metri quando spalancò le braccia. Lei si lanciò verso di lui, gli affondò la testa nel petto, assaporò l'odore di vaniglia e sandalo che si sollevava dai suoi vestiti.

Quanto le era mancato.

«Ehi,» disse lui. Il suo respiro le solleticò la nuca. «Stai bene?»

«Sì.» Un attimo di pausa. «No.»

La strinse con più forza.

Oltre la sua spalla, Wyatt spuntò dai cespugli. Il suo solito cipiglio si trasformò in un sorriso, tanto caldo e genuino che Zoey non poté far altro che imitarlo.

«Non hai intenzione di farti esplodere, vero?» le chiese Wyatt.

Zoey scosse la testa. «No. No, però ora so cosa devo fare.»

Spazio autrice:

Il punto di vista di Zoey totalmente a caso l'ho messo perché mi sembrava un modo più interessante di approcciare il capitolo. Ah, quanta differenza può fare, un semplice pov! Spero sia stato interessante. Da scrivere è stato stranissimo, dirò la verità. Penso uno dei miei viaggi mistici più grandi

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