01. Giudicante e Giudicato
8 aprile 2013
*
Johanna
"Hai bisogno di qualcosa prima di cominciare?"
Continuò a fissarsi le mani in silenzio, la fronte corrugata e gli occhi sbarrati. L'indice della destra era vuoto. Dopo aver sbrigato alcune faccende per Dóróthea in giardino, aveva dimenticato l'anello sul lavandino.
Come ho fatto a dimenticarlo.
"Un bicchiere d'acqua, grazie".
La donna si passò la lingua sul labbro inferiore prima di alzarsi e raggiungere la credenza in mogano alle spalle della paziente. Un attimo e poggiò quanto richiesto sul tavolino che le avrebbe tenute divise per il resto della seduta.
L'altra non si mosse; non subito, almeno. Una sciocchezza - aveva chiesto un bicchiere d'acqua in maniera del tutto istintiva, ma non perché ne avesse una reale necessità. C'erano così tante stronzate che lei chiedeva e chiedeva e ancora chiedeva senza riuscire a darsi un freno. Era fatta così. Sentiva sempre di aver un disperato bisogno di qualsiasi-maledetta-cosa e quando quel qualcosa arrivava ad ottenerlo non era mai, mai abbastanza.
La dottoressa le si accomodò davanti e parlò, il tono di voce che oscillava tra l'autoritario e l'apprensivo. "L'ultima seduta programmata era sei settimane fa".
"Lo so".
"E non sei venuta. Sarebbe stato educato dare un preavviso".
"Lo so".
"Cos'è cambiato ora rispetto a sei settimane fa, Johanna?"
L'interpellata fece oscillare lo sguardo dal bicchiere d'acqua all'indice privato del suo tesoro più prezioso.
Come ho fatto a dimenticarlo...
"... Non lo so".
La donna titubò un istante. "Qual è stata l'ultima cosa di cui abbiamo parlato?"
Johanna tirò su col naso, sistemandosi meglio sulla poltroncina nera. "Abbiamo parlato di Dísella" disse.
"Certo, Dísella. Ora ricordo" confermò la dottoressa. "È stato detto qualcosa che ti ha turbata?"
"Tutto del mio passato con Dísella mi turba, dottoressa".
"Perché?"
Fu istantaneo. Una patina di calde lacrime le appannò la vista e un bruciore anomalo si diffuse sotto le palpebre socchiuse di Johanna. "I motivi sono tanti" dichiarò con un filo di voce.
"Potresti elencarli?"
"I ricordi che ho di Dísella non sono parte di una lista della spesa, dottoressa Áróra".
"Schematizzare aiuta a sviscerare e metabolizzare una perdita. La rende più semplice da assorbire".
"Ma io non voglio metabolizzare la sua perdita. Io voglio solo che ritorni da me".
La dottoressa Áróra sfarfallò le ciglia un paio di volte. "Ma non può tornare. Ed è per questo che ci sono io qui con te, adesso".
Sempre d'istinto, Johanna aveva cominciato a massaggiarsi la base dell'indice. Il solco lasciato dall'anello era ben visibile sulla carne, come un'incisione marchiata a fuoco su di essa. Straordinario come qualcosa di così piccolo, insulso e freddo potesse provocarle così tanto dolore, vuoto e oppressione ogni qualvolta dimenticava di indossarlo. Straordinario come un legame che era andato perduto una manciata di anni addietro ancora si ostinava a tenerla ancorata al passato.
"Cosa ti piaceva di lei?"
Jo' alzò la testa, presa in fallo. Vero, verissimo - avevano avuto modo di parlare anche di quello, seppur in minima parte. "Tutto" dichiarò e tornò col capo chino in un gesto pregno di ingenuità. "Tutto quanto. Non c'era cosa di lei che non amassi infinitamente. Era semplicemente... perfetta. Non aveva eguali. Non avrà mai eguali".
"Lei lo sapeva?"
"Sì".
"Ti ha mai ricambiata?"
"Sì".
"E cos'è successo, poi?"
"È successo che-" Johanna accavallò e scavallò le gambe. "È successo che mi sono arrabbiata e... sono stata cattiva. Quando mi arrabbio non ci vedo più. È come se... è come se perdessi la cognizione di ogni cosa. E capita spesso che io sia arrabbiata, lo sa, gliel'ho detto. Quindi non ragiono mai lucidamente".
"Cosa ti ha fatta arrabbiare, in particolare, quella volta?"
"Il fatto che amasse qualcun altro che non fossi io".
Áróra annuì una volta soltanto. "Hai mai parlato con qualcuno del tuo orientamento sessuale?"
"Sì. Werner".
"E hai mai parlato con qualcuno, a parte Werner, dei tuoi sentimenti per Dísella?"
"No".
"Perché?"
"Perché avevo paura di essere giudicata".
"Il giudizio è parte integrante della sfera sociale. Ne abbiamo già largamente discusso".
"Sì, ma" e Johanna scattò in piedi, urtando il tavolino con la punta della scarpa, come se una scarica elettrica l'avesse percorsa per intero. "Con me è diverso, è tutto diverso, non so più come glielo devo spiegare. Perché non mi ascolta e si limita solo a fare supposizioni? Perché è come se... se volesse provocarmi? Le ho già detto che non posso dire di essere lesbica. Nessuno lo accetterebbe, è così difficile da capire?"
Áróra la guardò dal basso senza battere ciglio. "Suppongo perché è l'unico modo che ho per conoscerti meglio. Ora sei arrabbiata?"
"Sì-sì, diavolo, sì" Johanna si portò le mani alla testa e lasciò che le dita le scivolassero all'indietro, in mezzo ai capelli. "Mi ha fatta incazzare".
La dottoressa Áróra non si alzò.
"Siediti e bevi, allora".
Johanna rimase in piedi per una manciata di secondi ancora, i pugni contratti sulla testa e le narici dilatate - un fuoco anomalo le aveva incendiato la faccia, rendendole le guance rosse.
Si guardarono entrambe con insistenza e Johanna fu, a suo malgrado, la prima a riporre le armi. Si sedette e bevve tutto il contenuto del bicchiere in un sorso solamente. Passò un intero minuto in cui nessuna delle due si azzardò a parlare.
Fu Áróra a rompere consapevolmente il silenzio venutosi a creare. "Abbiamo parlato del giudizio durante una delle nostre prime sedute. Ricordi?"
"Sì".
"Mi hai detto che preferisci essere sempre nella posizione del giudicante. Perché?"
"Perché il giudicante non ha mai colpe".
"E il giudicato?"
Silenzio.
"E il giudicato, Johanna?"
"Le ha".
"E tu da chi ti senti giudicata?"
Johanna scacciò una lacrima col dorso della mano. Il bruciore agli occhi era diventato ingestibile.
"Io, non... Non mi sento..."
"Da chi?"
"Mia... nonna" ammise infine.
"E lei, per te, è sempre stata una giudicante perché non ha nessuna colpa?"
"Lei ha le sue colpe".
"Vedi? Essere un giudicante non ti pone su un gradino più in alto rispetto agli altri. Non ti santifica né tantomeno ti mistifica agli occhi altrui. Nella vita di tutti i giorni il ruolo di giudicante e giudicato non sono mai stabiliti: a volte è lo status quo a suggerirlo, una posizione di privilegio. La costanza del giudizio dovrebbe essere una materia esclusivamente giuridica, a mio parere, non un'arma sociale. Il giudizio, sia negativo che estremamente positivo, può essere... letale. Il giudizio può diventare controllo e rovina".
Può essere letale. Può essere controllo e...
Rovina.
"Secondo te, cosa ti spinge a giudicare gli altri?"
La risposta fu diretta e lapidaria, la più sincera mai data in tutta la sua vita. "La paura".
"Che cosa ti spaventa?"
"Tante cose".
Il Litlaus.
"La tua paura più piccola?"
Il Litlaus.
"Restare chiusa fuori casa".
"E la più grande?"
Litlaus.
"Non essere... rispettata".
Morire e marcire nel Litlaus.
"E questo ti fa arrabbiare?"
"Moltissimo".
"Ma ci hai comunque messo una pietra su, una volta".
Johanna s'irrigidì, sapendo perfettamente dove Áróra volesse andare a parare. "Quella è una storia vecchia".
"Ma lei non ti ha mai rispettata mentre prendevi il tuo ruolo di giudicante nei suoi confronti. Secondo te, perché è accaduto?"
Johanna si portò un boccolo spaiato dietro l'orecchio e il cellulare nella tasca del suo trench vibrò una volta. "Non lo so" mormorò.
Áróra inclinò il capo di lato. "Hai mai provato invidia nei suoi confronti?"
"Tanta" ammise la paziente. "Troppo invidia tutta insieme".
"Eppure mi hai raccontato di averla aiutata in più di un'occasione. Ne aveva bisogno? Tu ne sentivi il bisogno?"
Johanna tergiversò un momento, poi annuì una volta solamente.
"Aiutarla come ti ha fatto sentire?"
"Bene".
"Perché?"
"Perché" Johanna deglutì, incollando gli occhi al soffitto. "Perché è come se mi fossi rivista in... lei. E mi innervosiva. C'erano tantissime cose di lei che mi mandavano fuori di testa. Era più forte di me. Ogni volta che-" e mandò giù un'altra palla d'aria. "Ogni volta che mi guardava era come se capisse ogni cosa di me. Davanti a lei mi sentivo fatta di vetro. Trasparente. Mi guardava fuori, dentro e... avrei voluto che... che la smettesse, ma al tempo stesso non lo desideravo davvero. A modo suo mi ha trattata come un essere umano, nonostante io l'avessi minacciata più e più volte. Non mi ha mai... scansata veramente".
"Lóreley era una giudicante oppure una giudicata?"
Johanna contrasse l'indice della mano destra e un'altra lacrima le rigò la guancia. "Nessuna delle due cose".
"E cosa, di preciso, ha scatenato dell'invidia in te nei suoi confronti?"
"Non lo so di preciso. Ma ricordo cosa me l'ha fatta rivalutare".
"Cosa?"
I ricordi fluirono nella sua testa a una velocità considerevole. Un attimo e a Johanna parve di star seduta al Koffibarinn, la bocca che cercava di acchiappare la cannuccia del milkshake al cioccolato, Ber che ciancicava a bocca aperta una delle sue solite gomme alla cannella e Dubois che, con calma glaciale, le chiedeva sottovoce...
"Mi ha chiesto cosa volessi in cambio di un favore".
"Ti è sembrato strano?"
"Sì".
"Perché?"
"Perché nessuno si è mai azzardato a chiedermi cosa volessi in cambio. Perché sono sempre stata io quella ad avere il coltello dalla parte del manico. Ho sempre scelto e dettato io le condizioni. Lóreley invece si è azzardata a fare il contrario e questo mi ha dato sui nervi. Lì ho avuto modo di capire cosa fosse veramente".
"E com'era?"
"Me. Era come me, ma non dava a vederlo, riusciva a mascherarlo piuttosto bene. Egoista, curiosa, falsa... ogni cosa che ha fatto l'ha fatta per dare una spiegazione alla sua condizione. Accettare il mio aiuto era tra queste".
"La tua, quindi, è stata una rivalutazione negativa?"
"No".
"Positiva?"
"Nessuna delle due cose. L'ho semplicemente rivalutata in modo neutro. Ma il desiderio di aiutarla mi ha comunque assillata per giorni".
Áróra annuì ancora, sistemandosi gli occhiali rossi sulla punta del naso. "Hai mai provato attrazione nei suoi confronti?"
Johanna ricominciò a massaggiarsi l'indice vuoto. Ammetterlo così apertamente...
"Sì, credo".
"Simile a ciò che hai provato per Dísella?"
"Sì".
"Ne hai mai parlato con qualcuno?"
"Werner. Anche se non avrei dovuto - lui era cotto di lei. Un po' credo che lo sia ancora".
"Tu e Werner - fingete ancora di essere una coppia?"
Johanna scosse la testa.
"Ti sta a cuore come persona? Lo reputi un amico?"
"Migliore amico, ma la mia ossessività ha fatto allontanare anche lui. Prevedibile. Non ero l'unica a fingere per proteggere qualcosa di molto personale. Anche lui desiderava altro, anni fa".
"Cosa?"
"Notorietà" - all'interno della Cerchia. Fingere di scoparmi non l'ha portato molto lontano, però. E io sono finita così, sola come un cane davanti una strizzacervelli perché non riesco ad accettare la mia omosessualità e a controllare i miei scatti di rabbia. Ben fatto, Johanna. Ben fatto. Sarai un'ottima leader all'interno della Cerchia.
Áróra guardò il quadrante dell'orologio che portava al polso e Johanna capì.
"Sto tardando l'appuntamento con un altro paziente".
"Si figuri".
"Verrai il prossimo giovedì?"
Johanna si morsicò il labbro inferiore prima di rispondere. "Verrò. Mi segni pure in agenda".
Afferrò la borsa a secchiello che aveva lasciato accanto all'entrata dell'ufficio e uscì evitando ulteriori convenevoli. Un uomo sulla sessantina si alzò da sedere quando la vide entrare nella saletta d'attesa, di un verdone bottiglia e arredata con mobili in art-deco. Il signore la salutò di cortesia con un piccolo sorriso prima di infilarsi nell'ufficio, ma Johanna non gli diede peso. Si fermò sulla bocca dello stretto corridoio che dava sull'uscita, nei pressi di un enorme specchio a parete. Si voltò.
Il riflesso con cui si ritrovò faccia a faccia le era estraneo. Erano bastati una manciata di minuti nella stessa stanza con una strizzacervelli per...
Per renderla ciò che era veramente. Perché aveva deciso di farlo? Perché aveva scelto di mettersi in discussione proprio in quel momento che era il più sbagliato di tutti? Perché? Cosa avrebbe fatto la Johanna di un paio d'anni prima, ora che le cose stavano peggiorando a vista d'occhio?
Niente. Non avrebbe fatto un bel niente.
Niente.
Si avvicinò allo specchio e raccolse una sbavatura di maschera col polpastrello, cancellando qualsiasi prova legata al pianto e alla debolezza. E constatò che quel maglioncino di cashmere color kaki le stava proprio bene.
Uscì dall'edificio che il cellulare vibrò ancora. La neve di Reykjavík ancora indugiava su strade e marciapiedi, mentre il freddo era così tenace da smorzare il respiro. Chiuse con una mano entrambi i lembi del trench imbottito e svoltò l'angolo. A una decina di metri da lei, Ber marciava avanti e indietro per non rischiare di morire congelata.
"Non è esattamente il clima ideale per il chiodo di pelle, microcefalo".
Bergljót riaccese il drum spento e tirò una corposa boccata, fermandosi. "Mia regina" annunciò. "Quasi non ci credo che ti stia a cuore la mia salute".
"Infatti la mia era una constatazione per rimarcare quanto tu sia stupida, non di certo della preoccupazione nei tuoi confronti" rettificò Johanna quando le fu davanti. "Da quanto sei qui?"
"Mi avevi detto tre e mezzo. Sono le quattro. Fatti due conti" le rispose a tono Bergljót, espirando. "Bello il maglioncino".
"Addosso a te starebbe una merda" disse Johanna. Poi allungò una mano verso di lei.
"Perché non te le compri, le sigarette?"
"Scroccartele non alimenta il mio vizio".
Bergljót si lasciò sfuggire un grugnito e le passò il kit per rollare, racchiuso in un borsello verde fluo. "Avevi detto che non saresti più venuta, qui".
"Sono un'eterna indecisa" ammise Johanna, scartando un filtro e acchiappandolo con le labbra. "Ne avevo bisogno" aggiunse in un filo di voce.
Bergljót si appoggiò al muro alle sue spalle. Guardò in alto e mandò giù un altro tiro.
"Dovrei portarci mio padre".
"Dovresti andarci tu, piuttosto".
"Il fatto che io abbia problemi con le figure autoritarie e genitoriali è cosa risaputa. Sto benissimo così" disse Ber. Si voltò a fissarla.
Johanna non alzò gli occhi. "Che c'è?" sbuffò, spargendo il tabacco secco sulla cartina.
"Di cosa avete parlato?"
"Perché vuoi farti i cazzi miei?"
"Per avere del materiale per ricattarti in futuro, mi sembra ovvio".
Johanna non rispose. Leccò l'estremità della cartina e chiuse la sigaretta appiattendola con gli indici. Se la portò alla bocca e si avvicinò quel giusto da permettere a Ber di accendere l'estremità con lo zippo d'acciaio. Inspirò e mandò giù il primo tiro con facilità, nonostante la marca di tabacco fumata dalla Seconda fosse la peggiore sul mercato. Tenne il grumo di fumo in corpo fino a sentire la gola pizzicare, poi lo sputò fuori, appoggiandosi anche lei al muro di mattoni alle sue spalle.
"Vuoi proprio saperlo?"
"Stiamo avendo una conversazione di circostanza. Ovviamente scherzavo sul ricattarti. Non so se sia lo stesso per te quando mi chiami microcefalo oppure mangia-paella".
Il giudizio può essere... letale. Il giudizio può diventare controllo e rovina.
"Abbiamo parlato di giudizio".
"Giudizio" rimarcò Ber. "Giudizio?"
"Giudicante e giudicato. Il mio sport preferito, a quanto pare".
Bergljót si piegò sulle ginocchia. "Non credo lo sia più".
Johanna la guardò dall'alto, ciccando. "Umh?"
"Avanti, stiamo parlando. Mi scrocchi le sigarette, io ho smesso di avere -momentaneamente- voglia di prenderti a pugni, andiamo a cena fuori assieme e non paghiamo neanche il conto. Abbiamo un destino in comune, chi l'avrebbe mai detto? Insomma, non credo che tu sia più... una giudicante. Hai meglio da fare, adesso".
"Ad esempio?"
"Giudicare te stessa" rispose lapidaria Ber, alzando la testa per incrociare il suo sguardo.
Giudicare me stessa...
"Per giudicarsi bisogna avere un bel coraggio".
Coraggio?
Il giudizio può diventare controllo e rovina.
"Oggi sei più saggia del solito".
"A mio vantaggio posso dire di fare parecchia auto-analisi. Dovresti provare anche tu".
Johanna rubò un altro tiro di sigaretta e si perse nella contemplazione del nulla più totale. Bergljót non aveva tutti i torti, anzi: certe premesse, la Johanna di un tempo, avrebbe solo potuto sognarsele - e ridere a crepapelle al solo pensiero di frequentare una come Ber. Ma aveva fatto centro, la mangia-paella, cacciando in calcio d'angolo la storia del destino comune. Se prima di loro, anni, decenni o secoli addietro, altre Prime e Seconde si erano trovate a collaborare nonostante le rivalità, un motivo vincente sarebbe potuto essere l'istinto di sopravvivenza. E sia Ber che Jo' ne avevano da vendere, ora che il seiðmaðr si era rivelato per il mostro che era e aveva cominciato a mozzare teste di donne per puro capriccio.
Senza volerlo, Johanna aveva ripreso a massaggiarsi l'indice col pollice, il drum che oscillava ad ogni nuova carezza data al solco lasciato dall'anello.
Il giudizio può diventare controllo e rovina.
"Comunque, insomma, dovresti..."
"Sono lesbica".
Bergljót tornò ritta con snervante lentezza. "Eh?"
"Parlo arabo?"
"Ahm... no. Ti ho capita".
"E perché hai risposto eh?"
"Perché-" Bergljót si grattò una guancia. "Un'esclamazione di circostanza".
"Ah" Johanna spostò lo sguardo altrove. "Un'esclamazione di circostanza".
"Beh, sì. Cosa dovrei dirti? Domandarti?"
"Umh... non lo so. Qualsiasi cosa?"
"... Werner?"
"Prevedibile" Johanna ciccò senza aspirare. "Siamo stati insieme - fino a un certo punto".
"E a lui l'hai detto?"
"Certo che gliel'ho detto".
"E perché lo stai dicendo anche a me?"
"Per sentirmi... meglio" rispose Johanna senza pensarci troppo.
"E ti senti meglio?"
"Beh... forse. Credo. Credo di sì".
Bergljót inarcò un sopracciglio. "Sono la tua terapia d'urto, per caso?"
"Sei il mio urto attuale, ti correggo".
"Ah, beh. Ecco la Johanna che conosco bene".
Johanna mascherò un sorriso con un colpo di tosse. "Ho una reputazione da mantenere, ricordatelo".
Bergljót fece spallucce. "Anche mia sorella è lesbica".
"Lo so, me lo ricordo".
"E me l'hai detto per vedere come avrei reagito?"
"No. Te l'ho detto per cominciare a stare bene".
Ber riaccese il suo drum e consumò gli ultimi tiri in silenzio e Johanna fece lo stesso. D'improvviso, dopo averlo detto tutto d'un fiato alla persona che più aveva detestato in vita sua, si era sentita più leggera. L'euforia e la paura che l'avevano tenuta sotto scacco erano svanite in un battito di ciglia. E tremava, adesso - forse a causa dell'adrenalina. O per l'imbarazzo, oppure per il freddo pungente. Ma stranamente non le importava. Quelle emozioni erano solo sue. Sue e di nessun altro, come il giudizio verso se stessa.
Bergljót schiacciò il filtro della sigaretta col tallone.
"Sei proprio sicura di voler andare all'obitorio?"
Johanna la guardò di sottecchi. "Sì".
Ber cominciò a camminare verso la sua jeep. "Non ti andrebbe un po' di shopping? Posso essere la tua tassista".
"E porta-borse" aggiunse Johanna. "Mi piace quando qualcuno sfacchina per me".
"Accordato".
"No, Bergljót. Non ho la carta di credito".
"Cosina-con-gli-occhi?"
"Magari stasera a cena" asserì Johanna. "Prima andiamo a rovinarci l'appetito con una bella testa mozzata".
✖
Ohibò, chi non muore si rivede! (x2)
Avevo detto che il capitolo sarebbe uscito a breve, vero? E invece no, perché ho fatto due conti con un bellissimo blocco dello scrittore - ma adesso sto cercando di rimettermi in carreggiata! Vi aspettavate il continuo del prologo? Sbagliato (sono malvagia, lo so. Chissà come se la stanno passando Gaël e Gíta).
Vi aspettavate un cambio di direzione così netto per Johanna? Se sì, mi piacerebbe discuterne nei commenti! Fatico ad ammetterlo, ma la stronzona bionda ha ormai un posticino sicuro nel mio cuore. Crush a parte, sono felice di poter portare avanti anche il suo punto di vista - che, onestamente parlando, mi sta dando parecchie soddisfazioni. Non vedo l'ora di mostrarvi anche gli altri pov e i legittimi proprietari! Sarà divertente (e faticoso) scrivere di ognuno di loro, ma nutro buone speranze. Dunque, ci vediamo col secondo capitolo! E' già in fase di betaggio, perciò stay tuned!
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