3.6 Soul has weight
Raven era immobile mentre i suoi pensieri vagavano senza più una guida.
Aveva la sensazione di galleggiare, come dopo una brutta sbronza. La superficie sul quale era disteso, e che continuava distrattamente ad accarezzare con una mano, gli era straniera. Il freddo gli sembra più pungente e il rumore del vento più intenso. I vortici, costretti nell'esiguo spazio che circondava la stanza, avevano guadagnato forza e vigore. Poteva sentirli quasi ululare, guaire come animali torturati.
Per un istante il suo cuore gli sussurrò il nome di Eagle.
Raven accennò un debole sorriso che si spense un istante dopo. Era impossibile, doveva trattarsi di un effetto distorto della sua mente alterata. Lui non poteva essere lì. Se tutto era andato nel modo che immaginava, erano ormai a chilometri da lì. In salvo, almeno loro.
Il dolore continuava a martellargli la nuca, interrompendo sempre più di frequente i suoi ragionamenti. Le idee gli sfuggivano senza che lui riuscisse ad afferrarle e a legarle in una sequenza compiuta. Eppure sentiva la presenza di Eagle forte come non mai. Era una carezza che faceva vibrare una corda interna. Nulla che avesse a che vedere con la ragione. La ragione sapeva con certezza che lui non poteva essere lì.
Chiuse gli occhi. Si sentiva terribilmente stanco. Aveva pensato troppo senza giungere a niente e non voleva più farlo. Era l'effetto di quella lunga esposizione all'Aria a indebolirlo, ed era l'esilio dalla Terra, l'unica madre che poteva consolarlo in quell'assenza.
Raven, però, scelse di ignorare quelle spiegazioni, bollandole come futili e sterili speranze.
Semplicemente si arrese.
Tese ogni muscolo che ancora rispondeva ai suoi comandi e cercò di aderire a quella superficie indifferente e perfettamente liscia, che non si lasciava penetrare, mentre una quieta disperazione gli mandava il cuore in pezzi.
"Adhaesit pulveri anima mea", mormorò.
Serrò le palpebre nel tentativo di arginare una lacrima che, sottile e solitaria, sfuggì ignorando i suoi ordini.
֍
Un passo dietro l'altro, Ailleann stava percorrendo l'ultima rampa di scale, cercando di non fare rumore e scrutando la penombra con tutta l'attenzione che le concedeva la sua ansia.
Una strana atmosfera aleggiava all'interno della casa, come se la notte stessa avesse voluto inglobarla nelle sue spire scure. Tutto sembrava deserto e silenzioso, e quel curioso stato di apparente abbandono non faceva che accrescere la tensione nel cuore e nei gesti di lei.
Finalmente il suo piede approdò su una superficie piana. Oltre il disimpegno si dipanava l'ennesimo corridoio che, a prima vista, sembrava del tutto simile a quello che aveva percorso al piano inferiore. Ailleann si sporse con estrema cautela a sbirciare il fondo di quell'ambiente. Quando scrutò a sinistra, trattenne un sobbalzo e si tirò indietro alla vista di una figura maschile.
Si ritrasse fino a discendere il primo gradino alle sue spalle e, in quel movimento, incontrò un ostacolo. Prima ancora di avere il tempo di reagire, due mani le serrarono le spalle e uno Ssssst quasi sospirato le attraversò l'orecchio.
"Sono io", sussurrò la voce di Swan.
Ailleann non si mosse e si limitò ad annuire. Swan salì lo scalino che le permise di affiancarla. Nella penombra che le avvolgeva, si rivolsero un'occhiata densa di incertezza e insieme di sollievo.
"C'è qualcuno", mormorò Ailleann, accennando con la mano il lato in cui si trovava l'individuo che aveva scorto.
Swan si tese cauta a guardare. Lanciò un rapido sguardo all'altra donna, facendole segno di non muoversi. Prese un profondo respiro, poi si decise e si spostò verso il centro del corridoio con un movimento che voleva apparire naturale.
"Buonasera, Oliver", esordì come se non ci fosse nulla di insolito in quell'incontro notturno.
L'uomo si girò a fronteggiarla dalla parte opposta del passaggio.
"Signorina Swan...".
C'era un'ombra di trasalimento, nel modo in cui aveva pronunciato il suo nome. E un che di sottilmente minaccioso. Lei sembrò non darvi peso e gli andò incontro.
"Signorina Swan", ripeté lui, quella volta con un chiaro accento di fastidio, "che ci fate qui? Dovreste essere di sotto".
"Andiamo, Oliver!", scandì la ragazza con tono mellifluo. "Sai benissimo che anche tu dovresti essere di sotto".
Si fermò a pochi passi di distanza e sollevò lo sguardo, ancorandolo ai suoi occhi.
"A meno che tu non sia stato mandato qui a controllare qualcosa di molto importante".
L'altro non rispose. Si limitò a fissarla con un'espressione dura, inespressiva, increspata da una smorfia appena percettibile e vagamente ironica. Swan sfidò il suo silenzio e, guardandolo, ebbe l'impressione di riuscire a leggergli dentro: non la temeva. Lui non aveva nessuna paura di lei. Al contrario, la osservava come si osserva qualcosa di molesto, un lieve impedimento di cui sbarazzarsi al più presto. Il respiro le accelerò.
"Dammi le chiavi, Oliver!", ordinò, decisa a non perdere più tempo in falsi convenevoli.
L'uomo si limitò a inarcare appena il sopracciglio.
"L'accompagno al piano inferiore", replicò ignorando la sua richiesta.
Le serrò il braccio con la mano prima che lei potesse sottrarsi alla sua presa e cominciò a trascinarla in direzione delle scale. Swan, per un istante, si lasciò prendere dalla confusione: no, davvero quel tizio non la temeva. Era sicuro che lei non gli avrebbe fatto del male. Forse perché, in effetti, lei non aveva mai ferito nessuno e nessuno, quindi, la credeva capace di farlo.
Si impuntò, opponendosi alla sua forza e costringendolo a girarsi verso di lei nel tentativo di schiodarla dalla sua posizione. Guardò le dita che le serravano il braccio, poi tornò a cercargli gli occhi.
"Dammi le chiavi e non ti farò del male", ripeté con calma.
I loro visi erano vicini, mentre i loro corpi si tendevano in due direzioni differenti. Il volto di lui era contratto dallo sforzo di trascinarla con sé, senza alcuna intenzione di essere gentile o disponibile. Lo sguardo di Swan, invece, si era fatto quasi supplicante di fronte alla sua fredda ostinazione.
"Oliver", mormorò mentre la voce sembrava d'un tratto venirle meno.
Ti prego, non farmelo fare... ti prego, ti prego...
"Andiamo!", ruggì lui, strattonandola con una violenza tale da farle quasi perdere l'equilibrio.
Swan gli finì praticamente addosso nel tentativo di non cadere e si aggrappò alla sua spalla. In quel contatto, la sua mente sembrò precipitare e il cuore perse un battito: non aveva scelta, non aveva più nessuna scelta.
Va fatto, avrebbe detto Raven, se fosse stato lì.
Lui avrebbe agito senza esitazione, non avrebbe sentito rimorso e nemmeno un brivido. Doveva comportarsi allo stesso modo, se voleva avere una chance.
Serrò le dita sulla stoffa della giacca scura dell'uomo e strinse le palpebre per non guardare, per non guardarsi in quell'istante tremendo.
"Imbue", disse in fretta, come per liberarsi di una parola che le pesava dentro e non le permetteva di respirare.
In pochi secondi, quello mollò la presa e si portò le mani al petto. Un dolore fulminante lo stava piegando, obbligandolo a cadere in ginocchio davanti agli occhi terrorizzati di Swan.
Lei cominciò a tremare, eppure rimase immobile, incapace di distogliere lo sguardo dalle labbra e dalle mani di lui, che lentamente assumevano un colorito bluastro.
"Insuper", biascicò con un filo di voce minacciato dal pianto.
Ormai il tremore era diventato quasi incontrollabile. Swan aveva la sensazione di dover andare in pezzi da un momento all'altro, mentre Oliver si accasciava sul pavimento, le mani strette attorno alla gola nel disperato tentativo di afferrare un po' d'aria.
Quello che stava osservando era terribile, ma necessario. Continuava a ripeterselo come un mantra per non crollare, per non fermarsi. Una lacrima le rigò il viso e si perse nel nulla senza che lei l'avvertisse. Stava guardando un uomo morire, stava lasciando che accadesse, non stava muovendo un solo dito di fronte ai suoi rantoli sempre più bassi.
Quando Oliver smise di muoversi, a Swan parve che il tempo e lo spazio attorno a lei si fossero cristallizzati. Non riusciva a pensare a niente, non riusciva a sentire niente, nemmeno il proprio cuore, nemmeno il proprio respiro. Tutto sembrava essersi interrotto nel momento in cui, come l'inflessibile Atropo, aveva reciso quella vita.
"Swan".
La voce gentile di Ailleann la risvegliò da quel sogno malato. Era in piedi di fronte a lei e il corpo di Oliver le separava come un confine invalicabile. La vide chinarsi, cominciare a frugare nelle tasche del suo abito nero, e rimase a osservarla come se quello spettacolo non le appartenesse.
Ailleann tirò via un mazzetto di chiavi e lo allungò verso di lei, reggendolo sul palmo aperto.
"Andiamo", disse soltanto.
Swan le afferrò meccanicamente e le serrò con violenza. Quel contatto freddo e ruvido le trasmise una scossa al cervello. Tese le dita nel buio e sentì il calore della mano di Ailleann che afferrava la sua, trasmettendole il conforto necessario per andare avanti. Girò le spalle all'uomo che aveva appena ucciso. Non poteva pensarci, non in quel momento. Doveva per forza guidare la propria mente verso un diverso obiettivo o sarebbe impazzita. Cercò di concentrarsi sulle porte che aveva di fronte.
Non conosceva bene quella parte della casa, ma non c'erano che due stanze tra cui scegliere. Istintivamente si diresse verso quella che sembrava occupare il vertice dell'edificio. Provò un paio di chiavi, mentre Ailleann fremeva al suo fianco.
Quando udirono lo scatto metallico della serratura, si scambiarono un rapido sguardo. Nessuna delle due pronunciò le parole che si teneva dentro. Nessuna avrebbe espresso ad alta voce la propria speranza né scandito il nome che batteva con ansia contro le pareti del cuore. Non sarebbe stato corretto. Non si sarebbero fatte quel torto. Erano insieme, e insieme avrebbero affrontato quel che le attendeva.
Ailleann fece appena un cenno con il capo e Swan aprì la porta. Di fronte ai suoi occhi si rivelò una scena che mai si sarebbe attesa di trovare, talmente assurda e sconcertante che si lasciò sfuggire un'esclamazione sgomenta.
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NOTE
Anche in questo capitolo abbiamo una formula tratta dalla Vulgata (Salmo 118).
Adhaesit pulveri anima mea si traduce letteralmente con La mia anima è attaccata alla Terra. Biblicamente è inteso come Sono finito nella polvere. Dante, nel Purgatorio, fa ripetere la frase alle anime penitenti di avari e prodighi, che sono legate e stese sul pavimento roccioso della Cornice. La scelta del Poeta è dettata dall'analogia con la pena descritta (Io sono prostrato nella polvere, esattamente come in vita sono stato attaccato ai beni materiali).
Essendo Raven (e la sottoscritta con lui) ben lungi da tanto ingegno, la sua esclamazione è sì un'ammissione di colpa ma, più banalmente, è prima di tutto espressione del suo legame con la Terra, del dolore che gli provoca la separazione dalla stessa e del desiderio profondo di potervisi di nuovo riunire, in un modo o nell'altro.
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