17.
L'aria era ghiacciata e tagliente, ma Alexis non riusciva a percepire il freddo. Avrebbe potuto prendere un taxi per arrivare a Stanford Street il prima possibile, ma preferì andare a piedi. Il suo passo era veloce tanto da diventare una corsa in alcuni momenti. Odiava correre; non lo faceva mai perché dopo poco più di un metro i polmoni sembravano non volerla assistere. Matt le aveva spiegato più volte che era tutto centrato sulla respirazione: inspirare ed espirare con un giusto ritmo, ma lei sembrava buttare solo fuori l'aria senza rifornire i polmoni. Quelle azioni spesso non le risultavano così automatiche, ma doveva rifletterci per farlo in maniera adeguata. Dunque, aveva preferito più volte rimanere a casa sul divano piuttosto che accompagnare il suo fidanzato, sempre attento alla forma fisica. Sorprendentemente il suo organismo quella sera le sembrò abituato da sempre a quegli sforzi a cui lo stava sottoponendo, come se avesse corso per tutta la vita. Le macchine sfrecciavano ai lati della strada, facendo schizzare la neve che riposava sull'asfalto, ormai divenuta scura per lo smog. Si maledisse per la sua sbadataggine dopo aver immerso un piede nella pozzanghera, ma non aveva abbastanza tempo per pulirsi: aveva promesso ad Irvy che in poco tempo sarebbe stata lì. Non sapeva nulla circa il motivo della chiamata, se non che era urgente. Quel non sapere la agitò maggiormente, portandola inconsapevolmente ad accelerare il passo. Le caviglie erano pesanti e bruciavano. Attraversò la strada senza curarsi dei semafori e in attimo si addentrò nella Hamilton Square, a pochi metri dal carcere. I clacson delle auto erano ormai un'eco spiacevole che continuava ad assordare la cittadina. La piccola piazza, la principale di Sandal, accoglieva tre o quattro locali gremiti di gente: c'era chi mangiava, chi si versava del vino, chi cantava a squarciagola tanto da esser sentito anche all'esterno... Eppure, quelle immagini che Alexis si lasciava dietro di sé mentre continuava diretta il suo percorso verso il carcere non le fecero pensare minimamente a Matt, Leila e Robert, anch'essi in un ristorante, dove li aveva lasciati senza nemmeno salutarli. Ogni suo singolo neurone stava lavorando esclusivamente attorno ad un pensiero: Will. Irvy era una donna forte, coraggiosa e mascolina nei modi, tuttavia la sua voce al telefono aveva tradito la sua agitazione. Era successo qualcosa, qualcosa di grave. Ma non riusciva ad immaginare perché su tutti gli operatori della struttura avessero chiamato lei, una semplice e anonima tirocinante.
"Will. Will... Fa che non gli sia accaduto nulla", continuava a ripetere a se stessa.
La Stanford Prison era caotica come il primo giorno in cui ci mise piede. Numerose figure, la maggior parte delle quali non aveva mai visto fino a quel momento, correvano da una parte all'altra; alcune erano al telefono, chiaramente agitate. Quell'immenso pavimento di marmo bianco sembrò roteare sotto gli occhi di Alexis. I suoni si fecero ovattati e lontani, i movimenti del personale sembravano raddoppiare di velocità. Si sentì le tempie congelate pulsare al punto da esplodere. Sospirò facendo entrare dentro di sé l'aria calda dell'edificio, nettamente in contrasto con la sua temperatura corporea, e lasciò cadere la borsa a terra. Era sfinita e confusa da tutto quel movimento. Avrebbe preferito ritornare fuori, nel gelo di dicembre.
<<Finalmente è arrivata, signorina!>> Irvy era dietro di sé, con il fiato rotto da una corsa dal piano superiore. L'uniforme blu stropicciato sulle maniche ripiegate lasciava intravedere braccia possenti tatuate qua e là. Il suo aspetto non era certo migliore del suo, o almeno di quello che credeva di avere in quel momento.
<<Cos'è successo?>> chiese immediatamente Alexis, come riapprodata nella realtà in seguito alla voce di Irvy.
<<Mi segua...>>, si limitò a dire incamminandosi dinanzi a lei. <<E' nel reparto omicidi.>>
Reparto omicidi.
O.M.I.C.I.D.I.
Quelle due parole o quelle ultime sette lettere che negli ultimi mesi associava solamente a Will... Era il reparto in cui svolgeva il tirocinio, eppure la sua mente stranamente aveva oscurato qualsiasi elemento, qualsiasi detenuto, facendo luce solo sulla cella 155. La cella in cui la sua mente era incatenata in alcuni momenti. Pensò al peggio: una lite con gli altri detenuti, forse con Maximilian; o una fuga per proteggere la madre o, ancora peggio, per uccidere il suo nuovo presunto compagno. Quell'ultima immagine aumentò notevolmente la sua angoscia.
<<Dov'è Russell?>> furono le uniche parole sensate che riuscì a comporre in quel momento, sicura che la sua presenza l'avrebbe calmata immediatamente. Erano sull'ingresso dell'imponente porta del reparto; perscrutando attorno a sé non lo vide. Certo, c'erano numerosi operatori che correvano nel corridoio, ma l'avrebbe riconosciuto tra mille senza alcun dubbio: il suo cappotto marrone, la sua valigetta 24 ore, la sua aria autoritaria che le infondeva tanta sicurezza...
<<Il dottore è fuori città per un paio di giorni. Per questo abbiamo contattato lei>> spiegò Irvy, questa volta con voce più rilassata.
<<Me?!>> Alexis era incredula e terrorizzata allo stesso tempo. Inspirò. Inspirò il più possibile, meccanicamente, volontariamente, proprio come avrebbe fatto nel campo sportivo con Matt. Sperava che l'aria incanalata potesse far ordine tra i mille pensieri che combattevano nella sua testa. Senza dubbio avrebbe dovuto essere lusingata della loro decisione –chiamarla in sostituzione di uno psicoterapeuta eccezionale-, d'altra parte aveva timore: non aveva fatto nulla senza di lui, accanto al quale si era limitata ad osservare. Non aveva alcuna esperienza, ma solo tanta, troppa teoria. Non sapeva ancora cosa stava accadendo oltre quelle mura insonorizzate da cui non proveniva alcun rumore, ma era sicura di non essere all'altezza. Lei, Alexis Castle, studentessa laureata in psicologia da non più di tre mesi, cosa mai avrebbe potuto fare in un carcere, per di più tra coloro che avevano commesso un omicidio?! Quel pensiero le riportò alla mente le ultime parole di Will: bisogna vedere chi c'è dietro quell'assassino. Ripensò al suo sorriso, un'immagine alla quale aveva fatto ricorso più volte in quei giorni per poi ricustodirla gelosamente nella memoria del suo cuore. Al diavolo quello che l'aspettava: quel sorriso l'avrebbe aiutata ad affrontare la situazione. E poi non le sarebbe mai più capitato di rivedere Will per due volte in una settimana. La vibrazione del cellulare scacciò quei pensieri dalla sua mente, pensieri di cui non voleva essere fin troppo consapevole, altrimenti avrebbe vissuto una forte confusione mista ad angoscia. E lei aveva fatto tanto per stabilire un solido equilibrio nella sua vita –e ancor di più nella sua mente-.
La figura della bustina rosa lampeggiava sullo schermo. Cliccò, sicura di leggere un messaggio della madre per sapere come procedeva la serata; invece, inaspettatamente, era il dottor Russell:
"Capisco che lei sia agitata. Ma ce la può fare. Io credo in lei, altrimenti non avrei fatto il suo nome per farmi sostituire. E' arrivato il suo momento, Castle! Dimostri quanto vale."
Lesse il messaggio velocemente, troppo per comprenderne il contenuto. Cercò di calmarsi e lo rilesse nuovamente, questa volta lentamente per sentire ogni singola parola. Percepì la fiducia che Russell le aveva riposto e la sicurezza che riuscì a trasmetterle anche attraverso un sms. Chiuse gli occhi e fece segno ad Irvy di aprire la porta del reparto.
<<Schifosa bastarda...>> Gli occhi infuocati di Max rischiavano di uscire dalle orbite. Strinse con tutta la sua forza le sbarre metalliche e con un gesto rapido sputò a terra verso la cella di fronte, la 153, quella di Josie. <<Meriti solamente il cappio>>, proseguì con voce disgustata e carica di rabbia. I suoi bicipiti sembravano gonfiarsi ogni secondo di più, quasi capaci di sollevare dal pavimento l'intera cella.
Alexis rimase immobile, a pochi passi da quelle urla. Maximiliam l'aveva sempre inquietata, anche quando riposava sulla sua brandina, troppo piccola per accogliere quel quintale di muscoli. Voltò leggermente il capo alla sua sinistra: Josie era rannicchiata in un angolo in fondo alla cella, in penombra, con le ciocche di capelli nero corvino che le coprivano il viso. Il suo corpo sussultava, accompagnato da singhiozzi e lacrime.
<<Povere creature... una bestia hanno avuto, non una madre!>> La voce di Max, seguita da una risata fragorosa, rimbombò per tutto il reparto. I suoi occhi erano ancora carichi di odio.
Quella figura esile lasciò con uno scatto repentino il buio della cella per sfiondarsi contro le sbarre e urlare. Urlò con tutta la forza che aveva dentro. Fu un urlo inizialmente di rabbia che lasciò poi posto alla disperazione. Una disperazione assoluta, senza fondo. Se quell'urlo avesse potuto avere un colore, il suo sarebbe stato senza dubbio il nero. Era un suono, senza parole. Solo un suono, anzi un rumore che dava voce a tutto ciò che per diverso tempo Josie aveva tenuto dentro di sé. Qualcosa che la opprimeva. Qualcosa che la faceva star male. Qualcosa che era successo proprio a lei, ma di cui non era consapevole. Qualcosa di cui si doveva liberare per evitare di impazzire. Qualcosa che era stato troppo grande per poter essere verbalizzato e accettato dalla sua mente e dalla sua coscienza. Qualcosa che ora doveva riportare a parole per esserne consapevole.
Walden, il guardiano del reparto, si avvicinò alla cella di Max insieme ad altri due uomini pronti ad ammanettarlo. Aprirono la cella e con un movimento rapido entrarono e si posizionarono davanti a lui. Dopo pochi minuti dominati dalle grida e bestemmie di Max, questo venne allontanato da quella sezione.
<<Ora può svolgere il suo lavoro, dottoressa>>, le comunicò Walden.
Alexis si incamminò a piccoli passi verso la cella 153. Josie era a terra indebolita, come se quell'urlo l'avesse prosciugata di ogni energia. Si reggeva alle sbarre arruginite con le ultimo forze rimaste. Il leggero cotone bianco che cadeva lungo il suo corpo si alzava e abbassava velocemente, segno di quanto fosse ancora agitata.
<<Josie, le va di dirmi cosa è successo?>> Alexis piegò le ginocchia per abbassarsi alla sua altezza. Pronunciò quelle parole lentamente e con voce calma e calda, sperando di poter infondere un minimo di sicurezza in quella donna. Doveva impegnarsi per non far trapelare che anch'ella era agitata: non sapeva come comportarsi, cosa dire, come dirlo. La parola è lo strumento dello psicologo: può far stare meglio l'altro tanto da modificare i suoi circuiti cerebrali, così come può provocare un grave danno. Aveva una grande responsabilità in quel momento e voleva aiutare Josie, o almeno farla sentire non sola. Non voleva deludere il dottor Russell e tantomeno se stessa. Chiuse gli occhi, percependo maggiormente i muscoli bruciare per quella posizione scomoda in cui era rimasta. Per un attimo pensò che sarebbe andata a fare sport con Matt. Poi percepì un lieve movimento e li aprì: Josie si mosse lentamente, rivolgendo il capo nella sua direzione.
<<Il dottor Russell...>> pronunciò con voce rotta. <<Dov'è?>> Aveva gli occhi spenti e gonfi come chi ha pianto troppo. Le sue labbra erano ancora inumidite dalla lacrime; ci passò sopra la lingua come per portarle via.
<<Il suo psicoterapeuta non c'è ora. Ma ha chiamato me per essere qui.>> Si fermò un attimo per concentrarsi nuovamente sul tono di voce. <<Ora siamo io e lei, Josie. Sono qui per aiutarla.>> Le caviglie continuavano a bruciare, quindi decise di sedersi direttamente a terra, con le gambe accavallate, avvicinandosi alla cella ma non troppo. <<Cosa è successo prima?>>
<<Io non posso credere di averlo fatto...>> Si portò le mani ai capelli e iniziò a muoverle velocemente. Il suo sguardo correva da un punto all'altro della parete. <<Io li amavo, capisce?!>> Ora fissò le sue pupille nere su quelle azzurre di Alexis.
<<Ne sono certa, Josie>>, la rassicurò. Non aveva idea di chi stesse parlando. Voleva chiederglielo, ma preferì farle credere di conoscere la sua storia e di capirla. Maledisse Russell che puntualmente si ostinava a non dirle nulla sui detenuti; di certo non immaginava che si sarebbe presentata una situazione così delicata in cui sapere gli aspetti principali di quella donna era fondamentale. Maledisse anche se stessa per non aver cercato abbastanza bene in archivio due venerdì prima, quando la sua mente venne paralizzata dal fascicolo di Will Storolow. A quel pensiero divenne consapevole di quanto il suo cuore si fosse alleggerito nel vedere che la chiamata non riguardava lui. Ora doveva pensare. Doveva ripercorrere mentalmente tutti gli incontri con Josie a cui aveva assistito per cercare un elemento che le potesse dire qualcosa.
<<Non li avrei mai toccati. Deve esser successo qualcosa se sono arrivata a tanto...>> La sua voce era un accumulo di disperazione.
Continuava ad utilizzare il plurale: si poteva trattare di due come di cento persone. Erano troppi gli elementi che erano emersi durante le sedute. Dunque, pensò di analizzare quelle poche e spregevoli parole che le aveva rivolto Max e improvvisamente le sembrò di capire, di aggiungere l'ultimo pezzo al puzzle: le aveva detto di non esser capace a fare la madre. Josie era o era stata una madre. Le ritornò in mente un aspetto a cui non aveva dato abbastanza peso fino a quel momento: alla fine di ogni colloquio Josie ricordava al dottor Russell di salutare i piccoli -un giorno li aveva anche nominati, ma ora non ricordava i loro nomi. Si maledisse nuovamente, rimproverandosi di essere più attenta.- E lui ogni volta la tranquillizzava. Approfittò del silenzio in cui si era rifugiata Josie per chiarirsi le idee: era stata madre di due bambini e li aveva uccisi, dunque scontava la sua pena nel reparto omicidi del carcere di Stanford. Fino a quel momento non ne era consapevole ed era convinta che fossero vivi e che l'aspettassero a casa. Era qualcosa di strano e complesso, ma la mente umana è caratterizzata dalla complessità. Quelle di Alexis erano solamente ipotesi, ma sembravano rispondere bene al concetto di dissociazione, uno dei meccanismi di difesa più primitivi che a cui l'essere umano può ricorrere in situazioni angoscianti e traumatiche. E il cervello di Josie sembrava aver fatto prorpio questo: la morte dei suoi bambini era troppo grande e dolorosa per essere contenuta ed elaborata mentalmente, dunque era entrata in uno stato dissociativo per proteggersi e per sopravvivere. Il ricordo traumatico non era stato rimosso nell'inconscio -processo che prevede l'elaborazione cosciente-, ma dissociato e allontanato nella memoria implicita, la cui sede è l'emisfero destro. Una parte di sé conosceva la verità, ma non riusciva ad accettarla. Quella sera in carcere era successo qualcosa, forse una parola da parte di Max che le aveva riacceso quella lampadina che per fin troppo tempo aveva tenuto spenta. La luce era stata troppo forte, accecante e immediata e aveva illuminato aspetti che necessitavano di ritornare uno per volta, come stava tentando di fare Russell; ormai il lavoro terapeutico di preparazione era stato distrutto.
<<Come si sente?>> La sua domanda le suonò talmente banale che avrebbe preferito tacere.
<<Confusa e disprezzante nei miei confronti>> pronunciò lentamente, come se stesse scegliendo con cura le parole per descrivere se stessa.
<<Capisco>> si limitò ad aggiungere Alexis.
<<Ricordo una lite con Luke...>> Il suo sguardo vagò in alto, come se stesse osservando sul soffitto lo scorrere di quella scena ormai remota. <<Era più intensa del solito. Eravamo arrivati alle mani.>> Si asciugò una lacrima. <<Dissi più volte ai bambini di andare in camera loro e di stare buoni, ma continuavano a gridare. Di più... sempre di più.>> Quella singola iniziale venne accompagnata da altre numerose calde lacrime che questa volta lasciò scorrere sulle sue guance. <<Tutta colpa di quello stupido trenino!>> affermò ridendo. <<Mary e Anthony urlavano per chi dovesse giocarci. Mio marito urlava. Io urlavo.>> Si interruppe un attimo e si portò le mani davanti il viso, come a volersi nascondere. <<Oh mio Dio, ma come ho fatto?!>> Seguì un pianto ininterrotto, carico di disperazione.
<<Dottoressa Castle?!>> una voce profonda e autoritaria alle sue spalle la fece sussultare. Quel volto non le era nuovo: l'aveva accolta durante il suo primo giorno di tirocinio e poi non si fece più vedere. Dunque, pensò che la sua figura fosse necessaria in tutti quei casi definibili "urgenti" o "speciali".
<<Dottor Gilbert>>, le porse la mano. <<Si ricorda di me? Sono il medico penitenziario.>>
<<Salve>>, si limitò a rispondere Alexis alzandosi in piedi e sistemandosi la gonna che le si era arruffata lungo le gambe.
<<Ora può andare, ci penserò io qui.>> La sua voce era fredda e distaccata, ciò di cui Josie in quel momento proprio non aveva bisogno. Era contraria ad interrompere in quel modo il suo colloquio, convinta che ciò avrebbe solo peggiorato il suo stato; ma ricordò a se stessa di essere una tirocinante e che il suo potere decisionale era pari a zero. Chinò leggermente la testa in segno di obbedienza e rispetto e fece per andarsene.
<<Alexis?!>> Il suo nome venne pronunciato con un sussurro. Per quanto lieve fosse, ci mise un attimo a capire a chi apparteneva quella voce. Si voltò di scatto e lo vide come al solito appoggiato all'estremità della cella, con una mano protesa in avanti, al di là della sbarra. Era bello, bello più di sempre. Le riservò un sorriso sghembo, non uniforme per via delle labbra salite maggiormente verso sinistra. Le bastò osservarlo per cancellare il peso interiore che percepiva fino ad un attimo prima. Non seriva che le dicesse nulla: come un'automa, si diresse verso di lui, a pochi metri da dov'era, nella direzione opposta all'uscita.
<<Will...>> esclamò una volta arrivata davanti a lui. Chinò leggermente la testa a sinistra, seguendo i movimenti di lui.
<<Sei stata coraggiosa, doc!>> Le strizzò l'occhio. Il suo sguardo era furbo e allo stesso tempo sincero.
Alexis si sentì avvampare, dunque preferì rimanere in silenzio rispondendo con un sorriso imbarazzato. Inconsapevolmente sollevò il braccio destro e lo avvicinò alla cella, toccando il freddo metallo grigio scuro di una sbarra. La sua mano era vicina alla sua, troppo vicina.
<<La sinistra, avvicina la mano sinistra>>, le suggerì Will con un tono dolce e senza spostare lo sguardo dal suo volto. Rise notando l'espressione perplessa di Alexis. <<La parte sinistra è controllata dall'emisfero destro, quello che presiede alle emozioni. Non è vero, doc?!>>, aggiunse abbassando il tono, facendolo apparire quasi di sfida.
Quella risposta la lasciò senza fiato. Che Will Strolow, il detenuto della 155, avesse conoscenze della psicologia?! , pensò. Sospirò per metabolizzare le emozioni che le stava facendo vivere quel ragazzo e senza smettere di sorridere alzò la mano sinistra. Ora il suo toccò non percepì il freddo della sbarra, ma un calore. Il calore umano. La poggiò delicatamente sulla sua, temendo quasi di fargli del male. Lo sguardo di Will non le dava tregua, così come il suo sorriso sghembo. Divorata nuovamente dall'imbarazzo, abbassò gli occhi portandoli sulle loro mani.
Mani intrecciate.
Mani sconosciute.
Mani che si cercavano.
Strinse di più la presa e chiuse gli occhi.
<<Grazie per l'altra volta.>> La voce di Will sembrava poesia. Mosse lentamente il pollice da sotto la presa di Alexis e lo passo delicatamente sulla sua pelle. <<Grazie per non avermi giudicato.>> Il pollice la sfiorava ancora. <<Grazie per avermi compreso.>> Il pollice l'accarezzava ancora.
Spazio autrice:
Miei cari lettori,
questo capitolo, partorito dopo ore e ore, è più lungo del solito; tuttavia, spero che non vi abbia annoiato. C'è una parte di psicologia abbastanza dettagliata e specifica (a dire il vero, mi sono limitata nelle spiegazioni che potevano risultare pesanti); se credete che possa appesantire la lettura, fatemelo presente così la modifico aggiungendola in una nota esplicativa. Per il resto, aspetto vostri pareri :)
A presto,
Ludovica
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