3.1 Time to call your bluff
Raven aprì gli occhi lentamente mentre il petto gli si riempiva d'aria, come se stesse respirando per la prima volta. La percezione del mondo fuori tornava gradualmente a galla assieme alla coscienza interiore di essere vivo, di essere sveglio, anche se il suo corpo sembrava ancora distante.
Nella penombra, scrutò il soffitto che lo sovrastava. Quella superficie anonima e grigia non gli suggeriva niente. Con uno sforzo e un gemito, si puntellò sui gomiti e cercò di tirarsi su.
Dove sono?
Era notte inoltrata, a giudicare dal fitto blu del cielo, ma la stanza non era buia. Da una feritoia stretta e lunga, che tagliava la parete di fronte a lui come una profonda cicatrice, le luci eterne della città penetravano all'interno, proiettando un'aura bassa e artificiale che impediva all'oscurità di dominare la scena. Ai due lati di quella strana finestra, dei grossi dispositivi producevano un ronzio cupo e ininterrotto che faceva da basso continuo ai bagliori intermittenti che scheggiavano i muri interni.
Per quanto la sua innata curiosità verso ogni tipo di meccanismo tentasse di suggerirgli una serie di possibili spiegazioni, in quel momento Raven non era in grado di assemblarle in maniera coerente.
Si sforzò di considerare con più attenzione ciò che lo circondava, anche se un forte dolore alla testa gli sottraeva lucidità e gli rendeva faticoso quel compito. Doveva concentrarsi, cercare di capire a cosa servissero quei macchinari e se, in qualche modo, la loro presenza poteva spiegare il freddo intenso che stava divorando tutto e il fischio del vento che gli mulinava attorno.
Aria.
Stavano forzatamente pompando aria all'interno, spingendola e comprimendola in modo così violento da rendere quasi insopportabili il rumore e la temperatura che albergavano nella stanza. Non era quell'ultimo aspetto a spaventare Raven, però. Lui aveva sempre avuto una naturale, eccezionale resistenza ai picchi climatici. Non era certo per farlo morire assiderato che lo avevano chiuso lì. Era nell'aria stessa, il vero problema.
D'un tratto pensò di sapere cosa fosse quel luogo o, quantomeno, di poterlo supporre, anche se non l'aveva mai visto prima: era una camera di contenimento. Per l'esattezza, era la sua camera di contenimento.
Sapeva che, all'interno di Fulham, ne esisteva una per ognuno di loro ma, dal momento che non se n'era mai reso necessario l'utilizzo, la loro precisa ubicazione e le loro peculiarità erano nozioni puramente teoriche per lui. Sospirò e si rassegnò all'idea di doverla studiare nel minor tempo possibile, cercando di analizzare ciò che la penombra non mostrava in maniera evidente.
Si girò appena su un fianco, passò la mano sulla superficie sotto di sé, poi la colpì un paio di volte con le nocche, accompagnando l'ascolto di quel suono ovattato con una smorfia crescente. Era semidisteso su una superficie spessa che somigliava al plexiglas e che lo isolava dal pavimento di pietra. Cercò di stabilire quali fossero i confini di quel rivestimento e si accorse che proseguiva lungo le pareti e persino sopra la sua testa. L'aria, incanalata brutalmente nello stretto passaggio che separava le due superfici, roteava attorno a quella gabbia trasparente come un invisibile tornado, creando uno strato ulteriore che lo allontanava dal contatto diretto con il suo Elemento. Una bella trovata senz'altro: in quelle condizioni non sarebbe riuscito a far tremare le pareti fino a scardinare la porta, né a produrre alcun danno consistente alla struttura. Senza considerare che la costante pressione del suo Elemento opposto, avvolgendolo da ogni parte, lo rendeva più debole di minuto in minuto.
Serrò le palpebre e abbandonò la schiena contro quella perfetta superficie artificiale, portandosi un braccio a coprire gli occhi. Il dolore pulsante alla testa sembrava accompagnare i suoi pensieri cupi come una giusta punizione, un rintocco impietoso che scandiva lo scorrere lento di un tempo indolente. Non gli restava molto da fare, a parte mettersi a elencare tutti i suoi errori.
Che diavolo ho fatto?
In tutti quegli anni aveva solamente alimentato l'idea del tutto irrazionale di poter avere il totale controllo della sua vita, della realtà che lo circondava, perché quello era l'unico modo che conosceva per non crollare.
A quel pensiero, gli venne in mente il vecchio Phoenix e la carta che aveva riservato a lui assieme al suo implicito consiglio. Un consiglio detto, di sicuro, con amore e con pazienza, ma che probabilmente lui non avrebbe ascoltato nemmeno se fosse stato pronunciato ad alta voce.
L'Appeso...
Presunzione, orgoglio, superbia, egoismo. Liberarsi da tutti quegli aspetti negativi era l'unico vero sacrificio che gli era stato richiesto per poter essere davvero il Sale della Terra e lui l'aveva fatto. Aveva rinunciato a sé, accettato di scomporsi per ritornare integro.
L'aveva fatto, sì, ma solo per quell'unica volta, sei anni prima. Dopo si era sentito ancora più forte, ancora più sicuro. Aveva creduto talmente nelle proprie capacità da perdere di vista i propri limiti. E, errore ancor più grande, aveva creduto di poter fare tutto da solo, senza l'aiuto di nessuno.
Davvero un bel modo di affondare, Raven, non c'è che dire!
A essere totalmente sincero, non riusciva a non godere di quel pensiero. Perché era pur sempre Raven: non contemplava l'immagine della fine, non accettava per se stesso l'etichetta del fallimento. Doveva trovare comunque qualcosa per cui gongolare, qualcosa per cui sentirsi superiore. Stava ancora disegnando su di sé i panni di piccolo Davide, che crede follemente di poter tirare giù il grande Golia con un sasso.
Un sasso!
Non gli restava più nemmeno quello. Isolato dalla Terra, che era la sua vera madre, la sua unica forza, la culla di ogni suo benessere silenzioso e interiore, sentiva di non avere più nulla in mano. Aveva giocato tutte le sue carte ed era stato costretto a svelare il suo bluff.
No, sono io il vero bluff.
Alla fine di quella partita doveva pur ammetterlo, e per giunta di fronte al giudice più severo: la propria intelligenza.
Socchiuse gli occhi, lasciò scivolare la mano sulle labbra in un gesto disperato.
Che diavolo ho fatto?
Aveva permesso che prendessero Charles e, così facendo, aveva implicitamente siglato la morte di Phoenix e messo una taglia su Swan e Eagle, perché era improbabile che i Maestri si fidassero ancora di loro. E lui? Cosa ne sarebbe stato di lui, a quel punto?
Non ci aveva mai ragionato davvero. Era sempre stato talmente sicuro della propria posizione da credere di non poter perdere l'equilibrio e cadere da quel piedistallo d'oro sul quale si era proiettato per tutta la vita.
Sapeva anche perché si era concesso quel lusso che chiunque altro avrebbe definito folle: perché, per quanto si fosse ostinato a ignorarne l'esistenza, una parte della sua coscienza sapeva che suo padre gli avrebbe sempre guardato le spalle. Quell'affetto invisibile e assente che lui aveva cancellato trent'anni prima era sempre stato il telone di sicurezza al quale non rivolgeva mai lo sguardo, ma che sapeva essere lì.
Sì, suo padre lo avrebbe tirato fuori dai guai anche quella volta. Lui era il Raven, ultimo discendente della Famiglia più potente della Congrega, quella che aveva servito la causa più a lungo e con maggiori sostanze. Non lo avrebbero ucciso, non potevano farlo. Suo padre non lo avrebbe permesso.
Fu in quel momento che tutto, improvvisamente, divenne chiaro. Raven spalancò gli occhi nella penombra di quel triste scenario e si mise a sedere di scatto, puntellandosi sulle mani aperte. Si sforzò di respirare perché il fiato gli venne a mancare, a dispetto dei turbini di vento che sferzavano la stanza e il suo petto.
Mio padre sta morendo!
Un pensiero gli attraversò la mente come un lampo che squarcia una notte serena: ecco perché la Congrega aveva scelto proprio quel momento! Era l'occasione perfetta per un giro di vite, per eliminare senza troppi intoppi i veri ostacoli e inaugurare una nuova stagione, dove freschi virgulti avrebbero preso il posto delle piante cresciute male.
Mio padre sta morendo.
Non c'era più nessuno, a quel punto, che potesse tenerlo in vita. Nessuno che potesse più salvarlo.
֍
Swan intrecciò le dita di fronte a sé e le portò alle labbra. Sembrava che stesse pregando, ma lei non aveva più fiato, nemmeno per un'ultima invocazione.
Aveva lasciato l'auto di Eagle sul ciglio della strada, appena oltre uno dei cancelli laterali della villa. Uscita dalla macchina, non era riuscita a fare che un paio di passi. Era a pezzi, nel corpo e nell'anima. Si era lasciata cadere sul bordo bagnato del marciapiede, aveva permesso che la pioggia la inondasse. L'acqua, in fondo, non poteva farle male. Era qualcosa di buono. L'accarezzava, lavava via le lacrime, cancellava i contorni delle cose rendendole più belle, meno spaventose alla vista.
Immobile come una statua, pietrificata dalla paura e dal dolore che sentiva, gli occhi erano l'unica parte viva del suo corpo. I suoi occhi che erano disperatamente puntati verso le finestre di Fulham.
Cosa sperava davvero di vedere? un segno? un movimento? una speranza?
Persino lei, che costruiva castelli in aria con straordinaria abilità da tutta una vita, sapeva che non poteva più essercene una.
Era tornata alla villa perché non aveva nessun altro posto dove andare o forse perché era lì che desiderava stare. Voleva che quel luogo diventasse davvero il principio e la fine di tutto in quell'orizzonte sbagliato che era la sua esistenza.
"Raven...".
Sussurrò quel nome come una preghiera e quella supplica involontaria la fece sentire ancor peggio: era lui l'unico dio che era in grado di invocare? Doveva esserle rimasto davvero poco tra le mani, se quella era la sola fonte di salvezza cui riusciva ad aggrapparsi!
Non sapeva nemmeno se lui c'era ancora. Voleva credere disperatamente alle parole di Eagle, che lei lo avrebbe sentito se fosse morto, che avrebbe percepito lo strappo, il vuoto, l'assenza. Finché quella menomazione dell'anima non fosse giunta a tagliarla in due, poteva ancora credere che tutto fosse possibile.
Quell'ultimo ragionamento accese una piccola luce nella mente di Swan. Sollevò le ciglia a fissare una volta ancora l'imponente sagoma della villa, come un pittore in cerca di ispirazione.
Credere che tutto sia ancora possibile...
Era quello che aveva sempre fatto, per tutta la vita. Era una maestra nel credere all'impossibile, contro ogni ragionevolezza. Ed era brava a inventare. Anzi, era la più brava, al punto che la sua fantasia era stata perfino in grado, di tanto in tanto, di dare forma alla realtà.
Sì, avrebbe inventato qualcosa. Anche se insensata, anche se disperata.
Anche se fosse stata l'ultima.
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SOUNDTRACK:
La canzone che accompagna questo capitolo - The Man who Sold the World, scritta da David Bowie e qui nella versione cantata da Kurt Cobain - parla di un uomo che rimane sconvolto ritrovandosi di fronte una versione di sé che pensava ormai di aver seppellito.
Qualcosa di quell'altra personalità è sorprendentemente sopravvissuta: è l'uomo che ha venduto il mondo, dove il mondo è la propria anima.
Inseguendo un milione di maschere si perde la propria vera essenza.
"We passed upon the stair
We spoke of was and when
Although I wasn't there
He said I was his friend
Which came as a surprise
I spoke into his eyes
I thought you died alone
A long long time ago
Oh no, not me
I never lost control
You're face to face
With the man who sold the world
I laughed and shook hand
And made my way back home
I searched for form and land
For years and years I roamed
I gazed a gazeless stare
We walked a million hills
I must have died alone
A long, long time ago
Who knows? Not me
We never lost control
You're face to face
With the man who sold the world"
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